Matteo Salvini e Marine Le Pen (foto LaPresse)

La disfatta dei sovranismi

Claudio Cerasa

Sovranismo sindacale, sovranismo protezionista, sovranismo monetario: fine della fuffa. I dati su export e produzione industriale ci dicono che i paesi ripartono seguendo l’agenda Draghi, non quella Camusso. Storia di tre bolle che si sgonfiano

Bum. Tra le grandi bolle esplose nel corso del 2017, e in particolare nel corso di quest’estate, ce ne sono tre, tutte molto importanti, alle quali non si può non pensare ragionando su alcuni numeri registrati negli ultimi giorni. Il primo numero (Istat) è quello arrivato ieri, che fotografa l’andamento della produzione industriale italiana: rispetto al primo trimestre del 2017, il secondo trimestre 2017 ha fatto segnare un aumento dell’1,1 per cento, mentre rispetto ai valori annuali la produzione industriale è aumentata del 5,3 per cento. Non male. Il secondo numero è quello arrivato qualche giorno fa (ancora Istat) e riguarda l’incremento delle esportazioni italiane nei paesi extra Ue: più 8,2 per cento rispetto al giugno 2016, più 9,1 per cento rispetto allo stesso semestre dello scorso anno. Non male. Il terzo numero è quello arrivato poche settimane fa (dati Ernst & Young) e riguarda l’incremento degli investimenti esteri registrato in Italia nel 2016: più 62 per cento rispetto al 2015. Non male. Questi tre dati, che forse meglio di altri fotografano la buona salute dell’economia italiana, ci dicono molte cose. Ma ce ne dicono alcune in particolare, che forse vale la pena passare in rassegna.

 

I dati sulla produzione industriale ci dicono che il sovranismo sindacale, di cui i partiti populisti sono i portabandiera ufficiali, non funziona e non ha ragione di poter funzionare. Mentre, al contrario, tutte quelle politiche che tentano di non combattere la ricchezza ma che provano a scommettere sulle energie delle imprese (meno Ires, meno Irap, più super ammortamenti, più flessibilità sul lavoro) funzionano molto bene e spesso portano buoni risultati.

 

I dati sugli investimenti esteri, invece, ci dicono che il sovranismo protezionista non funziona, e non ha ragione di poter funzionare, e ci dicono che un paese come l’Italia ha buone possibilità di crescere non se si trincererà nella chiusura, ma se al contrario sceglie di offrire ai campioni della sua economia gli strumenti necessari per competere all’interno del mercato globale.

 

I dati sulle esportazioni, infine, ci permettono di aprire un capitolo ulteriore al centro del quale si trova un altro fronte politico che solo fino a qualche mese fa pascolava per l’Europa dicendo infinite fesserie sull’euro. L’internazionale anti euro – di fronte ai dati sulla crescita europea sempre più positivi, di fronte ai dati sull’occupazione europea sempre più incoraggianti, di fronte ai tassi di cambio sempre più bassi e sempre più invitanti per le imprese e per le famiglie europee – si trova oggi in una situazione molto complicata da gestire e nessuno avrebbe il coraggio di dire ad alta voce, e forse neppure di pensarlo, quello che goffamente predisse il premio Nobel Paul Krugman nel maggio del 2012, quando sostenne che la fine dell’Euro sarebbe stata solo “questione di mesi” (“And we’re talking about months, not years, for this to play out”). Evidentemente nulla di tutto questo è successo. Chi si trova in Europa si trova in buona salute e persino la Grecia ha cominciato a presentare segnali incoraggianti (il 25 luglio l’asta dei bond di Atene, la prima dal 2014, è stata un successo, e la Grecia è riuscita ad assegnare titoli a cinque anni per un valore di tre miliardi di euro). Chi ha scelto di uscire fuori dall’Europa si trova in una salute inferiore rispetto a quella in cui si trovava quando era parte dell’Europa (dopo la Brexit, la stima della crescita della Gran Bretagna è stata ridotta di 0,3 punti percentuali, mentre gran parte dei paesi europei ha registrato una correzione di segno opposto). E al contrario di quello che sosteneva Krugman, la verità è che l’euro si rafforza di giorno in giorno. Si rafforza non solo sul dollaro (che oggi rispetto all’euro vale circa il 12 per cento in meno rispetto all’inizio dell’anno) ma anche sul franco svizzero, che in queste ore si trova a un tasso di cambio sempre più basso (1,14) non lontano rispetto a quello che era in vigore nel 2014 (1,20) – un dato che, come ha notato due giorni fa il Wall Street Journal, segnala che gli investitori non considerano più una necessità aggrapparsi a un bene rifugio come poteva essere il franco svizzero e che certifica che l’euro è un investimento sempre più forte e sempre più conveniente. Per il partito anti euro, come è evidente, non è un momento facile e le performance dell’economia europea (che in termini di prodotto interno lordo cresce a una velocità superiore rispetto a quella americana) hanno generato i risultati che sappiamo. In Europa, come è noto, tutti i partiti che si sono schierati a favore dell’uscita dall’euro sono stati abbattuti dal principio di realtà che si è regolarmente affermato in ogni tornata elettorale. 

 

La campagna anti euro di Marine Le Pen ha contribuito ad affossare la corsa del Front national e pochi giorni dopo la vittoria di Macron è stato lo stesso partito della Le Pen ad ammettere che l’uscita dall’euro non sarebbe stata più una priorità per il Front national. E anche in Italia la scena di fronte alla quale oggi ci troviamo sembra essere piuttosto chiara. Il Movimento 5 stelle, anche se sul suo blog ha ancora una sezione dedicata al referendum per l’uscita dall’euro, sull’euro ha scelto di inserire la modalità Antani e ha scelto di scommettere tutto su un’altra “emergenza”: quella dei migranti. La stessa Lega Nord, che pure sulla battaglia anti euro ha costruito buona parte della sua ridotta constituency elettorale, oggi sul tema è molto più timida e non è un caso che Silvio Berlusconi vada in giro a dire che Matteo Salvini in realtà non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro.

 

Rispetto all’estate del 2016, dunque, l’Italia ha qualche certezza in più e qualche bolla in meno con cui fare i conti. Investire sulla globalizzazione, archiviando dunque la retorica vuota del protezionismo economico, non è più un rischio politico, ma è una necessità cruciale per far crescere un paese e sgonfiare la bolla del sovranismo protezionista. Investire sui benefici prodotti dall’euro, archiviando dunque la retorica vuota e inutile del “è tutta colpa dell’Europa”, non è più un azzardo morale, ma è una necessità cruciale per far muovere un paese e sgonfiare la bolla del sovranismo monetario. Investire sulla ricchezza prodotta dalle imprese, archiviando dunque la retorica vuota dell’egualitarismo assistenzialista, non è un’eresia culturale, ma è una necessita cruciale per sbloccare un paese e liberarlo progressivamente dalle ganasce del sovranismo sindacale. Le bolle si stanno sgonfiando. L’Italia si sta rimettendo in moto. Se ne stanno accorgendo tutti i giornali del mondo. Se ne è accorto ieri Bloomberg (“Italian industrial output accelerated in June, pointing to a possible stronger-than-expected economic recovery”). Se ne è accorto due giorni fa il Financial Times (“Italy hopes for best economic confidence boost since crisis”). Se ne è accorto qualche giorno fa Quartz (“Italy is the best performing stock market in the G7 so far this year”). Se ne è accorto qualche settimana fa anche il Wall Street Journal (“Italy, long the source of worries about European instability, might finally be aiding the Continent’s recovery”). Il messaggio è chiaro ed è evidente. Le economie ripartono seguendo più l’agenda Draghi che l’agenda Camusso. E per sbloccare davvero un paese, più che inseguirlo, il sovranismo è meglio combatterlo.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.