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Guardare la giunta Raggi e capire meglio la “democrazia dei creduloni”

Claudio Cerasa

La storia del disastro di Raggi non è solo la storia di un sindaco comico e populista arrivato per caso alla guida di Roma, ma è prima di tutto la storia di cosa significhi avere un Grillo e un Casaleggio al governo

Enough is enough. La ragione per cui l’esperienza del grillismo di governo messa in campo a Roma viene osservata quotidianamente da mezza Italia con uno sguardo curioso, appassionato e rassegnato non ha niente a che fare con una particolare categoria del voyeurismo politico o con una precisa forma di antipatia che può suscitare un sindaco sempre più imbarazzante come Virginia Raggi. Ha a che fare con qualcosa di più concreto, che pur essendo lì di fronte ai nostri occhi in molti continuano incredibilmente a ignorare. Al contrario di quello che si vorrebbe far credere, la storia del disastro di Virginia Raggi – con la sua inadeguatezza, con la sua superficialità, con la sua assenza di visione, con la sua incapacità a governare i problemi di una giunta e figuriamoci quelli di una città, come dimostrato ieri mattina in modo plastico durante lo sgombero dei migranti a Piazza Indipendenza, dove l'intervento robusto della polizia è avvenuto perché a fronte di un'ordinanza della magistratura il comune non ha trovato soluzioni alternative dal punto di vista abitativo, e in caso come questo se non c'è una soluzione alternativa la polizia deve eseguire l'ordinanza – non è solo la storia di un sindaco comico e populista arrivato per caso alla guida della Capitale di uno degli otto paesi più importanti del mondo. Ma è prima di tutto la storia di cosa significhi avere un Beppe Grillo e un Davide Casaleggio al governo di qualcosa che sia diverso da un blog o da un profilo Facebook.

 

Per quanto ci si voglia girare attorno la questione è esattamente questa. A Roma non esiste alcun sindaco di nome “Raggi”. A Roma esiste un grazioso manichino di nome Raggi, che, dopo aver accettato di firmare un contratto incostituzionale e vessatorio con un clown a capo di un blog e un capo di un’azienda privata non eletta da nessuno, oggi si ritrova a essere il mero esecutore delle volontà di un blog di nome Grillo e di un’azienda di nome Casaleggio. E tutto questo significa che quello che stiamo vedendo a Roma ormai da mesi – con quattro assessori al Bilancio cambiati in poco più di un anno, con vari direttori generali di aziende partecipate messi in fuga da un’amministrazione senza senso, con sogni come le Olimpiadi cancellati per pura inettitudine politica, con progetti come quello del lo stadio della Roma impostati in modo tale da non essere mai davvero costruiti e con una città bloccata e ricoperta di immondizia in cui la resistenza ai ratti e al degrado sembra essere diventata l’unica forma di immaginare il futuro – non è il disastro di Virginia Raggi ma è il disastro di Beppe Grillo.

 

Ci si può girare attorno quanto si vuole, ma la verità è che grazie a Virginia Raggi l’Italia sta osservando in presa diretta come funziona (e che effetti produce) la democrazia diretta. E giorno dopo giorno, il quadro di insieme che arriva dall’esperienza romana sembra essere sempre più chiaro.

 

In modo involontario lo ha sintetizzato qualche tempo fa a Livorno il nuovo assessore al Bilancio della giunta Raggi-Grillo (chiamiamo le cose con il loro nome). “Le mie competenze, se ci sono, verranno fuori poco alla volta”. Il punto, se ci si pensa, è tutto qui.

 

L’approccio messo in campo dalla giunta Raggi-Grillo non è infatti un approccio che può essere messo a fuoco con le classiche categorie della politica, ma è un approccio che deve essere messo a fuoco con categorie diverse, culturali, al centro delle quali c’è una parola chiave che ora dopo ora appare come un ossimoro rispetto alla parola Grillo: competenza. In uno splendido libro anticipato qualche mese fa in Italia dal IL Magazine, che meriterebbe di essere presto tradotto nel nostro paese, “The Dead Of The Expertise”, il professor Tom Nichols ha detto tutto quello che c’era da dire sui figli dell’età dell’incompetenza. “Lo spazio pubblico è sempre più dominato da un ampio assortimento di persone poco informate, molte delle quali sono autodidatte, che disprezzano l’istruzione regolare e minimizzano il valore dell’esperienza. Ormai, sta prendendo piede una sorta di Legge di Gresham applicata al campo intellettuale: se un tempo questa legge recitava ‘la moneta cattiva scaccia quella buona’, ora viviamo in un’epoca in cui la cattiva informazione scaccia la vera conoscenza”. L’età dell’incompetenza, di cui Roma in questo momento è una vetrina mondiale di tutto rispetto, è un passaggio della nostra storia figlio di un processo particolare, al centro del quale si trova una battaglia politica in cui la lotta contro la casta si è rapidamente ma non sorprendentemente trasformata in una lotta senza confini contro gli esperti e dunque contro la conoscenza. “Quello che era uno scherzoso e perlopiù benevolo dileggio nei confronti dell’intellettualità e dell’istruzione regolare – ricorda Nichols – si è trasformato in un maligno risentimento verso l’intellettuale e le sue capacità in quanto esperto. Un tempo l’intellettuale era bonariamente preso in giro perché non serviva; ora suscita profondo fastidio perché serve troppo”. L’approccio di governo scelto dalla giunta Raggi-Grillo risponde esattamente a tutte queste caratteristiche, tipiche di una setta. 

 

Ma a guardar bene l’esperienza romana non è solo il simbolo di cosa significhi avere un qualunquista al governo di qualcosa di diverso rispetto a un profilo su Facebook. E’ anche dell’altro. E’ anche il simbolo di ciò che può produrre quella che il sociologo francese Gérald Bronner ha definito, in uno splendido libro pubblicato in Italia da Aracne Editrice, “La democrazia dei creduloni”. La sintesi del ragionamento del sociologo francese è perfetta: uno dei grandi collanti che emerge nella società dell’incompetenza è una forma sempre più esasperata di complottismo, che giorno dopo giorno diventa in modo più o meno inconsapevole un’arma micidiale per provare a combattere le élite. “Chi vive all’interno di una democrazia stabile, dove sono garantite libertà e sicurezza, sembra essere alla ricerca di un modo per apparire vittima di qualcosa. Lo stato di vittima di qualcosa è diventato invidiabile nello spazio democratico. Il dubbio permette a tutti di ottenere lo stato di vittima, generalmente di potenti che complottano contro la verità. Infatti questa diffidenza può essere una semplice diffusa sensazione, ma può anche organizzarsi in un discorso di denuncia. E’ il caso delle diverse teorie del complotto che negli ultimi anni sembrano fare ritorno in massa nello spazio pubblico. Dai temi più strampalati ai più inquietanti, l’immaginario cospirazionista mette in scena l’idea che ci siano forze che ci impediscono di conoscere il mondo com’è veramente, che ci nascondono le cose; in un certo senso, non è che un altro modo di esprimere la diffidenza che si è insinuata dovunque”. La giunta Raggi-Grillo – che non poteva che avere tra le sue file un assessore complottista convinto che per curare il cancro sia sufficiente una cura omeopatica o un metodo Di Bella e che non poteva che fare di tutto per strizzare l’occhio al popolo No Vax, e che per questo ha bocciato in consiglio comunale una mozione che prescriveva l’obbligo di vaccini ai nidi e alle materne di Roma – è la fotografia di tutto questo. Negli ultimi tempi, a Roma abbiamo scoperto che Mafia Capitale non esiste. Ma in compenso, giorno dopo giorno abbiamo, scoperto che esiste qualcosa che merita di essere approfondita e che ha un suo simile: una marcia capitale, dove gli algoritmi vengono spacciati per competenza, dove la conoscenza è diventata un tabù, dove il complottismo è diventata una costante. Tre giorni fa, parlando dei disastri di Donald Trump, il Los Angeles Times ha urlato: “Enough is enough”. Vale per il Campidoglio americano, ma più in piccolo vale anche per il Campidoglio romano. Sapendo che qui non stiamo parlando di Raggi. Stiamo parlando di Grillo. E forse sarebbe bene cominciarlo a dire in modo chiaro, no?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.