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Ci vogliono Maroni per guidare un paese

Claudio Cerasa

Il sogno è che Berlusconi e Salvini vadano ognuno per la sua strada. Ma se ci fosse una sola possibilità di avere un centrodestra unito, un Maroni candidato premier sarebbe un altro sogno. Cos’è, a destra, il passaggio obbligato da cialtronismo a riformismo

Non c’è una sola buona ragione al mondo per augurarsi che alle prossime elezioni politiche il centrodestra italiano scelga la pazza e suicida strada dell’accozzaglia, decidendo cioè di presentarsi di fronte agli elettori in formato armata Brancaleone e provando a mettere insieme ciò che semplicemente non si può mettere: l’euro e l’anti euro, l’Europa e gli anti Europa, Merkel e Le Pen, la flessibilità e l’anti flessibilità, l’olio extravergine e l’acqua minerale. Non c’è, insomma, una sola buona ragione al mondo per augurarsi che Silvio Berlusconi e Matteo Salvini scelgano di strozzarsi l’uno con l’altro presentandosi incatenati, in un’unica lista o in un’unica coalizione, alle elezioni del 2018. E non ci sarebbe una buona ragione per augurarsi questo scenario, la modalità accozzaglia, neppure dopo aver sbirciato tra le proiezioni relative alla ripartizione dei seggi alla Camera e al Senato in caso di elezioni sia con il Consultellum sia con il sistema tedesco, dato che tutti i sondaggi indicano che Forza Italia e Lega avrebbero un maggior numero di seggi nel prossimo Parlamento andando da soli. Ci sarebbe però una sola ragione al mondo per augurarsi che Silvio Berlusconi (chiaramente incandidabile come premier per ragioni di logica giudiziaria) e Matteo Salvini (oggettivamente incandidabile come premier per ragioni di logica politica) scelgano di unire le proprie strade e quella ragione coincide con il nome di un politico stimato, anche se non amato, sia da Berlusconi sia da Salvini e che per varie ragioni, in questo momento, da governatore della Lombardia, rappresenta il punto di equilibrio perfetto di quella che potrebbe configurarsi un giorno come l’evoluzione naturale del vecchio Pdl: il Pdr, il partito della ragione.

 

Silvio Berlusconi e Matteo Salvini ieri hanno naturalmente smentito l’indiscrezione riportata dalla Stampa di Torino che indicava in Roberto Maroni il possibile candidato di un centrodestra unito e coalizzato ed è possibile che l’ipotesi maroniana non sia stata ancora accarezzata dal Cav. Eppure, per varie ragioni che proveremo a spiegare, anche per un giornale come il nostro che sostiene da mesi la necessità per Berlusconi di stare alla larga dal salvinismo l’ipotesi di un Maroni candidato premier non sarebbe solo un’idea come un’altra, ma sarebbe un’idea semplicemente geniale. Berlusconi, come sa bene Renzi che ha sperimentato il metodo durante i giorni che hanno preceduto la scelta di Sergio Mattarella, ha da sempre la tentazione di dialogare in prima persona con le minoranze dei partiti con i quali cerca di costruire degli accordi e in questo momento Maroni fa parte di una piccola ma pesante minoranza che tenta di riequilibrare il volto solo di lotta della Lega (Salvini in vita sua non ha mai amministrato neppure un condominio) con un profilo più di governo. E avere un profilo più di governo che di lotta non è solo una vaga formula politica ma significa avere in testa una consapevolezza precisa che suona più o meno così: non c’è strumento di lotta che non possa essere realisticamente sacrificato per ragioni squisitamente legate alla realpolitik di governo. Se non avesse nel taschino sinistro della giacca il fazzolettino verde della Lega sarebbe difficile oggi distinguere Roberto Maroni dagli altri pezzi da novanta del Partito popolare europeo. Da ministro dell’Interno era apprezzato anche a sinistra (chiedere a Vincenzo De Luca e chiedere persino a Roberto Saviano, che anni fa arrivò a dire che Maroni “sul fronte antimafia è stato uno dei migliori ministri dell’Interno di sempre”). Da ministro del Welfare (con lui crebbe Marco Biagi) è stato rivalutato negli anni successivi anche da molti suoi avversari che hanno scoperto con grave ritardo la virtù della flessibilità nel mercato del lavoro. Da governatore della Lombardia – regione che da cinque anni Maroni governa con uno schema opposto a quello salviniano (Lega, FI, Ncd) – è apprezzato anche da un pezzo della Milano che alle ultime elezioni ha votato per Beppe Sala e il suo consenso arriva fino alle porte di Confindustria, con il cui presidente, Vincenzo Boccia, Maroni ha stabilito in tempi non sospetti un rapporto di buona collaborazione, portato avanti anche nei complicati mesi della campagna referendaria. Una candidatura di Roberto Maroni alla presidenza del Consiglio avrebbe da un lato l’effetto di tirar fuori il meglio che esiste all’interno della Lega e dall’altro lato avrebbe l’effetto di trasformare delle battaglie di bandiera come l’uscita dall’euro in battaglie perfettamente sacrificabili sull’altare del pragmatismo di governo.

Nel caso specifico – e questo vale sia nel caso in cui Maroni fosse il candidato premier del centrodestra sia nel caso in cui Maroni fosse solo governatore della Lombardia – la trasformazione della Lega in un partito più simile al modello della Cdu tedesca che al modello della Casaleggio Associati passa dal referendum consultivo del 22 ottobre sull’autonomia della Lombardia (e del Veneto). Il referendum, come è noto, è tecnicamente inutile, nel senso che anche qualora dovesse vincere il “sì” non ci saranno concessioni automatiche che il governo centrale dovrà fare alle regioni, ma politicamente sarà invece molto utile perché permetterà alla Lega di arrivare alle prossime elezioni con una carta importante per giustificare il suo passaggio da partito di lotta a partito di governo: promettere un sostegno o quantomeno una non ostilità a una qualsiasi maggioranza di governo (persino una a guida Pd) disposta a concedere più poteri (e dunque più soldi) alle regioni i cui elettori hanno fatto richiesta di avere maggiore autonomia (per trovare un accordo sarebbe sufficiente introdurre il criterio dei costi standard nella sanità, cosa che tra l’altro Renzi aveva promesso a Maroni un anno fa). Berlusconi, giustamente, farà di tutto per tentare di tenere Forza Italia lontana dalla Lega, ma se mai ci fosse una sola ragione al mondo per avvicinarsi alla Lega prima delle prossime elezioni quella ragione ha il volto dell’unico leghista in circolazione capace di non far rimpiangere Umberto Bossi (da ieri ricoverato per accertamenti al cuore, tanti auguri) e capace di far fare un salto importante alla Lega delle ruspe e delle felpe, portandola a poco a poco dal cialtronismo al riformismo. Speriamo non ce ne sia bisogno e che alla fine Forza Italia e Pd scelgano di andare da soli alle elezioni (e che la sinistra a sinistra del Pd scelga di scommettere con coerenza su D’Alema come alternativa naturale al renzismo), ma se fosse necessario mettere una firma per avere un Maroni candidato premier di un centrodestra unito tra le molte firme ci sarebbe anche la nostra.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.