Manifestazione contro il trattato Ceta, organizzato da Coldiretti a Montecitorio (foto LaPresse)

Il sì di Pd e FI sul Ceta è una scelta comune di politica estera

Alessandro Maran

Gli accordi di libero scambio non sono mai solo una questione economica. Sono uno strumento diplomatico

La commissione Esteri del Senato, la settimana scorsa, ha approvato il Ceta, il trattato con il Canada sottoscritto dall’Unione europea. E il presidente Mattarella, in visita di stato in Canada, ha ribadito “il forte favore dell’Italia verso l’attivazione del trattato commerciale” e ha messo l’accento sul suo senso politico più profondo, “e cioè quella capacità, attraverso gli scambi, di creare relazioni pacifiche tra paesi, di rafforzare legami invece che barriere”.

 

Il punto è che l’accordo è stato approvato con i voti del Pd e di Forza Italia. Mdp (Bersani & co.) non ha partecipato al voto mentre Lega, Movimento 5 stelle e Sinistra italiana hanno votato contro. E’ un fatto politico importante, che giustamente il Foglio ha messo in risalto. Perché un conto solo le elezioni per amministrare i comuni e un altro le elezioni per governare il paese. E a livello nazionale bisogna condividere anzitutto le scelte politiche necessarie per affrontare degnamente lo scenario europeo ed internazionale. La politica estera viene prima di ogni altra cosa. Se si sbagliano la politica economica o la politica interna si rischiano, certo, il conflitto sociale, la disoccupazione (perfino la miseria) e anche l’instabilità, la corruzione o la tirannia, ma se si sbaglia la politica estera si rischia di compromettere un bene supremo come la pace; un paese rischia addirittura di scomparire (e gli esempi sono parecchi) o di essere “declassato”, con serie conseguenze sulla sua economia, sulla sua politica interna ed anche sul mantenimento dei suoi valori.

Niente di nuovo, a dire il vero. Non è passato molto tempo da che nascere dalla parte sbagliata della cortina di ferro, nell’Europa orientale sotto il controllo di Mosca, era una sventura. Inoltre, non è un mistero per nessuno che al Pci fosse interdetta la partecipazione al governo a causa dello stretto legame con l’Unione Sovietica. E sebbene il partito socialista governasse in molti comuni e regioni con il partito comunista, non si è mai sognato di farlo a livello nazionale.

   

Il primo governo Prodi, del resto, cadde alla vigilia della partecipazione italiana alle operazioni militari della Nato contro la Serbia (per il ritiro dell’appoggio esterno deciso da Rifondazione Comunista); e le cose non cambiarono con il secondo governo Prodi: il 21 febbraio 2007 la risoluzione dell’Unione in appoggio alla politica estera del governo non raggiunse il quorum per la defezione di due senatori della sinistra radicale (il nodo era quello sul mantenimento delle truppe italiane in Afghanistan).

   

Ora, l’accordo commerciale Ue-Canada è un pilastro fondamentale della politica europea (e, dunque, della nostra politica). Il Ceta è un cosiddetto “trattato di nuova generazione” che definisce in modo onnicomprensivo e dettagliato i rapporti economici tra due stati e regola sia le barriere al commercio che gli investimenti esteri. Questo tipo di accordi bilaterali a carattere preferenziale si è sviluppato come “risposta”, da un lato, alla paralisi della strategia multilaterale del commercio internazionale perseguita fin dal secondo Dopoguerra (che è stata per decenni uno dei motori principali di crescita e di progresso sia nei paesi sviluppati che in quelli emergenti); dall’altro, alla necessità di accordare agli investitori stranieri diversi e più estesi meccanismi di protezione (infatti, è profondamente innovativo anche dal punto di vista della tutela giurisdizionale dei diritti fissati dal trattato).

  

Al solito, specie con l’aria (di acceso protezionismo) che tira, sul Ceta è in atto una gigantesca campagna di falsificazione. Solo per fare un esempio, il trattato non incide affatto sulle restrizioni vigenti in Europa, in particolare sulla carne agli ormoni o sugli Ogm (tali divieti continueranno ad essere in vigore), tutela 173 indicazioni geografiche di provenienza, di cui 41 italiane (oggi nessuna di queste Igp è tutelata ed è innegabile che si tratta di un passo in avanti rispetto alla situazione attuale), ecc. Le organizzazioni del comparto alimentare hanno espresso, infatti, posizioni diverse. Alcune (come la Coldiretti) hanno manifestato la loro contrarietà, mentre altre (come Confagricoltura o i consorzi degli Igp) si sono espresse a favore. Ma si tratta di un accordo (che peraltro non si occupa solo di agricoltura, ma anche di commercio, edilizia, industria) molto vantaggioso (soprattutto per noi italiani che abbiamo una struttura produttiva votata all’esportazione e complementare a quella canadese), che costituisce una importante e rara occasione di crescita per l’economia italiana e quella europea nel suo complesso.

Va detto anche che molti dei problemi relativi al Ceta (il trattato, considerato di natura mista e non esclusiva, come pure prescritto dal trattato di Lisbona, sarà applicato provvisoriamente e avrà validità solo dopo la ratifica di tutti i parlamenti nazionali) non sono altro che problemi strutturali, irrisolti, nella costruzione europea. Si tratta di faglie politiche cruciali (fra politica estera e interna, centralizzazione e regionalismo, tecnocrazia e populismo) che, se dovesse venir meno la credibilità negoziale dell’Unione, finirebbero per allargarsi ulteriormente.

   

Inoltre, il Ceta è un altro tassello dell’enorme mosaico di trattati in materia economica che si sta organizzando, sempre più, in macro-aree regionali. Quella di siglare ampi trattati regionali è una scelta che permette, infatti, di governare gli squilibri e le perdite di benessere e competitività che una politica globale rischia di comportare. Non per caso, Angela Merkel la settimana scorsa ha invitato gli Stati Uniti e l’Europa a riprendere i negoziati sul trattato di libero scambio (Ttip) dopo il segnale di disponibilità americano a rilanciare le trattative. Gli accordi di libero scambio non sono mai solo una questione economica. Sono anzitutto uno strumento diplomatico: un modo per consolidare vecchie alleanze e forgiarne di nuove.

   

Insomma, si sta ridisegnando l’ordine mondiale; e il mondo sembra stia andando verso la formazione di blocchi regionali che svolgeranno il ruolo degli Stati nel sistema vestafaliano (motivo in più per spingere l’Europa a darsi una mossa). Può essere che non si riesca a parlar d’altro che di coalizioni, candidati premier, leggi elettorali, soglie di sbarramento? Anche perché insieme si possono fare solo le cose che si condividono. Punto.

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