"Contro la corruzione ci vuole meno burocrazia, non più demagogia". Parla Cantone
“No alla cultura del sospetto e all’anti corruzione come brand. Sì a pene vere per chi pubblica materiale coperto da segreto”. “I partiti? Sono favorevole a un ripristino di un finanziamento pubblico intelligente”, dice il capo dell’Anac
Roma. Contro la cultura del sospetto. Contro i metodi del processo mediatico. Contro l’incontinenza dei magistrati politici. Contro la demagogia sulle correnti della magistratura. Contro gli errori della legge Severino. Contro la patologia delle notizie in fuga dalle procure e poi regolarmente pubblicate su alcuni giornali. E soprattutto, e con Raffaele Cantone cominciamo proprio da qui, contro chi prova a trasformare la lotta alla corruzione in una macchina di propaganda politica. “Sì, me ne rendo conto, e detto da me capisco che possa fare un certo effetto. Ma la realtà oggi è che in Italia la battaglia contro la corruzione è diventata un brand che tira molto, sia mediaticamente sia politicamente. Non credo affatto che i professionisti dell’anti corruzione siano allo stesso livello dei professionisti antimafia, i fenomeni sono troppo diversi per essere paragonati e tendo a diffidare di chi paragona la mafia alla corruzione, ma non c’è dubbio che su questo tema c’è qualcuno che ci specula. E lo dico con rammarico, con grande rammarico, perché è evidente che i cittadini considerano ancora oggi il problema della corruzione come un dramma. E non lo considerano tale solo per effetto di una martellante campagna di stampa che tende a descrivere un paese peggiore di quello che è. Ma lo fanno perché gli effetti della corruzione spesso vengono vissuti direttamente in prima persona, soprattutto quando un cittadino si ritrova a fare i conti con quelle amministrazioni pubbliche che affogano in un mix letale, in cui si combinano inefficienza disarmante, burocrazia infernale e sacche radicate di corruzione. I problemi esistono ma non vanno strumentalizzati né speculando politicamente sull’anticorruzione né dimenticandosi che la vera risposta che la politica deve dare ai cittadini è provare a fargli recuperare il rapporto di fiducia con le istituzioni, non dicendo che i populisti sbagliano tutto”. Siamo andati, due giorni fa, a fare due chiacchiere con Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anti corruzione, per provare a ragionare su alcuni temi importanti, che all’interno del dibattito pubblico si trovano a metà strada tra il mondo della politica e quello della magistratura. Uno spazio nel quale il numero uno dell’Anac si muove con decisione ormai da tre anni e in quello spazio oggi esistono molti argomenti sui quali vale la pena fare alcune riflessioni. Il nostro ragionamento con Raffaele Cantone parte da una frase molto dura che il presidente dell’Anac ha utilizzato dieci giorni fa in Sicilia nel corso di un convegno organizzato all’Università di Palermo. Cantone, a pochi giorni dalla commemorazione dell’omicidio di Paolo Borsellino, ha ricordato che negli ultimi anni “molte persone si sono improvvisate paladini dell’antimafia e non c’è stata nessuna valutazione sul loro reale operato” e ha aggiunto che “l’antimafia è stata utilizzata più come un brand per propri fini personali, e questo si è verificato in Sicilia così come in altre regioni: bisogna interrogarsi, perché tutto questo finisce per creare disdoro all’antimafia vera”. Cantone si interroga, e si è interrogato, sulla figura dei professionisti dell’antimafia e in questa conversazione con il Foglio sceglie di parlare anche dei professionisti dell’anticorruzione. La premessa è quella che avete letto. Il ragionamento successivo comincia da qui. “Non c’è dubbio che la corruzione e quindi l’anticorruzione siano diventati nel nostro paese una sorta di criterio deformante attraverso il quale vedere tutto quello che accade nel paese. Ma oggi per fortuna non abbiamo un movimento anticorruzione paragonabile al movimento antimafia. L’anticorruzione tutto sommato è un argomento recente e se è giusto dire che è un errore osservare la corruzione come se fosse un pericolo generalmente incombente dietro il quale si nasconde ogni efferatezza che esiste nel nostro paese, bisogna anche dire che esagerazioni a parte la corruzione è ancora un grave problema del nostro paese”.
“Naturalmente occorre trovare la giusta misura tra chi, utilizzando i limitati numeri giudiziari, tende a dire che il problema non c’è e chi invece, utilizzando altri numeri, soprattutto quelli che vengono dagli indicatori internazionali, dice che qui è tutta corruzione. La verità è probabilmente nel mezzo, ma entrambi gli estremismi finiscono di fare danni”. Alcune settimane fa, ricordiamo a Cantone, il nuovo capo dell’Anm, Eugenio Albamonte, ha riconosciuto che sul tema della corruzione in Italia si rischia di pasticciare. “Quanto sia estesa la corruzione – ha detto Albamonte – è complicato dirlo. Così come è complicato dire se l’Italia sia un paese più corrotto degli altri. Non ci sono unità di misura, non è possibile dirlo. Non mi risulta ci siano dei metri per poterla misurare”. E’ davvero così, presidente? “Quando si parla di corruzione, le posizioni che partono solo dai dati numerici sono sbagliate, perché l’unico criterio oggettivo di determinazione della corruzione sono i processi. Il numero dei processi indica i fatti certamente identificati come corruzione ma non sono questi gli unici fatti di corruzione che esistono in un paese. La corruzione spesso si nasconde anche in casi macroscopici di appalti non fatti correttamente, nell’utilizzo di procedure non regolari, nell’abuso di proroghe sugli appalti, nell’eccesso di procedure negoziate, che non a caso a Roma, relativamente agli anni sui quali sta indagando la procura di Roma nell’ambito del processo Mafia Capitale, erano più del 90 per cento del totale. Quello che sappiamo oggi, e lo vediamo da molti indicatori, è che gli episodi accertati sono una quota minore di quelli che si verificano, visto che è impossibile scoprirli tutti. Il punto è capire quanto la quota di episodi accertati sia inferiore rispetto agli episodi che si verificano. Questo è il punto. Che ci sia uno iato tra corruzione scoperta e corruzione reale non lo nega nessuno. Il problema è capire quanto sia grande lo iato. Ho chiesto personalmente all’Ocse di provare a creare dei criteri internazionali, diversi da quelli della corruzione percepita, che ci consentano poi di fare una valutazione complessiva ma a oggi non si è ancora avviato questo processo. Credo sia arrivato il momento di fare finalmente chiarezza”.
Cosa intende Cantone quando dice che la vera risposta che la politica deve dare ai cittadini è provare a fargli recuperare il rapporto di fiducia con le istituzioni, “non dicendo che i populisti sbagliano tutto”? “La corruzione matura laddove vi è un’amministrazione che non funziona e la politica deve fare di tutto per combattere anche così la corruzione. Intervenire sulle pene non è sempre la soluzione giusta, anzi. E’ molto più efficace invece snellire la nostra burocrazia, rendere più trasparente l’amministrazione. La vera urgenza, oggi, è quella di avere una semplificazione normativa assoluta. Noi continuiamo a legiferare tantissimo e malissimo. Le norme sono difficilissime perfino da reperire e sono complicatissime da studiare e da leggere. Il cittadino dovrebbe, in uno stato democratico, non dico di fare a meno di chi interpreta le norme ma almeno capire almeno quali sono i suoi diritti e doveri. Sarebbe importante, per esempio, fare una commissione di semplificazione normativa permanente, fatta da tecnici che studiano le norme e caso per caso sottopongono al parlamento una soppressione da un lato delle norme inutili, dall’altro una sistemazione del quadro normativo – evitando magari di fare gli errori fatti con i falò in cui si eliminavano norme senza senso. La commissione dovrebbe portare a un miglioramento anche della qualità: dovrebbero esserci dei soggetti che operano un controllo della legislazione in modo da individuare sistematicamente le patologie e creare una sistemazione della legislazione. Potrebbe servire questo ma potrebbe servire anche dell’altro. Per esempio una buona legge sulle lobby. Per esempio una buona legge sul finanziamento pubblico ai partiti”. Il presidente dell’Anac consiglia di rintrodurre il finanziamento pubblico? “Esattamente. Personalmente non sono contrario a un ripristino di un finanziamento pubblico intelligente, in cui ci sia la rendicontazione precisa di tutto. E quando dico di tutto non intendo solo in entrata ma anche in uscita: nella vicenda Lusi, per esempio, i soldi sono stati ricevuti regolarmente, ma poi sono stati spesi senza che nessuno controllasse. Sarebbe preferibile un finanziamento pubblico ben regolato che un finanziamento pubblico surrettizio e non ben regolato come quello che avviene a volte attraverso le fondazioni. E sarebbe preferibile che la politica una volta per tutte fosse disposta a prendere un’iniziativa che l’Italia aspetta da anni: una buona legge sui partiti che stabilisca chiari e semplici criteri di accesso, e che impedisca di fare politica senza essere trasparenti fino in fondo”.
“Pm e politica? Serve più continenza”
Sta dicendo che per regolare l’accesso in politica non è sufficiente la legge Severino? “Naturalmente no. La legge Severino stabilisce chi non può candidarsi non chi può”. Crede sia una legge giusta o crede sia una legge da modificare? “Io condivido molto l’impianto, ma non il 100 per cento. Chi rappresenta il popolo deve avere criteri di moralità e di eticità diversi dal cittadino comune. Non è la stessa cosa diventare impiegato comunale o parlamentare” . Cosa non la convince della legge Severino? “Possiamo discutere, si dovrebbe discutere, su quali sono le tipologie di reato, quali le ipotesi di condanna che possono far scattare o meno la sospensione. Oggi alcune forse sono un po’ troppo severe, altre poco chiare. La condanna in primo grado per abuso d’ufficio rischia di essere eccessiva ai fini della sospensione che tra l’altro riguarda solo alcuni e non tutti gli altri”.
La Legge Severino, dice Cantone, andrebbe modificata: "Bisogna ragionare su quali sono le ipotesi di condanna che possono far scattare o meno la sospensione. Oggi alcune forse sono un po' troppo severe, altre poco chiare. La condanna in primo grado per abuso d'ufficio rischia di essere eccessiva"
Presidente Cantone, che impressione le ha fatto leggere in questi giorni che un magistrato importante come Nino Di Matteo lasci intendere di essere disposto a scendere in campo con una parte politica? “Non mi sento di dare una critica a 360 gradi, limitare il diritto di elettorato passivo è pericoloso per la democrazia. Il punto è regolare il diritto all’elettorato passivo. In una democrazia la rappresentanza in Parlamento deve essere il più ampia possibile, però ci sono le situazioni delicate e invece sembra che le situazioni delicate non vengono mai trattate dal punto di vista normativo. Più che parlare di Di Matteo vorrei lanciare un messaggio: perché non è ancora stata fatta una legge seria sui criteri per accedere all’elettorato passivo? Perché si critica solo il magistrato quando si candida ma non si fa niente per risolvere il problema? Poi, certo, io credo che ci sia sempre un criterio di continenza che andrebbe rispetto ma detto questo la posizione di Di Matteo non mi sembra scandalosa”. Presidente Cantone, non trova preoccupante che un magistrato dica, come ha fatto Di Matteo, che l’impegno di un pm in politica ha un senso “soprattutto se questo significasse la naturale prosecuzione del lavoro svolto con la toga addosso”? “Provi a guardare il ragionamento di Di Matteo dall’altro lato. Se nella magistratura c’è oggettivamente un impegno di tipo morale, etico e sociale, e tu hai esercitato un impegno per la tutela della legalità facendo applicare le norme, io credo che si possa usare questo impegno anche altrove. Questo meccanismo serve, se lei ci pensa, a superare l’idea sacerdotale della magistratura. Se lei guarda il ragionamento di Di Matteo dall’altro lato è la prova che non è vero che gli unici moralizzatori del paese devono essere i magistrati”. A voler restare ancora nello spazio a cavallo tra politica e magistratura c’è un altro tema che non si può non affrontare in questa fase storica del nostro paese: il caso Consip. Il caso Consip, facciamo notare al capo dell’Anac, è diventato qualcosa di più di un’indagine su alcuni sospetti di corruzione: è diventata un’indagine su un certo modo di condurre le indagini. Cantone, napoletano, conosce bene la procura di Napoli, oggetto di un’indagine incrociata che parte dal Csm e arriva fino alla procura di Roma, ed è convinto che questa vicenda, in un senso o in un altro, “farà scuola per l’importanza che ha assunto e sarà un precedente per orientare futuri comportamenti di tutti gli attori processuali”.
Il presidente dell’Anac dice che “la procura di Roma si è trovata dinanzi a una serie di contestazioni di fatto e sta svolgendo un’indagine corretta, doverosa, anche sul comportamento delle forze di polizia e sulla regolarità dell’assunzione delle prove”. Ripete che “c’è un comportamento corretto nel dire che la procura vuole andare a verificare se le fonti di prova sono state correttamente acquisite, perché il dato non è solo formale” e dice che se le prove a carico di chi ha indagato a Napoli fossero confermate “ci sarebbe da preoccuparsi”. Ma poi, relativamente al caso delle manipolazioni contestate ad alcuni carabinieri del Noe, aggiunge un particolare in più, quasi a voler dire che non basta un sospetto per dimostrare un falso. “Ad oggi abbiamo solo un dato oggettivo, cioè che certe fonti di prova sono state riportate in modo diverso. Però per il falso non basta il dato oggettivo. Basta in sede di indagine, ma in sede di condanna c’è bisogno di capire che quel fatto oggettivo è stato volontario, e non negligente. Noi abbiamo per ora la prova che ci sono dei fatti che sono diversi da come sono stati dichiarati, ma non basta ai fini del falso. A questo punto laicamente dobbiamo attendere che cosa deciderà. Su questo fronte e anche sul resto. Anche sull’individuazione delle possibili fughe di notizie”. A proposito di fuga di notizie. Qualche settimana fa Nello Rossi, ex procuratore aggiunto di Roma, ha ricordato che l’unico modo per combattere la fuga di notizia è smetterla con questa carnevalata che esiste in Italia, dove sono previste pene risibili per chi pubblica notizie coperte da segreto. Il Foglio ha proposto qualche settimana fa di alzare le pene per i giornali che pubblicano notizie coperte da segreto. Che ne pensa Cantone? “Il tema delle pene diverse secondo me è un tema che si pone nell’ambito di una regolamentazione più ampia. Direi di sì alla vostra idea solo di fronte a qualche condizione. Prima di tutto che si faccia una selezione chiara di cosa è pubblicabile e di cosa è segreto. In secondo luogo che sia garantito l’accesso vero alle fonti di informazione da parte della stampa”. Una volta stabilito cos’è segreto e cosa non è segreto aumentare le pene potrebbe essere un disincentivo? “Assolutamente sì, senza esagerare può essere un disincentivo”. E a proposito di disincentivi, per tornare alla magistratura, non pensa che l’unico modo per risolvere il dramma delle correnti, che lei stesso ha definito “un cancro”, sia quello di rendere inutili le correnti trasformando il Csm in un organo eletto sulla base del sorteggio? “Non credo sia la soluzione giusta. Guardi, mi meraviglio – dice Cantone pensando alle recenti polemiche di Piercamillo Davigo sui criteri scelti dal Csm per fare le nomine – che chi fa una corrente sua dopo dica che le correnti non vanno bene, e francamente mi pare un po’ eccessivo. Ma io non penso che quando si parla di correnti nella magistratura la patologia vera corrisponde al ruolo che queste correnti hanno nelle scelte, per esempio, degli incarichi giudiziari. E’ inaccettabile che l’appartenenza a una corrente sia diventato nella pratica lo strumento chiave di gestione della vita della magistratura. Il sorteggio del Csm non mi convince per molte ragioni. Ma per una in particolare: finirebbe per dare per scontata l’idea che la magistratura non è in grado di eleggere i propri rappresentanti secondo criteri meritocratici”.
Presidente Cantone, tra pochi giorni verrà ricordato il venticinquesimo anno dall’omicidio di Paolo Borsellino, e regolarmente a ogni anniversario dalla sua morte c’è qualcuno, di solito qualche magistrato, che prova a trasformare una giornata dedicata al ricordo in una giornata dedicata alla ricerca di un consenso politico. “Spero che nessuno trasformi il ricordo in un’occasione per rilanciare una battaglia politica. Io penso che l’ultimo a volere una cosa del genere fosse proprio Borsellino, che era molto rigoroso sotto questo profilo. Quanto al resto mi piacerebbe però ricordare che sul caso Borsellino ci sono troppe verità che non sono state accertate. A venticinque anni di distanza, purtroppo, è un omicidio che ha molti punti ancora non chiariti, sia sulle causali, sia sui mandanti, sia sugli esecutori materiali, sia sugli elementi di prova scomparsi. Questo è un dato che va laicamente affermato. Eviterei di fare dietrologie ma eviterei di nascondermi dietro un dito: in quell’omicidio ci sono troppe cose che non tornano”. Venticinque anni fa moriva anche Giovanni Falcone. Quanto crede sia attuale oggi il pensiero di Falcone che considerava la cultura del sospetto non l’anticamera della verità ma l’anticamera del khomeinismo. “Purtroppo è ancora attuale. La cultura del sospetto è ancora forte in Italia. La cultura del sospetto intesa come stimolo a sviluppare degli accertamenti in sé non sarebbe male, il problema è che il sospetto trippe volte viene utilizzato per quello che non è: una verità, che prescinde dalle prove. E da questo punto di vista la cultura del sospetto è certamente, ancora oggi, un vero dramma del nostro paese”.