Contro la dittatura della condivisione
I dieci anni dell’iPhone ci aiutano a ragionare su un tema chiave: l’impatto avuto dalla tecnologia sul modo di fare politica dal 2007 a oggi. Perché la democrazia dell’algoritmo rende necessaria la scelta tra due modelli: followship o leadership
David Von Drehle è un saggista americano con una column molto apprezzata sul Washington Post e due giorni fa, sulle pagine del giornale edito da Jeff Bezos, numero uno di Amazon, ha scritto un editoriale che ha fatto discutere i lettori del Post. Titolo senza punto interrogativo: “Steve Jobs gave us President Trump”. La tesi dell’editoriale di Von Drehle è spericolata, ma ci permette di affrontare un tema universale che riguarda una questione che vive ben al di là del fenomeno Trump: l’impatto che negli ultimi dieci anni ha avuto la tecnologia sulla comunicazione, l’informazione e la politica. Secondo il columnist del Washington Post, l’affermazione del populismo trumpiano non può essere capita fino in fondo senza mettere a fuoco cosa ha significato dieci anni fa l’avvento sulla scena pubblica dell’iPhone. Von Drehle sostiene giustamente che l’iPhone ha cambiato il mondo in una misura non inferiore a come lo cambiò Johann Gutenberg a metà del 1400, con l’invenzione dei caratteri mobili. E la principale scintilla culturale innescata dalla rivoluzione dell’iPhone, senza la quale probabilmente anche i social network non avrebbero avuto la rapida espansione che hanno avuto, coinciderebbe con la diffusione capillare dei metodi legati alla disintermediazione – metodi che hanno via via reso sempre meno importante il filtro dei corpi intermedi nel mettere in collegamento un leader con i suoi elettori o con i suoi follower. Il ragionamento del Washington Post è suggestivo, seppure denso di contraddizioni (il populismo, come sa chi ha vissuto negli anni Venti e Trenta in alcuni paesi d’Europa, non è un’invenzione moderna), ma lo spunto è comunque prezioso e ci permette di cercare una risposta a una domanda che ha oggettivamente una sua centralità a dieci anni dall’uscita del primo iPhone: la progressiva centralità degli smartphone nella nostra vita quotidiana che effetto ha avuto sul modo di fare comunicazione e sul modo di intendere la politica? Concentrarsi sulla storia delle fake news è un’operazione suggestiva ma poco appassionante, perché in fondo le menzogne spacciate per verità alternative esistevano ben prima dell’arrivo dell’iPhone o dell’arrivo di Facebook. Semmai, l’elemento interessante sul quale vale la pena fare una riflessione riguarda un aspetto non molto indagato, una miscela speciale in cui si mescolano sia alcune attitudini dell’universo della politica sia alcune inclinazioni del mondo dei media: la dittatura della condivisione.
In questo caso, la “condivisione” a cui facciamo riferimento non ha nulla a che vedere con le tesi e le dottrine della sharing economy, ma ha a che fare con qualcosa di più profondo, di fronte al quale ciascuno di noi si ritrova sia quando ascolta le parole di un politico sia quando legge i titoli di alcuni giornali (soprattutto online). L’epoca della dittatura della condivisione – epoca segnata dalla contemporanea esplosione sia degli smartphone sia dei social network – è un’epoca all’interno della quale è maturata una forte contrapposizione tra due concetti diventati antitetici l’uno con l’altro: esprimersi con l’idea di dire qualcosa che faccia ragionare oppure esprimersi con l’idea di dire qualcosa che possa essere condivisibile. La dittatura della condivisione – ovvero il principio in base al quale le idee che hanno una loro dignità sono solo quelle immediatamente condivisibili, che entusiasmano cioè la propria cerchia di follower e che vengono condivise facilmente – ha alimentato una serie di processi molto complessi, i cui sintomi si possono individuare in innumerevoli campi. Nel mondo della comunicazione e dell’informazione, la dittatura della condivisione ha incentivato molti giornalisti e molti titolisti a scommettere sempre più su articoli e su contenuti condivisibili prima ancora che di qualità (cosa che forse non avverrebbe se i grandi siti di informazione puntassero più sulla formula del far pagare per ciò che si legge più che sperare di ricavare qualcosa dal numero di clic totalizzati ogni giorno con le notizie dei delfini spiaggiati e con le fotogallery delle maxi scollature).
Nel mondo dei partiti, la subalternità a questo approccio ha portato sempre più politici a rivolgersi ai propri elettori guidati da un principio pericoloso: l’idea cioè che la traiettoria di un partito, o di una leadership, sia determinata più da un algoritmo che da una visione, più dall’ansia di risultare condivisibili che dall’ansia di trovare soluzioni. In ogni paese e in ogni contesto politico, i due approcci si mescolano sempre in modo differente, ma non c’è dubbio che a dieci anni dal lancio del primo iPhone (il 12 settembre arriverà il nuovo modello) è legittimo chiedersi in che modo l’evoluzione della tecnologia ha avuto un impatto sull’evoluzione della politica (e anche dell’informazione).
Le chiavi di lettura per mettere a fuoco il tema sono molte, ma i ragionamenti sulla dittatura della condivisione ci portano a una conclusione: mai come oggi, per chi fa politica e chi fa informazione, diventa cruciale scegliere da che parte stare. Se stare cioè dalla parte di chi segue il modello della followship, ovvero farsi guidare dagli algoritmi prodotti dai propri follower, o se stare dalla parte di chi segue il modello della leadership, ovvero di chi se ne frega degli algoritmi e sceglie di guidare i propri follower. La scelta in fondo è facile e di fronte alla dittatura della condivisione le strade sono due: combatterla o condividerla. La differenza tra chi guida e chi si fa guidare, in politica ma non solo, in fondo passa anche da qui.