Giuliano Pisapia (foto LaPresse)

Caos a sinistra. Pisapia si fa da parte e Bersani si smarca dal governo

Luciano Capone

Tramonta definitivamente l'idea di costruire un “nuovo Ulivo” insieme al Pd di Renzi

Roma. “Non penso nemmeno lontanamente di candidarmi alle prossime elezioni”, ha detto a una platea disorientata Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e fondatore di Campo progressista. “Adesso ho un impegno a cui credo ma non ho incarichi istituzionali e non ambisco a nessun ruolo”, ha aggiunto. Con il passo di lato di Pisapia non solo tramonta definitivamente la sua idea di costruire un “nuovo Ulivo” insieme al Pd di Renzi, ma aumentano le difficoltà per federare le sinistre a sinistra del Pd sotto l’ombrello di “Insieme”, di cui Pisapia era considerato leader in pectore. Anche questa seconda di Pisapia, quella di riunire almeno le principali forze di sinistra, è di difficile realizzazione. E per rendersene conto basta guardare in questi giorni la posizione in Parlamento delle varie sigle sul salvataggio delle banche venete. Tutta la sinistra è contraria al decreto, ma sulla fiducia al governo Gentiloni ha votato in tre modi diversi: Sinistra Italiana – nata dalla fusione di una parte di Sel, alcuni fuoriusciti del Pd e Possibile di Pippo Civati – ha votato contro, mentre Articolo 1 Mdp – nato da una scissione del Pd con l’innesto di una scissione di Sel – si è espresso in due modi differenti: a favore e non voto.

 

 

La posizione rispetto al governo Gentiloni è il fattore di maggior frizione e divisione, visto che Sinistra italiana è all’opposizione e Mdp in maggioranza. Anche se l’atteggiamento del partito di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema nei confronti dell’esecutivo è fortemente ambiguo. Perché formalmente è nel governo e nella maggioranza, ma nella sostanza è come se fosse all’opposizione. Il voto contrario ma non troppo sulle banche venete – no al decreto, sì e non voto alla fiducia – è solo l’ultimo di una lunga serie di strappi. Nonostante Mdp abbia sempre dichiarato di voler sostenere il governo Gentiloni fino a fine legislatura, soprattutto quando pareva che Matteo Renzi volesse le elezioni anticipate, sulle decisioni più importanti ha sempre fatto mancare il proprio appoggio. La lacerazione più nota è quella sulla reintroduzione dei voucher, legata a un importante provvedimento come la “manovrina”: Mdp scese in piazza con la Cgil, votò contro insieme alle opposizioni e per la prima volta non diede la fiducia (uscì dall’Aula). Altrettanto nota è la precedente decisione di non votare contro la mozione di sfiducia individuale nei confronti di Luca Lotti, a cui Mdp chiede di dimettersi. Ma Mdp si è diviso anche sul decreto sicurezza urbana (alcuni a favore, altri contro) e ha fatto mancare il sostegno al decreto Minniti sull’immigrazione: in maniera analoga a ciò che sta accadendo con le banche venete, Mdp prima si era diviso nel voto di fiducia (ex Pd per il sì, ex Sel per il non voto, e due deputati per il no) e dopo ha votato contro il decreto. Poi c’è stato il voto contro il ddl sulla legittima difesa e quello contro la manovra di cui abbiamo parlato. Mdp non ha votato neppure a favore della riforma del codice penale (ha preferito l’astensione), pur confermando sempre la fiducia al governo. Anche sull’introduzione del reato di tortura è arrivata l’astensione, la stessa che il partito ha espresso sul Ddl concorrenza, che pure era un tema una volta caro al liberalizzatore Bersani.

 

Anche sul Ceta, il trattato di libero scambio tra Unione Europea e Canada, in commissione esteri il partito di Speranza ha votato in modo difforme dalla maggioranza, schierandosi di fatto contro, in compagnia di M5s, Lega nord e Si. Persino su un tema come i vaccini il partito di Gotor vota insieme al M5s e contro il decreto Lorenzin. Che il partito di D’Alema e quello di Renzi siano incompatibili è evidente, e se n’è accorto anche Pisapia, ma ciò che non si comprende è il ruolo di Mdp nella maggioranza.

 

Pier Luigi Bersani, in un’intervista alla Stampa, ha già annunciato il prossimo terreno di scontro, che è la Legge di stabilità: “Se pensano a una manovra d’autunno di sgravi e bonus senza investimenti occhio che casca l’asino”. Ha poi aggiunto forti critiche al premier Gentiloni: “Ha seguito pedissequamente la linea del predecessore”. L’unità a sinistra passa dalla rottura della maggioranza che sorregge il governo. E pensare che prima di uscire dal Pd, una delle condizioni richieste a Renzi da Bersani e Speranza per evitare la scissione era il sostegno senza se e senza ma al governo Gentiloni.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali