Repubblica col gioco che non c'è, l'allenatore che non quaglia e il pubblico che fischia
Al quotidiano di Calabresi non resta che fare la mosca cocchiera della sinistra formato Roberto Speranza. Uno schema di gioco che però, molto spesso, annoia. E Carlo De Benedetti ora lascia la presidenza di Gedi
Cambiare schema di gioco è il tipo di cose che fanno le squadre in difficoltà per riprendersi il centrocampo, e magari recuperare spettatori paganti. La metafora è banale, scusate, per cotanto argomento: ma si fa prima. Nelle ultime settimane Repubblica ha provato a dare due o tre drizzoni. Prima la campagna contro il voto anticipato, non appena la strana coppia Renzi-Cav. aveva tentato il contropiede alla tedesca. Un arrocco condotto in prima persona dal direttore, ma dietro si stagliava l’ombra ingombrante del Colle. E pure del Colle emerito, eterno nume tutelare di Mario Calabresi. Poi la battaglia delle “sei riforme da non tradire”, copia sbiadita delle dieci domande e dei post-it. Infine l’attacco a testa bassa contro il M5s, l’insistenza perfino sguaiata, manco fosse in ballo il Watergate, nel difendere lo scoop non confermato dell’incontro Salvini-Casaleggio. L’inciucio dei populisti.
Il gruppo Repubblica-Espresso un anno fa s’è mangiato la Stampa, adagiata e consenziente sul vassoio. Carlo De Benedetti ora lascia la presidenza di Gedi, il gruppo editoriale, al figlio Marco. Tra pochi giorni sarà finalizzata la fusione con Itedi, l’editore di casa Agnelli. Naturale conclusione di un processo virtuoso e vittorioso, per CdB, al termine di una lunghissima cavalcata. Solo che. Solo che il boccone della Stampa non è andato né su né giù, a CdB. Gli è capitato, nei mesi scorsi, di farsi sfuggire (se l’uomo mai si facesse sfuggire) apprezzamenti al giornale sabaudo, alla cui prima lettura non rinuncerebbe mai; la cui identità spiccata, atlantica persino, né lui né nessuno vorrà mai sfregiare. Nella cui capacità di avere una linea, uno stile, il patron trova tuttora sagace divertimento. E invece la figlia prediletta. La figlia prediletta Repubblica, invece, da tempo non dà più soddisfazioni, né emozioni. E non solo per la perdita di copie (secondo Ads da aprile 2016 il calo è da 212 mila a 177 mila). Questione che certo cruccia CdB, uomo di conti, ma soprattutto Monica Mondardini, ad di Cir e del gruppo editoriale, che come ogni buon manager l’ultima cosa che vorrebbe è accollarsi conti in peggioramento. Ma la baracca è grossa, dura da dimagrire.
Si prova a cambiare gioco, di solito, per due motivi. Per salvare la squadra. O per salvare l’allenatore. E lì, le strategie, tra patron e uomo al comando, possono anche divergere. L’importante è capire che succede. Che succede a Repubblica? Il quotidiano che per quarant’anni è stato il giornale-partito, e fino a 17 mesi fa, all’addio di Ezio Mauro, ancora teneva botta nel dettare l’agenda, seppure con Renzi fosse più dura, in un anno ha perso ruolo. E chi non l’ha perso, del resto, a sinistra? La Seconda Repubblica è morta, la Terza non è nata. Hai voglia a fare il player e il kingmaker, due ruoli in cui Scalfari è stato un gigante novecentesco e Mauro uno stratega d’acciaio (per quanto abbiano spesso perso le finali). Quando Calabresi arrivò, spaccò in due la redazione. I vecchi duri e puri indignati, che ora rimontano. L’altra metà, silenziosa ma contenta che cambiasse l’aria. Oggi anche i fiduciosi si sentono delusi da una gestione che ha perso smalto, senza trovare la terza via. Repubblica è un giornale-armata, ha sempre avuto bisogno di un nemico. Grillo un po’ lo è, ma mai messo bene nel mirino, e più per una questione di primogenitura – in fondo il “vaffa” alla politica lo inventò Rep. – che per convinzione. Sergio Rizzo non è arrivato per caso. E’ un vicedirettore da “capitale corrotta, nazione infetta”, più che da vaffa. Renzi può essere un nemico parziale, altrimenti sarebbe come dichiararsi utili idioti del Cav., se vi pare possibile. Il Quirinale è il faro, ma hai voglia a farlo digerire al ceto medio riflessivo che è storicamente il popolo di Rep. Così succedono due cose. La prima, è che il giornale un po’ non ne azzecca una, un po’ non pesa, un po’ non ha più un’identificazione forte col suo pubblico.
Il pubblico generazionale e ideologizzato di Scalfari, il pubblico che Mauro seppe (giudizi di merito a parte) compattare attorno ai Palasharp e ad altri totem e tabù. Oggi è il giornale guida per chi? Un pensiero maligno che galleggia in molti cuori è che il miglior lavoro fatto da Calabresi in vita sua possa essere l’eutanasia di Repubblica. Al Corriere di Cairo non sfugge. E un po’, non è difficile intuire, non sfugge anche CdB, che con i suoi 81 anni è uomo sanguigno, pugnace. Ha sempre voluto imporre la politica, non subirla. Il grande fantasma aleggia, come su tutte le panchine non vincenti, quello della rimozione dell’allenatore. Rumors troppo diffusi, per considerarli rumori di fondo. Potrebbe succedere presto, sarebbe un trauma per un quotidiano che in quarant’anni ha avuto due soli direttori. E che direttori. Ma non è questo il punto. Non è obbligatorio scaricare la perdita di visione di gioco tutta su Mario Calabresi. L’invenzione del papa straniero è una delle specialità della casa. Questa volta è Giuliano Pisapia, ma è un cavallo che gira in tondo. Così, oggi, a Rep. non resta che fare la mosca cocchiera della sinistra formato Roberto Speranza, diciamo. O peggio ancora a rimorchio di Tomaso Montanari. E’ uno schema di gioco che Scalfari e Mauro hanno attuato molte volte. Solo che, altrettante, i papi stranieri di Rep. hanno fatto flop. Annoiano, e si passa a leggere altri giornali. Però se lo fa pure CdB, sono guai.