Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Il romanzo degli indignati che hanno barattato la governabilità con la stabilità

Claudio Cerasa

Come è stato possibile avere un Parlamento legittimato a governare non per cambiare il paese, ma per cambiare la legge elettorale

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella custodisce un piccolo segreto che porta il suo cognome e che riguarda un passaggio cruciale di questa legislatura, senza il quale non è possibile capire fino in fondo il dibattito un po’ surreale, un po’ goffo e un po’ ipocrita che caratterizza ogni singola discussione sulla legge elettorale. Un passaggio poco noto, e in parte non ancora ricostruito, che andrebbe quantomeno ricordato ai vecchi e ai nuovi salottari della politica che in questi giorni si mostrano così affranti e così disperati al cospetto di un’idea considerata incomprensibile e semplicemente scandalosa: andare a votare alle prossime elezioni con una legge elettorale proporzionale partorita, vergogna!, dai giudici della Corte costituzionale. Il passaggio riguarda una data precisa che coincide 4 dicembre 2013. In quell’occasione la Consulta, di cui all’epoca faceva parte tra gli altri anche Sergio Mattarella, dichiarò incostituzionale la legge Calderoli, contestando al così detto Porcellum l’entità del premio di maggioranza assegnato e l’impossibilità per l’elettore di fornire una preferenza. I giudici della Corte decisero dunque di abolire solo parzialmente la legge Calderoli creando di fatto una legge elettorale molto precaria. Ma al contrario di quello che fu raccontato nelle ore successive, la decisione non avvenne solo per ragioni squisitamente costituzionali ma anche per ragioni di carattere politico che in qualche modo si trovano all’origine dell’ingorgo istituzionale in cui ci troviamo oggi.

 

Non è un piccolo passaggio tecnico, è un significativo passaggio politico, che tra le altre cose testimonia la progressiva trasformazione della Corte costituzionale in un cruciale e attivo attore anche della vita politica. In quell’occasione, il 4 dicembre 2013, la Consulta, una volta ritenuta non costituzionale la legge Calderoli, aveva due strade di fronte a sé: da un lato abrogare parzialmente il Porcellum (cosa che è avvenuta), dall’altro abrogare interamente il Porcellum (e sbarazzarsi così di una legge incostituzionale) facendo rivivere la legge elettorale precedente, ovvero il Mattarellum. Nonostante un’opposizione dura di una parte dei membri della Corte costituzionale (compreso l’attuale presidente della Repubblica) la maggioranza dei giudici decise di non prendere in considerazione la seconda opzione non per ragioni di carattere costituzionale ma per ragioni di carattere per l’appunto politico: con una legge elettorale pienamente funzionante il governo sarebbe stato messo duramente a rischio e offrire così al Parlamento una legge già pronta per essere utilizzata avrebbe accorciato la vita alla legislatura e all’allora governo Letta. Il passaggio al Mattarellum sarebbe stata un’opzione quasi naturale ma nonostante la logica di questa opzione, nelle settimane precedenti alla decisione della Corte il fronte politico favorevole al maggioritario scelse di non intervenire in nome della stabilità e rinunciò ad adottare la preziosa arma della moral suasion utilizzata invece due anni dopo in modo robusto alla vigilia della decisione della Consulta su un altro punto di un’altra legge elettorale: il ballottaggio dell’Italicum. La storia non si fa con i se e con i ma, d’accordo. Ma se i giudici della Corte costituzionale avessero avuto a cuore più il dogma costituzionale del rispetto del maggioritario (sancito dal referendum del 1991) che il dogma politico e culturale del rispetto della stabilità (non sancito da nessun referendum) non avremmo mai avuto l’Italicum (amen), non avremmo mai avuto una legislatura tenuta forzosamente in vita dai giudici (il governo Renzi è nato per fare una legge elettorale, con una legge elettorale in vigore probabilmente non ci sarebbe mai stato un governo Renzi).

 

Non avremmo avuto l’imbuto che si è creato dopo il 4 dicembre (il governo Gentiloni è nato anche perché la Consulta, con un tocco da biliardo, due giorni dopo la vittoria del No al referendum costituzionale, il 6 dicembre 2016, ha scelto non di accelerare ma di rinviare la discussione sulla legittimità costituzionale della legge elettorale alla fine del gennaio 2017, rendendo di fatto impossibili le elezioni anticipate dopo la vittoria del no del 4 dicembre) e soprattutto non avremmo avuto i mesi di discussioni inutili sulla legge elettorale che hanno segnato il passo di questa legislatura. Quella decisione (un po’ sciagurata) della Corte costituzionale fu sostenuta e in qualche modo auspicata da una buona parte della classe dirigente politica che dopo aver barattato il principio della stabilità con il principio della governabilità oggi mostra grande disperazione, signora mia, di fronte all’incomprensibile ritorno al proporzionale. E se vogliamo il partito che nel 2013 ha scelto di barattare preventivamente la stabilità con la governabilità è un partito che era già emerso alla luce in un altro passaggio importante di questa complicata legislatura.

 

Il nastro questa volta va riportato indietro solo di pochi mesi rispetto alla sentenza con cui la Corte Costituzionale ha scelto di abrogare solo un pezzo del Porcellum e il nostro rewind deve fermarsi in una fascia temporale compresa tra il 17 maggio del 2013 e il 29 maggio del 2013. Il 17 maggio del 2013 la Cassazione decide di rinviare alla Corte Costituzionale il ricorso sulla legge Calderoli e i giudici fanno sapere di aver bisogno di sette mesi per prendere una decisione sulla costituzionalità del così detto Porcellum. Il 29 maggio del 2013 – a un mese dal giuramento del governo Letta, e sette mesi prima che Matteo Renzi diventasse per la prima volta segretario del Pd – un deputato del Partito democratico (Roberto Giachetti) tenta un’operazione spericolata ma che rivista oggi sarebbe stata risolutiva. Giachetti presenta una mozione per superare il Porcellum – e scongiurare che siano i giudici a dover decidere con quale legge elettorale tornare a votare – e porta in Parlamento una proposta di reintroduzione del Mattarellum sottoscritta da ottantaquattro deputati di diversa matrice politica. Vale la pena riportare i cognomi così come compaiono nella mozione 1/00053. Giachetti, Antonio Martino, Migliore, Schirò Planeta, Bueno, Luciano Agostini, Aiello, Airaudo, Anzaldi, Biffoni, Bobba, Boccadutri, Bonaccorsi, Bonafè, Bonifazi, Franco Bordo, Boschi, Bruno Bossio, Capozzolo, Carella, Carrescia, Caruso, Causi, Civati, Coccia, Coppola, Costantino, Dallai, Decaro, De Menech, Marco Di Maio, Di Salvo, Donati, Duranti, Ermini, Famiglietti, Fanucci, Faraone, Fratoianni, Fregolent, Gandolfi, Gelli, Gentiloni Silveri, Gozi, Gutgeld, Lacquaniti, Lavagno, Lotti, Madia, Magorno, Martelli, Melilla, Morani, Nardella, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Parrini, Pastorino, Peluffo, Salvatore Piccolo, Pilozzi, Piras, Quartapelle Procopio, Rampi, Realacci, Ricciatti, Rotta, Sberna, Scalfarotto, Taricco, Tentori, Vargiu, Venittelli, Ventricelli, Verini, Zan, Zanin, Zaratti, Rughetti, Carbone, Carbone.

 

La mozione (firmata da esponenti di tutti i gruppi parlamentari) ricevette un parere fortemente negativo da parte del presidente del Consiglio (Enrico Letta, che d’altronde si era da poco insediato) e i membri del governo, in sintonia con il Quirinale, in quei giorni si impegnarono per evitare che l’approvazione di quella legge (osteggiata da Forza Italia prima ancora che dal Pd) facesse saltare la grande coalizione tra Pd e Forza Italia. Giachetti non ritirò la mozione, quasi tutti i deputati del Pd rispettarono le indicazioni del presidente del Consiglio e il Parlamento scelse di seguire la stessa logica adottata qualche mese dopo dalla Consulta: il principio di stabilità vale mille volte di più del principio della governabilità. La storia non si fa con i se e con i ma. Eppure a ripensarci oggi – e qualche protagonista di quelle ore oggi ci sta ripensando – se il principio della governabilità fosse stato messo sia dal Parlamento e sia dalla Consulta su un piedistallo più in alto rispetto al principio della stabilità avremmo avuto il governo più breve della storia della Repubblica (il governo Letta) ma avremmo avuto un diritto che oggi ancora non abbiamo: il diritto di avere un Parlamento capace di dimostrare di essere stato eletto non solo per cambiare disperatamente una legge elettorale ma per provare a cambiare disperatamente un paese.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.