Atac e Raggi, fallimenti paralleli
La “felix culpa” del M5s: perché stavolta il bubbone può esplodere davvero
Roma. La sostituzione dell’assessore al Bilancio della Capitale, il quarto in un anno, dipende dall’incapacità della giunta guidata da Virginia Raggi di far fronte alla crisi dell’Atac, la più grande partecipata dei trasporti d’Italia, ormai a un passo dal crac (secondo il rapporto dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, da sola produce il 30 per cento di tutto il deficit nazionale nel settore). Poche settimane fa si era dimesso, dopo soli pochi mesi di incarico, il dg Bruno Rota per i ritardi dell’amministrazione nella scelta del concordato preventivo come soluzione per salvare l’azienda. I dubbi, sollevati dall’allora assessore Andrea Mazzillo, derivavano dal fatto che il concordato non è, nelle condizioni di Atac, una soluzione semplice né indolore. Ora la Casaleggio Associati fa cacciare Mazzillo e sposta Gianni Lemmetti dal Bilancio di Livorno a quello di Roma, proprio per portare l’azienda verso il concordato preventivo. Il problema però, sottolineato anche da Mazzillo, è che nel debito di 1 miliardo e 300 milioni dell’Atac ci sono anche oltre 400 milioni di crediti del comune di Roma. Se la controllata porta i libri in tribunale il comune deve svalutare i suoi crediti e rischia il dissesto. Insomma la situazione è talmente degenerata che il Campidoglio, nella doppia veste di azionista e creditore, non ha soldi per salvarla né per farla fallire. Per il comune Atac è sia too big to fail sia too big to save.
Oltre al rapporto proprietario e all’intreccio finanziario, l’azienda e il comune sono legate anche da un cordone politico-sindacale attraverso cui passa lo scambio di voti con i 12 mila dipendenti che rende impossibile qualsiasi tipo di ristrutturazione, perché al costo economico si aggiunge quello elettorale. Non è una novità che riguarda questa amministrazione, ma un sistema consolidato in cui anche i Cinque stelle si sono trovati a proprio agio. In passato il problema non è mai stato risolto, ma sempre rinviato e accresciuto, con i vari decreti Salva-Roma che scaricavano i debiti della Capitale sul resto dei contribuenti italiani. Lo ha fatto il governo Berlusconi per salvare la giunta di centrodestra di Gianni Alemanno e lo hanno fatto i governi Letta e Renzi per non far affondare la giunta di centrosinistra di Ignazio Marino. La fortunata novità questa volta è lo scontro politico tra centro e periferia, governo e comune, che dovrebbe impedire l’ennesimo salvataggio. Il bubbone dell’Atac e quello di Roma, tra l’altro, rischiano di esplodere proprio nel pieno della campagna elettorale e, presumibilmente, il governo avrà tutto l’interesse a non togliere le castagne dal fuoco ai cinque stelle e fare ciò che è giusto: lasciar fallire le aziende e le amministrazioni inefficienti.
Una decisione così radicale, quella di non intervenire con l’ennesima trasfusione di denaro pubblico, sarebbe certamente un merito del governo ma anche del Movimento cinque stelle che, essendo nuovo e solo con la sua presenza, fa venire meno quel conflitto d’interessi politico tra centro e periferia che negli anni ha fatto nascondere i debiti sotto al tappeto. Ciò che accadrebbe in uno scenario del genere è: fallimento dell’Atac e messa all’asta del servizio di trasporto con una gara pubblica, dissesto del comune e arrivo di un commissario. Dopo un solo anno di malgoverno di Virginia Raggi si farebbe tutto ciò che si sarebbe dovuto fare, e non si è fatto, nei decenni passati. Se così dovessero andare le cose sarebbe un peccato sprecare questa rivoluzionaria esperienza di governo: ogni grande città italiana che non funziona dovrebbe fare un anno di Raggi.