Bluffarie grilline
Le primarie alla Di Maio come spia del dispotismo della democrazia diretta. Parla Luciano Violante
Roma. E’ il giorno in cui la cosiddetta democrazia diretta vira verso la surrealtà e si trasforma in centralismo antidemocratico, con le primarie per il candidato premier a Cinque Stelle che vanno deserte nella sostanza, anche se in serata compaiono i nomi degli “sfidanti” dell’ultima ora di Luigi Di Maio, candidato unico alla scadenza ufficiale (le ore 12 di ieri). Eccolo, solo, il vicepresidente della Camera, protagonista della misteriosa (nelle regole) gara già annunciata. Solo se si esclude la “provocazione” di Roberto Saviano, che si fa avanti rievocando in un post “la capacità di sorprendere di Marco Pannella” e con l’intento dichiarato di “trarre d’impaccio il Movimento da una situazione patetica per non dire bulgara”. Infine giungono le suddette candidature “dal basso”, con effetto che un tempo si sarebbe definito da lista-civetta: ecco il candidato sconosciuto ai più Gianmarco Novi da Monza, con video di presentazione ispirato – guarda caso – al principio del “chi partecipa decide”, ed ecco la manciata degli altri candidati sconosciuti ai più (lista provvisoria: Vincenzo Cicchetti, Elena Fattori, Andrea Davide Frallicciardi, Domenico Ispirato, Nadia Piseddu e Marco Zordan). Mentre non si candidano, neanche dopo la discesa emergenziale di Beppe Grillo a Roma, i conosciutissimi ai più Alessandro Di Battista e Roberto Fico, a lungo considerati gli unici possibili avversari credibili di Di Maio (Fico anche in veste di volto-simbolo della fantomatica linea di minoranza a Cinque Stelle). E insomma di democratico, in scena, resta ben poco, al netto del controllo militare dei vertici a Cinque Stelle su qualsiasi cosa si muova nel cielo a Cinque Stelle, e delle liti tribunalizie sulle regole di candidatura e sul piccolo piccolo maoismo digitale che ispira blog e bacheche grilline.
Tutto ciò, però, rimanda ad altro. Per esempio, per dirla con il titolo del libro di Luciano Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera e della Commissione parlamentare antimafia con lunga carriera parlamentare nel Pci-Pds-Ds-Pd, c’è, alla base, un problema di “democrazie senza memoria”. “Se assistiamo inerti e senza memoria ai processi che si svolgono sotto i nostri occhi, il declino della democrazia sarà inevitabile”, si legge nel libro (ed. Einaudi). Di fronte alle primarie in cui Luigi Di Maio gareggia praticamente contro se stesso, l’esercizio di memoria può essere utile. E Violante, interpellato in proposito, dice che la democrazia può “essere di tre tipi: rappresentativa, deliberativa e per così dire ‘della rete’”, ma che, “in un sistema democratico efficace, questi tre tipi di democrazia dovrebbero integrarsi”. La rete da sola, per Violante, è una sorta di soprabito del “dispotismo”. Sia a livello di accesso sia nei possibili effetti, infatti, la decisione politica on-line è la più manipolabile: più del voto rappresentativo, più di quello deliberativo. In un buon sistema democratico la rete dovrebbe essere usata magari per una consultazione, al massimo per una deliberazione su un singolo problema circoscritto”.
Il passato come nemico
Ma che cosa succede quando alla Rete viene conferito un ruolo di semi-divinità, di oracolo politico, di re taumaturgo che tutti i mali risolve? Per Violante l’origine delle disfunzioni democratiche visibili oggi è “la mancanza di coraggio, in una dinamica politica pare legata al conflitto e non alla ragione. Faccio un esempio che non ha a che fare con le primarie a Cinque Stelle: fosse stata fatta una buona campagna di informazione, sullo ius soli non ci si troverebbe a questo punto”. Ed è a questo punto, però, che la memoria dovrebbe correre in soccorso. “La democrazia purtroppo non è naturale: scaturisce dalle guerre, dal conflitto e dai successivi compromessi necessari a riportare la pace. E’ il prodotto della ragione, della voglia di libertà, del coraggio. Abbiamo la democrazia, ma è costata molti sacrifici. Ma tutto questo sembra sfuggire a una parte delle generazioni più giovani. Come se appunto fosse stato dimenticato il processo tormentato che ha portato alla democrazia. E poi c’è un altro punto su cui bisognerebbe a mio avviso riflettere: gran parte di coloro che hanno oggi responsabilità politiche in Italia si sono affacciati alla politica tra il 1989 e il 1991, in un periodo molto complicato della storia del paese. Un periodo in cui è stata messa in discussione la classe politica nella sua interezza. Il passato, in quegli anni, ha cominciato ad essere visto come male in sé. Ed è stato in quel momento che la memoria è diventata incredibilmente ‘non importante’. Ma senza la memoria non ci può essere democrazia”.