Per un paese riformista
La Grande coalizione va bene per approvare le riforme, ma serve uno sforzo in più per renderle condivise
Nel suo editoriale del 9 settembre scorso, Claudio Cerasa offre una lettura controcorrente e moderatamente positiva della situazione politica ed economica dell’Italia. L’originalità dipende dal fatto che Cerasa ingloba nel giudizio positivo gli ultimi sei anni, a partire dall’insediamento del governo Monti nel novembre 2011. La sua argomentazione poggia sull’immagine molto suggestiva della “safety car”, l’auto di sicurezza che entra in pista quando una gara diventa rischiosa, rappresentata nella realtà del nostro Paese dalle coalizioni politiche allargate che hanno sorretto i governi di volta in volta in carica. Queste coalizioni – ristrettesi nel tempo, da quella più larga che sostenne il governo Monti a quella più risicata del governo Gentiloni – avrebbero consentito di superare, o almeno limitare, la visione ideologica dei nostri problemi strutturali, di vederli in modo più oggettivo (tecnico) e quindi di avviare soluzioni condivise da un ampio spettro politico. Cerasa parla (sicuramente con un po’ di iperbole) di uno “straordinario attivismo riformista”, riferendosi in particolare al bicchiere mezzo pieno delle riforme approvate in risposta alle misure “urgenti” richieste nella lettera dell’agosto 2011 di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, allora rispettivamente presidente e futuro presidente della Bce.
Condivido in larga misura l’analisi di Cerasa e vorrei qui integrarla toccando un aspetto che in essa è implicito, ma che ritengo valga la pena di rendere esplicito, sia per la sua importanza sia perché si tratta di un aspetto non ancora sufficientemente acquisito, e perciò in grado di ostacolare il percorso positivo che Cerasa immagina per il nostro futuro.
Una riforma è un investimento sociale
Questo elemento ha a che fare con il concetto di riforme e con la loro concreta attuazione; cioè con il compito assegnato, nella metafora, alla safety car (coalizione politica allargata). La richiesta di riforme è stata in realtà un grido incessante che le istituzioni internazionali hanno rivolto al nostro e ad altri paesi, in particolare quelli mediterranei. Commissione europea, Bce, Ocse, Fmi e Banca mondiale non hanno smesso in questi ultimi decenni di sfornare analisi e raccomandazioni il cui messaggio centrale era “dovete” riformare (il mercato del lavoro, la previdenza, il settore pubblico, la scuola, il fisco); privatizzare, liberalizzare e semplificare. Questa pressione, alimentata non solo dai timori di una crisi finanziaria che avrebbe potuto travolgere l’euro, ha prevalso sulla possibilità di realizzare una comunicazione equilibrata e di allargare la partecipazione al processo di riforma che è così sembrato calato dall’alto, indotto da ragioni oscure, ma sicuramente al servizio dei potenti e non della società e dei suoi segmenti più deboli. Una visione, in definitiva, quasi soltanto negativa, e perciò distorta, come se le riforme fossero fatte contro e non a favore del comune cittadino.
Eppure le riforme – in particolare quelle economiche – sono introdotte per incidere positivamente sulla vita delle persone e contribuire al loro benessere. Certo, possono nascere con errori e per questo debbono essere monitorate ed eventualmente corrette, in una logica di miglioramento, non di disfacimento. Il punto importante è però che questo dispiegarsi di effetti positivi non è mai immediato, come spesso si vuole far intendere, ma richiede tempo. Una riforma è un investimento sociale: come qualunque investimento, essa comporta la rinuncia a qualcosa oggi in cambio di benefici futuri (le riforme a costo zero sono una chimera). Naturalmente i benefici, proprio perché futuri, non sono certi. D’altronde, neppure l’impiego finanziario più “sicuro” ha un rendimento certo, se non altro perché un innalzamento non previsto dell’inflazione può eroderne una parte. Eppure chi compra un titolo, lo fa rinunciando a un consumo immediato e quindi imponendosi un sacrificio.
Proprio perché rappresenta un investimento sociale, una riforma non è un atto normativo che si esaurisce nella sua approvazione da parte del Parlamento, ma un organismo che vive – o muore – nella società. Una riforma non è fatta soltanto di obblighi e divieti, che la rendono operativa attraverso un efficace sistema di controlli. Una riforma deve riuscire a modificare i comportamenti collettivi di cittadini, imprese, istituzioni, come la safety car deve indurre i piloti a regolare meglio la loro condotta in pista in situazioni di rischio. E qui sta il punto.
Se una maggioranza politica allargata consente di approvare le riforme, superandone la visione ideologica a favore di una più tecnica e neutra, questa stessa visione deve essere trasmessa ai cittadini, e da loro in qualche modo recepita. Chi mai si sentirebbe di accettare, in nome di una astratta austerità, una riforma previdenziale che alzi in misura significativa l’età di pensionamento? E chi appoggerebbe una liberalizzazione del mercato del lavoro razionalizzata soltanto come risposta alla globalizzazione? Il fatto è che l’aumento dell’età pensionabile è (stato) necessario non perché “ce lo chiede l’Europa”, bensì per gli squilibri demografici, economici e finanziari che minacciano la sopravvivenza stessa del sistema pensionistico. Scongiurare la crisi finanziaria è perciò nell’interesse dei cittadini di oggi – che altrimenti si troverebbero a dover fare i conti con un sistema non più in grado di pagare pensioni – e anche di quelli di domani, interessati alla stabilità del sistema e alla riduzione del debito nei confronti delle generazioni giovani e future. E una riforma del lavoro che riesca a introdurre flessibilità senza incoraggiare la precarietà è una riforma di inclusione, in quanto migliora le prospettive occupazionali di quei gruppi che sono maggiormente a rischio di disoccupazione o di emarginazione. Se però le riforme sono diversamente interpretate e viste solo come ingiustificata sottrazione di diritti (“acquisiti!” o meno) diventa difficile per i cittadini sostenere, con i loro comportamenti, le riforme e trovano così spazio le pressioni perché si torni indietro.
Esiste un modo per avvicinare i cittadini a questi temi e sottrarli alle visioni più distorte o stereotipate? La risposta è sì, e poiché le riforme si fanno in democrazia, questa risposta non può che essere affidata a tre ingredienti fondamentali dei processi di riforma.
Il primo ha che fare con l’informazione, che non si limiti a enfatizzare soltanto i lati negativi (sacrifici correnti) della riforma, ma ne spieghi il senso di direzione e i risultati positivi attesi per il medio termine; il secondo, riguarda invece la comprensione dei suoi elementi di base (non degli aspetti tecnici, ma dei tratti fondamentali) e richiede un minimo di educazione finanziaria di base; il terzo è l’accompagnamento delle riforme con una riconoscibile riduzione dei privilegi. Sappiamo bene che la rinuncia ai privilegi della “casta” non è in grado di aggiustare il bilancio pubblico, aiuterebbe però molto ad alzare il grado di accettazione delle riforme.
Nel caso italiano i risultati discreti o buoni, a seconda dei punti di vista, dei quali l’Italia è oggi generalmente accreditata sono stati ottenuti a prezzo di un tasso di scontento e di acredine ben superiore al necessario. La rappresentazione mediatica delle riforme è stata molto sbilanciata sugli elementi negativi che, come prima ho ricordato, non mancano mai nel breve periodo. Il grado di comprensione delle riforme è limitato dal nostro basso tasso di alfabetizzazione finanziaria; e, infine, anche grazie a discutibili interpretazioni dei “diritti acquisiti” da parte della Corte costituzionale, l’esercizio di limitazione o di autolimitazione dei privilegi è stato molto blando e non ha contribuito a dare agli italiani un’impressione di condivisione.
In queste circostanze, va bene riconoscere il ruolo della safety car (ossia della politica), ma più ancora va riconosciuto agli italiani il merito di avere in qualche modo compreso o intuito che il processo di riforma aveva soprattutto il senso di un investimento a favore dei loro figli.
*Con questo articolo l’economista dell’Università di Torino inizia la sua collaborazione con il Foglio