Il Pd in panne
“Rifare il centrosinistra” (linea Orlando) o no? “Rafforzare il profilo riformista”, dice Ricci
Roma. Il giorno che segue la sconfitta elettorale del Pd, nel Pd, di buon mattino, ci si confronta per così dire su Twitter: il ministro della Giustizia Andrea Orlando, leader della minoranza, già avversario congressuale di Matteo Renzi, scrive che “il Pd isolato politicamente e socialmente perde quasi ovunque” e che bisogna “cambiare linea” e “ricostruire il centrosinistra subito”. E il subito, però, può avere diverse sfumature. Subito la maggioranza, nella persona di Matteo Orfini, presidente del partito, già commissario del Pd a Roma, invita “tutti quelli che dicono che dobbiamo rifare il centrosinistra” a ripassare la storia del centrosinistra “negli ultimi vent’anni” (magari, suggerisce Orfini, anche leggendo il lungo articolo monografico di Francesco Cundari uscito ieri su questo giornale, intitolato non a caso “L’Ulivo come un dramma – un po’ Shakespeare, un po’ ‘Trono di spade’… perché nessuno ha il coraggio di ammettere che il mito dell’Ulivo è una gigantesca fake news”).
Non sono frasi buttate lì per caso, quelle di Orlando e Orfini, e non è finita con i tweet, anzi è appena cominciata: nel pomeriggio, infatti, il ministro della Giustizia, intervistato sulla tv del Corriere della sera, ribadisce il concetto: “Ripartire da un progetto politico di centrosinistra. Renzi prenda atto che il Pd è isolato”, “D’Alema e Bersani? Non si possono rimettere insieme i cocci…”, e poi: “Ascoltare la società che non ci ascolta”, aprire “un tavolo delle forze di centrosinistra”. Non è facile, a questo punto, allontanare l’immagine dei vent’anni (1997-2017) in cui l’Ulivo, prima, e l’Unione, poi, con in mezzo tutte le variazioni sul tema, hanno invano incarnato il cosiddetto, volatile e misterioso spirito unitario della sinistra. Esiste, lo spirito unitario? E’ mai esistito?
Intanto le visioni, nel giorno che segue la sconfitta elettorale delle amministrative che hanno visto risorgere nientemeno che un centrodestra dato per moribondo, continuano a essere più d’una. Ecco infatti che, dalla segreteria Pd, il responsabile Enti locali e sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, dopo aver ascoltato Orlando, dice al Foglio che “il centrosinistra è il Pd, e che non c’è centrosinistra senza Pd, e che quindi si deve partire da questo dato di fatto, e lavorare per rafforzare il profilo riformista del Pd e per migliorare l’organizzazione del partito, cosa non semplice ma essenziale nell’epoca dei social e della post-verità”.
Solo che tutto attorno alla segreteria del Pd non si fa che parlare d’altro, e cioè delle alleanze e della legge elettorale, argomenti che, per Ricci, non dovrebbero essere ora prioritari: “Io non chiudo a eventuali alleanze”, dice, “ma nell’ultimo periodo è stato commesso un errore: concentrarsi sulla tattica e sugli schemi. Invece a luglio, con l’arrivo della quattordicesima, si vedrà quanto si sono impoveriti i pensionati, e in generale non si potrà eludere il tema dell’impoverimento in alcuni settori della nostra società. Solo che noi non ne abbiamo parlato, come non si è parlato abbastanza di legge di Bilancio”.
Se la storia può insegnare qualcosa, dice Ricci, “è che ogni volta che il Pd si attorciglia in una discussione politicistica perde. E se a livello locale si è riusciti in passato a costruire coalizioni, bisogna riflettere sui veri motivi che hanno impedito di ottenere gli stessi risultati a livello nazionale, con coalizioni credibili. Il primo Ulivo aveva convinto perché c’era, alla base, un’elaborazione politico-culturale. L’Unione invece è apparsa come un’alleanza elettorale neanche fortissima. In questo senso il centrosinistra ha avuto più difficoltà della destra, e in prospettiva forse ne avrebbe: non penso, per esempio, che le uscite di Articolo 1 sul caso Consip abbiano aiutato nelle settimane pre-elettorali. Ripeto: il centrosinistra è il Pd, non c’è centrosinistra senza Pd”.
Ma come fare, praticamente, per rafforzare il “profilo riformista” del Pd e allargare la platea dei possibili elettori? “Intanto, si può studiare bene l’operazione Macron in Francia. Lì l’allargamento non è stato fatto replicando schemi di coalizione già risultati fallimentari in passato. Guardiamo all’oggetto, non allo schema”.