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L'aiuto (involontario) di Trump per capire quale leader ci serve davvero

Claudio Cerasa

Un utile manuale dell’esercito americano spiega in cinque punti quali dovrebbero essere le caratteristiche di un vero capo (e non parliamo solo di The Donald)

L’elenco è breve e lineare: fiducia, disciplina e autocontrollo, capacità di formulare un giudizio e un pensiero critico, autocoscienza, empatia. Nella pazza America delle follie trumpiane, da qualche mese a questa parte un numero sempre più consistente di commentatori, in modo più o meno spregiudicato, per liberarsi il prima possibile del presidente degli Stati Uniti senza dover passare per le complicate forche caudine della messa in stato d’accusa, dell’impeachment, ha scelto di puntare su una complicata e a sua volta pazzoide scommessa politica che coincide con l’applicazione di un emendamento previsto nella Costituzione americana, il numero 25: “Qualora il vice presidente e la maggioranza dei principali responsabili dei Dipartimenti esecutivi, o di qualsiasi altro organismo che il Congresso possa istituire per legge, trasmettano al presidente pro tempore del Senato e allo Speaker della Camera dei rappresentanti la loro dichiarazione scritta che il presidente non è in grado di esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio, il vice presidente assume immediatamente poteri e doveri di presidente facente funzione”. Detto in modo meno burocratico e legalese, un gran numero di commentatori e di opinionisti, ormai da mesi, sta provando a dimostrare che la solidità mentale di Donald Trump sia sufficientemente fragile da rendere possibile l’utilizzo dell’emendamento numero 25 per cacciare dalla Casa Bianca il presidente eletto.

 

La strategia è spericolata ma sta cominciando a trovare alcuni sostenitori niente affatto banali. Un importante psicoterapeuta americano, John Gartner, poche settimane fa ha messo in piedi una petizione già firmata da 61 mila persone in cui dichiara che Trump “deve essere rimosso in base al venticinquesimo emendamento” perché “troppo seriamente compromesso a livello mentale per svolgere correttamente i suoi doveri di presidente”. La petizione sarà al centro di una serie di manifestazioni che il prossimo 14 ottobre verrà organizzata in alcune città (Atlanta, Chapel Hill, Charlotte, Chattanooga, Chicago, Los Angeles, New York, Phoenix, San Francisco) per chiedere le dimissioni del presidente eletto. Ma al di là delle audaci considerazioni sulla piena capacità di intendere e di volere del presidente americano, il dibattito sulla capacità di Trump di “esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio” in modo pieno e consapevole si è arricchito negli ultimi giorni di un passaggio niente male che riguarda la risposta a una domanda in un certo modo universale: quali sono le caratteristiche che deve avere una leadership per essere considerata sana, non pazza e non fuori dal mondo? Sul Los Angeles Times di qualche settimana fa, il dottor Prudence Gourguechon, psichiatra, psicoanalista ed ex presidente dell’Associazione degli psicoanalisti americani ha spiegato che, nonostante la presenza del venticinquesimo emendamento, in America non esiste una fonte ufficiale che definisca quali sono le capacità necessarie per riconoscere una leadership sana da una malata.

 

In campo politico, quantomeno. Ma in campo militare invece sì, e Gourguechon cita alcuni passaggi contenuti nelle 135 pagine del “U.S. Army’s Field Manual 6-22 Leader Development”. Cinque punti in particolare, in cui sono esplicitate “le facoltà fondamentali che gli ufficiali, compresi i comandanti, necessitano per svolgere il proprio lavoro”.

 

Punto numero uno, “trust”: ogni leader deve essere in grado di creare attorno a sé un clima di fiducia tale da rendere impossibile ogni forma di autoisolamento; un leader che non riesce a essere per la sua squadra un simbolo di fiducia tende a concentrarsi troppo sull’autopromozione di se stesso e a concentrasi invece poco sulla valorizzazione del suo team: per questo finisce spesso per essere autodistruttivo. Sounds familiar?

 

Punto numero due, disciplina e self control.

 

Punto numero tre, “judgment and critical thinking”: un leader sano è un leader che sa mostrare buone capacità di autocontrollo, che sa mantenere la compostezza in situazioni complicate, che mostra di non essere impulsivo, che non si fa mai guidare nelle decisioni strategiche dalla rabbia e dalle emozioni personali e che dimostra infine di saper mettere insieme una serie di princìpi non negoziabili: senso del dovere, senso della fedeltà, altruismo, coraggio personale, onore. Per fare questo, ricorda lo psichiatra, occorre avere anche un’altra capacità fondamentale: dotarsi di un sistema di filtri che possa aiutare a disciplinare se stessi e a inibire ogni tentazione di agire in modo troppo istintivo e troppo impulsivo.

 

Punto numero quattro, “self-awareness”, buona autoconsapevolezza. Chi non è dotato, chi non ce l’ha, “tende a scaricare ingiustamente i propri errori sui suoi subordinati” e tende dunque, scelleratamente, a perdere il controllo e a non riconoscere mai quando commette un errore.

 

Punto numero cinque, “empathy”. Un buon leader, ricorda Gourguechon, può essere ritenuto tale solo se “dimostra una comprensione profonda del punto di vista di un’altra persona” e se “riesce a identificare se stesso con i sentimenti e le emozioni” dei suoi collaboratori. Chi non ha queste caratteristiche, secondo il manuale militare, deve essere considerato un leader non solo inadeguato ma emotivamente inadatto a prendere decisioni per la collettività.

 

Nessuno sa naturalmente in che modo si concluderà, e quando si concluderà, la surreale esperienza della presidenza trumpiana. Ma così come il protezionismo trumpiano ha avuto l’effetto di risvegliare improvvisamente gli spiriti globalizzatori in tutto il mondo, come hanno potuto felicemente constatare in questi giorni a Jackson Hole i banchieri centrali, allo stesso modo l’esempio della leadership trumpiana, a prescindere da ogni valutazione sulla salute mentale del presidente, non potrà che avere un effetto altrettanto importante: quello di classificare come fuori dal mondo qualunque leader sia tentato di esportare fuori dalla Casa Bianca la pazza forma di leadership incarnata nel volto e nel toupet del presidente americano. Il grande Elias Canetti diceva che è magnifico fare il pazzo, se si è intelligenti. E più o meno nello stesso periodo storico, a metà del Novecento, il poeta francese Robert de Montesquiou ricordava che in politica, e non solo, l’essere pazzi poteva avere un senso solo a una condizione: “Ho sempre constatato che per riuscire nel mondo bisogna aver l’aria folle ed essere saggi”. Da questo punto di vista, se c’è un merito che già oggi va riconosciuto a Trump, è quello di aver reso chiaro, al di là del venticinquesimo emendamento, quali sono le differenze tra le leadership che nascondono saggezza dietro l’apparente follia e le leadership che appiono folli e che fanno poco per apparire sagge. Provate a mettere insieme questi elementi e capirete facilmente chi, anche nel nostro paese, merita di essere considerato o no un leader più o meno squilibrato. Risposta facile, no?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.