Sullo ius soli serve razionalità, non lezioni sentimentali
E’ il momento di spiegare con calma e sangue freddo come stanno le cose piuttosto che dare libero sfogo a piccole demagogie
Le avventure del moralismo e della demagogia in politica sono stupefacenti. Chi condanna per oscenità le paure di quelli che temono l’espropriazione dell’identità e recita la parte dell’umanitarismo universalista a buon mercato sulla questione della cittadinanza per diritto di nascita nel territorio di una nazione è il peggiore dei demagoghi, il demagogo che non sa di esserlo. Considerare italiano chi vede la luce entro i nostri confini è cosa appena ovvia, già compresa di fatto nell’ordinamento pur senza il compimento dell’automatismo previsto dalla legge in discussione. E’ chiaro che il fatto legislativo si produce in un momento critico, quando le grandi ondate immigratorie sconvolgono il panorama antropologico delle nostre società in uno scenario per di più tragicamente caratterizzato dalla violenza combattente dei religiosi islamici. Voci europee che dovrebbero essere ascoltate, anche per essere passibili di controargomentazione, dicono che è in atto il rimpiazzo demografico, e dunque civile, del vecchio ordine e della vecchia identità biologica e storica del nostro mondo. A tutto questo, e alle paure che il terrorismo di Finsbury Park segnalano come fenomeni che vanno oltre il limite dell’umanità e della nostra cultura civile, non si può rispondere che in una logica di normalizzazione del fatto, di spiegazione della sua oggettività.
Invece i soliti correttisti politici, gli stessi che hanno trasformato per dabbenaggine l’America di Obama nell’America di Trump, cioè un orrore ideologico in un altro e peggiore orrore ideologico, non fanno che definire la loro diversità e superiorità morale nelle forme del moralismo più spicciolo e greve, con un fondo intimidatorio che sembra fatto apposta per spingere i mercanti di consenso politico sulla via di un incerto referendum abrogativo, e in quella direzione moltiplicando gli allarmi e le fobie. Non è un avversario morale della gente per bene, chissà quale gente, poi, chi si domanda come sia possibile reggere e tenere insieme una comunità nazionalizzando ope legis quasi un milione di nati qui nel contesto del fenomeno migratorio. E’ solo un cittadino che ha un’opinione diversa da quella destinata a prevalere in Parlamento, è qualcuno con cui bisogna parlare senza risparmio di energie, e parlando una lingua persuasiva, nutrita di fatti e non di insulti e censure perbeniste. E’ qualcuno che non giudica e manda dall’alto della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, qualcuno che si interroga, si preoccupa, vede intorno a sé un quadro sociale in dissoluzione, privo di autorità e ormai incerto, nella famiglia e nella città, sui fondamenti della vita civile, un mondo sconsacrato e bellicista, in cui l’accordo sui criteri di vita manca sensibilmente. Schiaffeggiarlo per disumanità è un modo di mettere nei guai tutta una prospettiva di contrasto identitario e insieme di integrazione delle diversità, un modo per negare, al di là delle parole altisonanti e mandatorie dei demagoghi umanitari, che il multiculturalismo è un fallimento accertato, per certi aspetti un cerchio infernale che ci siamo costruiti con le nostre mani in mezzo a equivoci, rinunce, passività, sensi di colpa, indulgenze e pigrizie drammatiche.
E’ il momento di spiegare con calma e sangue freddo come stanno le cose, quanto è possibile e doveroso fare, non di impartire lezioni sentimentali. E di rassicurare, offrendo concrete dimostrazioni del fatto che la tutela sociale e statuale dei diritti individuali, di fronte a fenomeni che alla fine possono risultare nemici dei nostri diritti e delle nostre vite private e pubbliche, si fa largo come convinzione generale e fatto politico. Altro che moraline, bisogna dare un’armatura di razionalità e di volontà a un mondo che sente di averla persa. Un compito decente e grave, non un affare per piccole demagogie.