Il renzismo è entrato nella sua fase di eterno ritorno: Marco Agnoletti torna portavoce di Renzi; Giorgio Gori si candida alla guida della regione Lombardia; Matteo Richetti diventa responsabile comunicazione del Pd, riacquistando una centralità perduta. Era un’altra epoca, quella del 2011-2012, era la fase del “liberismo è di sinistra”, dell’assalto al cielo, degli amministratori locali in giro per l’Italia scelti per diventare classe dirigente, delle Leopolde non governative, insomma era l’epoca della rottamazione, la parola-manifesto da cui Renzi non potrà mai emanciparsi, perché è la hit dell’estate che lo ha reso celebre. Era l’epoca dell’allargamento, del Renzi che attira un elettorato trasversale, dai berlusconiani delusi del centrodestra alla sinistra stufa di perdere. Era l’epoca delle dirigenze nazionali del Pidì che negavano l’accesso a chi voleva saltare la fila col numeretto, tipo bancone della Coop in attesa dell’etto di prosciutto, e organizzavano contro-Leopolde. Era un’epoca senza delusioni – con aspettative altissime non ancora tradite – ma anche senza vittorie, se non quella delle primarie fiorentine di un paio d’anni prima; tutto, ancora, era da costruire. Era l’epoca della prima sconfitta, quella contro Bersani nel 2012.
Il renzismo è nella sua fase revival: Marco Agnoletti torna portavoce, Giorgio Gori si candida alla guida della regione Lombardia
Il modenese Richetti arriva da lì; presidente del consiglio regionale dell’Emilia Romagna, si fece notare da Renzi per le sue battaglie anticasta, proponendo il taglio netto del 30 per cento sui budget di gruppi, commissioni e strutture speciali e azzerando le spese di rappresentanza. Oggi ripete lo stesso schema a Roma sui vitalizi dei parlamentari, tema in comproprietà con i Cinque stelle, con conseguente reprimenda del senatore Ugo Sposetti, secondo cui sulla scontrinologia a colpi di sforbiciate ai costi della politica, che poi sono costi della democrazia, vale nientemeno che il giudizio di Fantozzi sulla Corazzata Potëmkin. Questo inseguirsi fra Pd e M5s, questo fare a gara a chi ce l’ha più corto (il vitalizio), è consustanziale al renzismo d’ogni ordine ed epica, nonché epoca, perché sulla diversità antropologica fra Roma e i mitologici territori si giocava buona parte della narrazione renzian-richettiana del 2011-2012, esplosa poi in una rincorsa grillina, che sul gentismo sono sempre stati più avanti.
Il richettismo fa parte del renzismo delle origini, quello della stagione 2011-2012, che voleva allargare lo spazio del Pd
Caratteristica principale del gentista è fare politica per quattro soldi, anche se in questo modo si aprono le porte al notabilato, a quelli che possono far politica perché già ricchi. Il risultato è che la legittimità viene trasferita altrove, ad altri organismi, magari – aggiungiamo con il politologo Colin Crouch, autore di “Postdemocrazia” (Laterza) – in un orizzonte post-democratico nel quale la sfera economico-finanziaria è prevalente su quella dei governi: “Nelle condizioni in cui la postdemocrazia cede sempre maggior potere alle lobby economiche, è scarsa la speranza di dare priorità a forti politiche egualitarie che mirino alla redistribuzione del potere e della ricchezza o che mettano limiti agli interessi più potenti”. Allevare una classe dirigente forgiata dal pauperismo non scaccerà chi vede nella politica un modo per arricchirsi, ma anzi aprirà le porte proprio a quei famigerati “poteri forti” – con cui i populisti fanno gargarismi mattutini – ben felici di prendere il posto delle élite. Ma insomma, tornando al punto, a che serve Richetti?, si chiedono nel Pd persino quelli che un tempo Richetti lo stimavano e che nel frattempo in generale hanno raffreddato il loro entusiasmo verso il renzismo. Già, perché persino i ritorni vanno passati al vaglio della cronaca e contestualizzati. Richetti nel 2011 aveva preso il posto di Pippo Civati, ex co-rottamatore leopoldino, poi si era dimesso da presidente dell’assemblea per candidarsi alle primarie dei parlamentari alla Camera, conquistando 9.404 preferenze. Ma, come spesso succede nella storia del renzismo di fronte a chi vuole essere un po’ troppo autonomo (e ha pure i voti per esserlo), spesso peraltro senza una motivazione precisa o un fatto scatenante, anche a Richetti toccò l’oblio, l’allontanamento. Un allontanamento fisico, persino. Per lunghi mesi, anzi per un paio d’anni, Richetti si muoveva in Transatlantico senza rivolgersi parola con i renziani del Giglio magico, che lo avevano isolato come si fa con l’ex: cancellandola/o da Facebook. La politica come prosecuzione dei social con altri mezzi: se qualcuno ci sta sul gozzo gli si toglie l’amicizia. E dire che il richettismo appartiene fin dall’inizio al canone del renziano perfetto, tweet ed elmetto, come si capiva da certi interventi corsari dal palco della Leopolda del 2011, quando il Matteo modenese diceva, in risposta a Bersani che chiedeva ai giovani di “non scalciare”, che “noi non siamo a disposizione, ma siamo disponibili al dialogo. La differenza tra essere disponibili ed essere a disposizione, come ci chiedono, la si vede quando vanno in campo le formazioni delle squadre di calcio: a disposizione sono quelli che stanno in panchina, ma io, a questa generazione chiedo di essere disponibile a mettersi in gioco, non di mettersi in panchina”.
Richetti è stato anche tentato di andarsene, ha cercato di capire quale fosse il peso reale del ministro Carlo Calenda
Lui, il Richetti, si sarebbe anche voluto mettere in gioco per la guida della regione Emilia-Romagna, ma nel 2014 fu fermato da un’inchiesta della magistratura. L’accusa era di peculato, Richetti si ritirò dalla corsa prima che la notizia uscisse, mentre Stefano Bonaccini, attuale presidente della Regione, anche lui indagato, si candidò e vinse. Entrambi poi sono usciti puliti dalle indagini, la posizione di Bonaccini è stata archiviata, e Richetti è stato assolto. E’ in quel periodo, con l’avvio dell’inchiesta e la poca copertura politica ricevuta, che Richetti si fa sempre più sospettoso, convinto che i suoi compagni di partito lo stessero scaricando attraverso il famoso uso politico della magistratura, che torna sempre utile quando colpisce i non amici. Quel tarlo, quel sospetto, gli è rimasto appiccicato per parecchio tempo. Ed è diventato sempre più sospettoso, il Richetti, quando cercava un editore per il suo libro, “Harambee! Per fare politica ci vuole passione”, poi pubblicato con Guerini e Associati dopo aver provato con alcuni grandi editori, tra cui Rizzoli. La convinzione richettiana era che qualcuno in zona Giglio Magico lo stesse ostacolando. I rapporti con le persone più vicine a Renzi non sono mai stati troppo sereni. Nel 2013, quando l’allora sindaco di Firenze concorreva per la guida del Pd, i renziani decisero che per conquistare l’Emilia Romagna c’era bisogno di altro. Non del cattolicesimo margheritico di Richetti, ma di qualcuno più vicino alla tradizione a chilometri zero Pci-Pds-Ds: Stefano Bonaccini, che da turbobersaniano è diventato la quinta colonna del renzismo in Emilia, garantendo la vittoria del 2013 al congresso. La constituency di Richetti era d’altronde diversa e non serviva a Renzi per conquistare il popolo democratico emiliano-romagnolo.
Fino a qualche mese fa i rapporti con Renzi erano rarefatti, per non dire esauriti. Richetti lo disse pubblicamente, a “Otto e Mezzo”, il 23 febbraio 2016: “L’ultima volta che ho parlato con Renzi? Più di un anno fa…”. Poi aggiunse qualche critica neanche troppo velata al segretario: “Il Pd è un partito che sul territorio ha smarrito la capacità di innovazione che era nella nostra proposta”. Per un anno, tra interviste e libro (uscito nell’estate 2016), Richetti è parso sul punto di esplodere: tre giorni dopo l’intervista a “Otto e Mezzo”, Richetti ne rilasciò un’altra alla Stampa, dopo il sì di Denis Verdini alla fiducia al governo Renzi: “La fiducia – disse Richetti – è il pieno inserimento in un progetto di governo che presuppone una visione comune di paese e di società, vuole dire che da oggi condividiamo con Verdini le idee legate a fisco, economia, legalità, strumenti di sostegno alle povertà. E a me pare che questo oggettivamente sia troppo”. Qualche mese prima, a fine 2015, ci era andato giù ancora più duro, dicendo che la rottamazione aveva, di fatto, fallito: “Il Pd non è più di nessuno: non di chi ha sostenuto Renzi, che vede candidati e dirigenti in totale continuità col passato, con la ‘ditta’ tanto criticata, e non di chi ha contrastato Renzi e ritiene che la sua gestione del partito non abbia niente a che fare con la sinistra. L’identità del Pd è fortemente minata”. Per tutto il periodo della protesta, per nulla silenziosa, Richetti ha avuto un rapporto molto stretto con Graziano Delrio – un altro numero 2 messo da parte, sono lontani i tempi in cui il ministro ex sindaco di Reggio Emilia chiamava Renzi con il soprannome di “Mosè”, anche nella rubrica del cellulare – con cui si sentiva e vedeva regolarmente. Ma siccome la storia del renzismo è fatta di amori che fanno giri immensi e poi ritornano, a un certo punto i due Matteo hanno ricominciato a sentirsi e Richetti ha continuato a dirgli, via WhatsApp, che cosa non lo convinceva. Una classica dinamica renziana, che ha colpito anche Giuliano da Empoli, intellettuale robusto, allontanato e poi rientrato, seppur a distanza (oggi vive a Parigi). Anche lui, come Richetti, ha vissuto il problema di farsi accettare dal gruppo, e ha sempre preferito la compagnia, fin dai tempi di Firenze, di Marco Carrai. Alle primarie del 2012, erano una coppia super rodata: il primo architetto del programma, l’altro tessitore di relazioni di alto livello, organizzatore di cene e raccolte fondi. Nessuno di loro – da Richetti a Da Empoli – ha mai legato con Luca Lotti.
La classe dirigente renziana locale in questi anni è stata schiacciata dal peso del Giglio magico
C’è stato un momento in cui il deputato del Pd, accumulata una delusione dopo l’altra, compresa la mancata nomina a capogruppo alla Camera, stava proprio per mollare. Per andare dove? Per un periodo lo ha incuriosito Carlo Calenda, quando sembrava che il ministro dello Sviluppo economico stesse per scendere in campo con un suo movimento. La tentazione perfetta per tornare a un spirito originario, quello smarrito da Renzi. Non a caso Richetti, pochi mesi fa, a febbraio, parlando con il Foglio, invitava il segretario a riaversi, dopo la cenciata referendaria: “Renzi torni a fare Renzi. Matteo non può diventare il notaio degli accordi correntizi. La cronaca politica quotidiana è fatta di incontri di capicorrente che si confrontano. A me di tutto questo non importa nulla: io rivoglio il Renzi che diceva ‘non si ferma il vento con le mani’, quello del 2012”. Più recentemente, prima di assumere il nuovo incarico, commentando la deriva grillina della comunicazione del Pd e alcuni scivoloni notevoli, ultimo dei quali la card sui migranti (che in realtà riprendeva esattamente, parola per parola, il contenuto del libro di Renzi), Richetti ha detto che “il problema è far stare in una card un tema così complesso. Le card si fanno su numeri, grafici, slogan. Non su soluzioni così articolate e ragionate. Punto. Che tra l’altro sono state uno dei punti di forza del governo Renzi. Le politiche sull’accoglienza e sul richiamo all’Europa su questa responsabilità. Perché se semplifichi tutto consenti a Salvini di dirti che si farà carico lui di fare le tue politiche”. Un invito dunque a non inseguire i grillini e i leghisti sul terreno che controllano meglio.
Insomma, il deputato che quando ti vede ti saluta con un “ciao vecchio” è il renzismo delle origini, quello delle Leopolde piene di “Appendine e Appendini”, come ebbe già a dire lo stesso Richetti, certificando la difficoltà oggi a tenere dentro il Pd anche quelli che col Pd non sono contigui, che poi era la vecchia missione renziana: il “campo largo”, come va di moda dire adesso a sinistra, è sempre stato il valore aggiunto che ha portato il Pd al 40,8 per cento alle europee, con cui il segretario del Pd s’è baloccato fin troppo. L’identitarismo del Giglio magico non ha portato bene all’ex presidente del Consiglio. Ora resta solo da capire se questi ritorni siano frutto di un autentico cambio di prospettiva o solo un revival, come quando i quarantenni riscoprono i vent’anni in netto ritardo e si aggirano vestiti come i propri figli per i peggiori wine bar del centro.
David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.