Forse è il caso di ripensare a cosa vuole dire davvero essere ambientalisti
Veltroni e il tic italiano di definire "verde" solo chi è contro
Da che cosa si misura il tasso di ambientalismo di un partito e di una politica? Dai risultati concreti che sa ottenere o dalla quantità di parole che dedica alla questione? Dall’efficacia delle misure adottate o dall’intonazione retorica delle frasi pronunciate? Giorgio Ruffolo, probabilmente per durata e contenuti il più importante ministro dell’Ambiente dalla sua fondazione, concentrò la sua opera a cavallo degli anni Ottanta-Novanta nella definizione di politiche ambientali attive e nella strutturazione, ancora oggi è più o meno quella di allora, del ministero dell’Ambiente oltre che nell’apertura di capitoli di spesa che hanno poi consentito diverse cose. Eppure nessuno lo collocherebbe nel pantheon immaginario degli ambientalisti. Mentre invece ci entra a cattivo diritto qualsiasi piccolo sedicente leader che abbia strepitato il dovuto, accanendosi in politiche senza senso e senza costrutto. Sintomatica da questo punto di vista la parabola dei Verdi italiani. I più ambientalisti di tutti, secondo la logica sopraddetta. Più che altro portatori di poche idee concrete e di tante idee bislacche, costruite secondo la logica della rumorosa testimonianza. E finiti come sono finiti. In percentuali da prefisso telefonico, senza avere lasciato traccia di sé nella storia delle politiche ambientali italiane. Le quali raramente si misurano in base all’efficacia, come dovrebbe essere per ogni buona politica. Il che dovrebbe implicare anche che non esiste una sola politica ambientale. Ma piuttosto strumenti diversi, più meno efficaci, per raggiungere obiettivi condivisi. E questo dovrebbe essere l’oggetto del dibattito pubblico.
Prendiamo un esempio che viene esplicitamente rimproverato a Matteo Renzi e al Pd. La posizione assunta sul referendum “trivelle”. La Norvegia è un grande esportatore di petrolio. E insieme uno dei paesi con politiche ambientali di successo. E infatti le elezioni le ha vinte il centrodestra e i Verdi antipetrolio si sono fermati al 3 per cento e non entrano in Parlamento. L’Italia invece preferisce importare petrolio da paesi che usano tecniche estrattive assai peggiori delle nostre dal punto di vista ambientale e che spesso usano in modo assai discutibile i denari ricavati. O che cosa c’è di ambientalista alla posizione del presidente della regione Puglia, che fa la guerra al metanodotto che potrebbe aumentarE la quantità di gas a disposizione dell’Italia e liscia il pelo agli amici della Xylella e ai no vax? O nell’assessore all’Ambiente del Comune di Roma che usando la neolingua che contraddistingue spesso il dibattito verde chiama i rifiuti post materiali e si rifiuta di realizzare quegli impianti che in tutto il mondo civilizzato assicurano un corretto smaltimento? Ma la vita va così. Se sei contro, non importa cosa, sei un ambientalista; se cerchi di misurare pro e contro scatta la predica. Spiace che a questo torneo di parole si sia iscritto anche Walter Veltroni con un recente articolo su Repubblica, che accusa mica tanto implicitamente il Pd di Matteo Renzi di avere perso la famosa anima ambientalista. Esempi Veltroni non ne fa. Tanto meno proposte. Evoca, ma non spiega. E ha buon gioco Renzi a fare l’elenco delle cose fatte dal suo governo. Comprese alcune per me assai discutibili come la norma sugli ecoreati, che otterrà il solo scopo di appesantire ulteriormente il codice penale e dare spazio al protagonismo delle Procure. Eppure ci sarebbero tante cose buone da vantare nelle politiche ambientali italiane insieme alle tante che non vanno. Anche di cose fatte in nome dell’ambientalismo che hanno solo prodotto danni. Per questo occorrerebbe discutere nel merito. Di “policies” e non di politica. Ma nel mondo immaginario del dibattito pubblico italiano solo la retorica attira l’attenzione. E poi c’è Trump che per fortuna mette d’accordo tutti.