Il manifesto politico di Gentiloni, contro gli spacciatori di paure
Il percorso della sinistra in Europa, i populisti sopravvalutati dai sondaggi, la svolta sui migranti. “Se Renzi è l’allenatore, io sono una riserva”. L’intervista al premier alla festa del Pd
Sabato scorso, a Imola, alla festa nazionale del Pd, chi scrive ha avuto la possibilità di intervistare il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Ne è venuta fuori una lunga chiacchierata che tra sabato e domenica ha fatto discutere solo per il caso Consip. In realtà, tra una risposta e un’altra, gli spunti di riflessione offerti dal capo del governo sono molti e sono utili da mettere insieme perché a Imola, sabato sera, per la prima volta Paolo Gentiloni ha parlato non solo da presidente temporaneamente scelto alla guida di un governo transitorio ma ha parlato da leader politico. E lo ha fatto con un approccio aperto, non divisivo, mostrando in modo plastico non la sua rivalità con il segretario del Pd, Matteo Renzi, ma, al contrario, la sua totale complementarietà. L’universo politico della sinistra è gravido e carico di ex presidenti del Consiglio – Massimo D’Alema, Enrico Letta, Romando Prodi – che brigano per mettere in risalto la debolezza e la fragilità del Pd. Il Pd ha diverse debolezze e diverse fragilità ma giorno dopo giorno sembra aver trovato un’alleanza preziosa che nel corso del tempo potrebbe portare alcuni benefici. Renzi e Gentiloni vengono descritti da molti come due leader incompatibili tra loro, pronti a scannarsi da un momento all’altro. Ma in realtà le loro traiettorie sembrano indicare una formula che oggi in pochi sono disposti ad ammettere e che potrebbe diventare una carta importante da mostrare in campagna elettorale e da utilizzare esplicitamente contro i Di Maio e contro i Salvini: un ticket di governo. Non sappiamo se tutto questo accadrà davvero ma sappiamo che sabato sera per la prima volta a Imola il Pd ha capito che nella sinistra in cerca di alleanze l’unica alleanza da custodire con cura è quella tra il premier e il segretario. Il resto poi si vedrà.
"Buonasera a tutti. L’applausometro per il presidente Gentiloni dovrebbe essere già una notizia di per se ma oggi c’è anche un secondo dato rilevante. Paolo Gentiloni farà la sua prima intervista da presidente del Consiglio a una festa dell’Unità e farà anche la sua prima intervista politica E’ la prima volta, è pronto presidente?”
“Guaio totale!”.
La prima domanda dalla quale partirei riguarda un numero. Un numero che forse molti di voi ignorano ma che è significativo: 275. Sono i giorni di vita del governo Gentiloni, che è cominciato come tutti ricorderete in maniera traumatica – almeno per qualcuno – il 5 dicembre. Ma con questi suoi 272 giorni il governo Gentiloni è già il trentaseiesimo governo più longevo della storia della Repubblica. Prima domanda, presidente: ma come è cambiata l’Italia dal 5 dicembre a oggi?
“Innanzitutto grazie a tutti. Grazie per la vostra accoglienza. Grazie a Claudio Cerasa che farà quest’intervista. È vero che la prima volta quest’anno, che partecipo alla festa dell’Unità, e forse è il primo anno, da una ventina d’anni, che non ho fatto tantissime feste dell’Unità. Ma d’altra parte io credo che chi fa il mio lavoro obiettivamente abbia molte priorità: è certo importante anche un incontro come questo e tanti altri simili, ma troppi purtroppo non se ne possono fare. Sono tanti o sono pochi, 272 giorni? Be’, è incredibile che un governo che dura da appena nove mesi sia in effetti considerato un governo duraturo. Io penso che, tutto sommato, d’importante ci siano due cose. La prima è che un governo che nasce da un trauma – perché questo governo nasce dalla sconfitta del referendum e le dimissioni di Matteo Renzi – è riuscito ad andare avanti nove mesi: e questa io credo sia un prova di forza e di capacità di governo del Partito democratico oltre che di chi di questo governo ha fatto parte. La seconda cosa che direi è che il governo è come andato materializzando il suo lavoro nel coso dei mesi: è partito obiettivamente con poche scommesse – quanta gente ci scommetteva, su questo governo? – perché nasceva in una condizione difficile, col passare dei mesi, grazie alle capacità del nostro partito, dei ministri, alla tenuta del sistema, ha dimostrato di avere un senso. E dal mio punto di vista, questo è stato il risultato più importante. Noi avevamo bisogno di dare al paese la sicurezza che un governo potesse garantire la sua stabilità. Non fosse altro che per questo io credo che abbiamo fatto con dignità il nostro dovere”.
Due domande. La prima: lei il 5 dicembre avrebbe scommesso su questo governo e sulla sua durata? E poi, seconda questione: a parte il differente approccio sulle interviste tra questo governo e quello precedente, qual è la più forte differenza che esiste, secondo lei, tra questa esperienza e quella passata?
“Io credo che di scommesse non se ne devono mai fare. Quando il governo si è presentato alle Camere per la fiducia, io ho detto la cosa più banale del mondo visto che lo dice la nostra Costituzione: e cioè che saremmo andati avanti finché avessimo avuto la fiducia della Camera e del Senato. Così è stato, mi auguro che così sarà fino alla fine della legislatura che del resto non è distante. Naturalmente c’è una grandissima continuità tra il governo Renzi e il governo Gentiloni. Che è continuità dovuta al fatto che molti dei componenti del governo – a cominciare dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che è qui in prima fila e che tutti salutiamo – sono gli stessi. Abbiamo qualche novità di ottimo livello, ma non è un governo di un altro schieramento politico. E’ un governo che ha portato avanti, cercando poi di far fronte alle diverse occasioni che l’attualità gli proponeva, il programma del precedente. Con due fondamentali differenze. La prima, come ho già detto, è che il governo parte un po’ in salita perché nasce da una sconfitta, e da lì deve risalire la china. La seconda è che l’attuale presidente del Consiglio e quello precedente non sono identici. Quindi scherzando si potrebbe dire che il governo Gentiloni è la prosecuzione del governo Renzi con altri mezzi. E poi si fanno le cose che l’attualità ti butta addosso. C’era un famoso primo ministro inglese al quale chiesero quale fosse la cosa più difficile nell’azione di guida di un governo. E lui rispose: ‘Events, dear boy’. Sono gli eventi, caro ragazzo. Ciò che è più difficile sono le cose che succedono. E quindi c’è un programma – che è il programma del governo Renzi – che noi abbiamo cercato di proseguire e attuare, e poi c’è la realtà di un paese che chiede al governo stabilità, fiducia, sicurezza. E a questo noi dobbiamo dare risposta. Spero che continueremo a farlo come abbiamo cercato di fare in questi mesi”.
Il Partito democratico si concentra molto sui mille giorni precedenti a questo governo. Per definire però l’identità del Pd è forse necessario fare un ulteriore passo all’indietro e considerare non gli ultimi tre anni ma gli ultimi sei anni. Dal novembre 2011 il Partito democratico dà la fiducia agli stessi governi ai quali danno la fiducia i partiti di centrodestra. Nel 2011 è successo con Monti, poi è successo con Letta, poi per un periodo è successo con Renzi, e adesso – per quanto Area popolare possa essere considerata pienamente una forza di centrodestra – il governo è di fatto una grande coalizione. Io le chiedo: questa grande coalizione ha fatto bene all’Italia, negli ultimi sei anni, e in che misura ha cambiato il paese e l’identità della sinistra?
“Certamente il periodo dal 2011 a oggi è cominciato con il momento più difficile per l’economia italiana dal nostro Dopoguerra, quindi non stiamo parlando di governi che sono arrivati a dividersi un periodo di vacche grasse, a festeggiare chissà che cosa. Sono governi che si sono trovati ad operare in condizioni difficilissime. E io penso che, in particolare il governo presieduto da Matteo Renzi e, mi auguro, anche il mio, siano fondamentalmente dei governi di centrosinistra con l’appoggio di formazioni che hanno origini diverse. Quanti di voi erano presenti ieri (venerdì 15, ndr) qui alla festa, dove credo sia intervenuto il ministro degli Esteri Angelino Alfano, avrà potuto constatare una cosa che io ho visto abbastanza da vicino in questi anni: e cioè che noi abbiamo oggi una maggioranza di governo – con la formazione che fa capo ad Angelino Alfano, con le formazioni che fanno capo a Bersani, Pisapia eccetera – certamente fragile, certamente con dei numeri molto ballerini, soprattutto al Senato. E però non mi sembra un’alleanza tra posizioni totalmente inconciliabili. Io penso che siano maturate in questi anni delle posizioni di una maggioranza abbastanza omogenea, e mi auguro che questa esperienza di governo ci aiuti a maturare questa funzione. Il perno di tutto questo è il Partito democratico. E’ inutile che noi sfuggiamo da questa responsabilità. Non sto dicendo che altre formazioni non abbiano un ruolo, visto che esprimono anche dei ministri. Però il Partito democratico è di gran lunga la forza fondamentale di questo governo. Quindi se dobbiamo prendercela con qualcosa, per le cose che non vanno in questo governo, in qualche caso possono anche essere degli alleati, ma nella maggior parte dei casi le responsabilità sono le nostre. E dobbiamo saperlo. E siccome abbiamo fatto tante cose utili, credo che dobbiamo avere la forza e il coraggio di rivendicare le cose utili che facciamo”.
Responsabilità, dunque. Romano Prodi, giorni fa, in un’intervista a Repubblica, ha detto che il Partito democratico ha scelto di non portare avanti la legge sullo Ius Soli per una questione legata al consenso. E così?
“Io l’ho detto spesso – l’ultima volta due giorni fa – e lo ripeto anche adesso. A un certo punto, nel mese di luglio, io ho preso atto semplicemente di una situazione: il Parlamento non ci consentiva di avere i numeri per approvare questa legge, e ho detto che l’impegno ad approvarla, dal mio punto di vista, era un impegno assolutamente da mantenere e che avremmo lavorato a mantenere questo impegno in autunno. E questo è ciò che anche qui ripeto, tranquillamente. Segnalo che non siamo ancora in autunno: quindi lavoreremo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi per l’approvazione di questa legge. Se non si è approvata, finora, è perché non c’erano i numeri. Purtroppo non basta il coraggio. Il coraggio è utile, però è anche importante, soprattutto in Parlamento, avere i numeri per approvare una legge. Allora io vorrei lavorare per avere, oltre al coraggio che non mi manca nonostante il carattere accomodante, una maggioranza al Senato per approvare questa legge. Che è stata approvata alla Camera due anni fa, non tre mesi fa. Uno potrebbe dire: ‘Ma come? E’ stata approvata tre mesi fa, ora bisogna approvarla in tre giorni anche al Senato’. E invece è stata approvata alla Camera due anni fa. E noi lavoreremo per avere le condizioni per approvarla anche al Senato. Punto”.
Pausa.
“Applauso!”.
Pausa.
“Dopodiché – continua Gentiloni – fatemi aggiungere solo una cosa. E cioè: al di là del dibattito culturale e della polemica politica, non colleghiamo alcune cose che sono di emergenza sul fronte dell’immigrazione, per esempio gli sbarchi, a questa legge sulla cittadinanza. Quando parliamo dello ius soli, stiamo parlando di una legge che riguarda dei bambini che sono nati in Italia da genitori che da tanto tempo risiedono in Italia e stiamo parlando di condizioni particolari di studio che sono il presupposto per l’acquisizione della cittadinanza. Lo stesso titolo che, forse perché è corto, viene attribuito a questa legge, non è corretto. Perché ius soli significa che tu diventi cittadino di un paese perché sei nato in quel paese. Qui non stiamo neanche parlando di uno ius soli: stiamo parlando di rendere più agevole un diritto alla cittadinanza a quei tantissimi ragazzini che vediamo nelle nostre scuole, nelle nostre squadre sportive, che frequentano le nostra società e che non hanno niente a che fare con gli sbarchi che vediamo tutti i giorni in televisione. Se la raccontiamo per quello che è, io penso che faremo meno fatica a trovare le condizioni per approvarla, questa norma. E quindi chiedo anche a tutti voi di fare uno sforzo di spiegazione, di convinzione, in questa direzione”.
Presidente, parlava del tema dei migranti e degli sbarchi. Su questo fronte il suo governo ha diviso un pezzo della sinistra e ha alimentato un dibattito che arrivato fuori dal perimetro del nostro paese. Ci sono tanti modo per affrontare il tema. Uno che ci sembra azzeccato è questo: se è vero che su questo dossier esistono due grandi scuole di pensiero, incentivare o disincentivare gli arrivi, è giusto dire che il governo Gentiloni, in continuità con quello precedente, ha cercato di non incentivare più l’arrivo di migranti?
“Io penso che siamo tutti, almeno qui dentro, consapevoli del fatto che non stiamo parlando di un fenomeno passeggero che è nato oggi o due anni fa e che si esaurirà domani. Stiamo invece parlando di un fenomeno rilevantissimo: basta guardare ai numeri, alla geografia, al continente africano di fronte al quale l’Italia è collocata geograficamente. Un continente che contiene alcuni singoli paesi – che so? come la Nigeria – che tra trent’anni avranno più abitanti di tutta l’Unione europea. Ecco quali sono le dimensioni del fenomeno. Possiamo lasciare questo fenomeno senza alcune gestione, senza alcun governo? Semplicemente limitandoci o a dire ‘li cacciamo via tutti’? Ripetere questo slogan è non solo è inaccettabile dal punto di vista etico e dei principi di civiltà che tutti coltiviamo, ma non ha neppure senso, perché nessuno lo fa, non succede. Può essere una frase che uno dice in campagna elettorale – ‘li cacciamo via tutti’ – ma poi lo sappiamo benissimo che non è questo che accade, che ci sono in Europa centinaia di migliaia di persone che arrivano. Il problema quindi è di gestire questo fenomeno, organizzarlo. E come si fa? Be’, insomma, le spiegazioni sarebbero lunghe. Io dico solo una cosa semplicissima: organizzarlo significa fondamentalmente togliere ai trafficanti di esseri umani il monopolio del trasferimento dei migranti in Europa. Perché se loro hanno il monopolio, se sono loro che lo gestiscono, è chiaro che non ci sarà nessuna possibile forma di riduzione e organizzazione dei flussi. E di questa situazione le prime vittime sono esattamente i migranti che attraversano l’Africa: sono loro che muoiono nel deserto, sono loro che muoiono in mare. Quindi chi dice ‘lasciamo fare’, ‘limitiamoci a dire a tutti che li possiamo accogliere’, alla fine, in ultima analisi, non è una buona operazione neanche a favore di queste povere persone. A favore di queste povere persone noi lavoreremo se riusciremo a gestire i flussi e a dare loro dei canali legali, organizzati, per arrivare in Italia e nel resto d’Europa. E’ impossibile questo? Io cedo di no. L’esperienza italiana di questi mesi dimostra che è possibile, che si può passare da un fenomeno incontrollato e incontrollabile a un fenomeno più controllato e più controllabile. Ci sono meno arrivi e ci sono meno morti. Dobbiamo avere il coraggio di dire anche questa verità: meno arrivi e anche meno morti in mare. Per questo l’Italia è orgogliosa del lavoro ce sta facendo. E credo che per quanto sia un lavoro difficile, fragile, sempre in discussione e mai da considerare completato, credo che non sia un caso che la parte più democratica, più avanzata di tutta Europa sostiene l’Italia in questo sforzo. L’altro giorno, Jean-Claude Juncker, facendo il discorso sullo stato dell’Unione europea, ha detto: ‘L’Italia ha salvato l’onore dell’Europa’. Be’, se io sento una frase di questo genere sono contento, mi fa piacere, sono orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto”.
Governare l’immigrazione è un tema importante anche per l’identità di un partito di centrosinistra. E i partiti di sinistra, in questo momento, in giro per il mondo, non se la passano benissimo. In Europa sono pochi i casi in cui si trovano al governo persone che sono espressione diretta di un governo di centrosinistra. C’è il caso del Portogallo, c’è il caso un po’ anomalo della Grecia, c’è il caso della Repubblica Ceca. Fuori dall’Europa c’è il caso del Canada e pochi altri. L’Italia è uno dei pochi casi al mondo di paese importante in cui da anni c’è un governo di centrosinistra. Che creatura è oggi il Partito democratico? E in che cosa pensa che il Pd, dopo sei anni di grande coalizione, sia distante da un pensiero di centrodestra?
“Io non voglio fare polemiche politiche ma credo che tutti voi che ci state ascoltando, leggendo i giornali e guardando la televisione ogni giorno, siate abbastanza consapevoli delle differenze tra la destra e la sinistra. Io la direi così: tra meno di un mese c’è il decennale della fondazione del Partito democratico, che è nato il 14 di ottobre del 2007. Guardando agli ultimi vent’anni, anche se la fase precedente questo partito si chiamava Ulivo, diciamo così, e poi si è chiamato Partito democratico (non erano proprio la stessa cosa ma erano abbastanza parenti), ebbene se c’è una cosa che unisce questo percorso ormai ventennale è quello di esprimere una sinistra di governo. Guardate che noi abbiamo un bisogno assolutamente enorme che la sinistra si prenda le sue responsabilità di governo. Io lo so bene potrebbe essere più facile il contrario. Cioè: tu fai governare gli altri, stai a casa, stai in pace tutto sommato con gli slogan della tua giovinezza o con le cose che eri abituato a pensare, non devi fare i conti con una realtà molto complicata, esterna, e quindi te ne stai tranquillo all’opposizione, in minoranza. C’è un’attrazione fatale per rimanere all’opposizione nella sinistra, nel mondo, che noi non possiamo condividere”.
Anche in Italia?
“Spero che non ci sia anche in Italia. Non possiamo condividerla, quest’attrazione, per senso di responsabilità. Io l’altro ieri sono stato a questi incontri che si fanno tra i governi in Grecia. E il mio interlocutore – una persona che io stimo molto: Alexis Tsipras – è stato, ve lo ricorderete, per alcuni mesi, una specie di mito per una parte della sinistra europea, quella di cui parlavo poco fa, quella che preferisce non troppo sporcarsi le mani con l’attività di governo. Tsipras per me è un esempio assolutamente straordinario in senso opposto: lui si è preso la responsabilità di guidare il suo paese, lo ha fatto assumendo delle decisioni difficilissime, anche molto impopolari, dal punto di vista delle privatizzazioni e dal punto di vista sociale. Si preso le sue responsabilità. Ma pensate se invece che Tsipras, a gestire l’uscita della Grecia dalla sua crisi economica più devastante fosse stata una destra antisociale. Sarebbe stato un disastro. Quindi io sono portatore dell’idea che, se c’è un valore che ha animato nel corso di questi dieci anni il Partito democratico e nella fase precedente l’Ulivo, è il fatto che anche in una società così complicata come la nostra, i valori di cui noi siamo incarnazione, i valori di sinistra, di centrosinistra, possano svilupparsi”.
In che modo presidente?
“Faccio solo qualche flash telegrafico. Primo: io penso che un governo di centrosinistra oggi sia in grado di dare certezze sul piano della sicurezza e dell’affidabilità al paese. Un paese come il nostro, come tutti i paesi europei e occidentali in questo momento, ha bisogno di essere rassicurato, ha bisogno di essere guidato da persone affidabili, ha bisogno che chi governa abbia fiducia nelle istituzioni, non sia un propagandista contro le istituzioni. Secondo: il cittadino italiano ha bisogno che chi governa sappia incoraggiare e accompagnare la crescita, proprio perché tornare a questa crescita è stato molto faticoso, abbiamo avuto anni durissimi. E però sappia anche che la ripresa dell’economia e quindi le cifre positive sul lavoro, sulla produzione, sull’occupazione, sulle esportazioni, devono accompagnarsi ad alcune direttrici condizionanti fondamentali. Innanzitutto: il lavoro, il lavoro, il lavoro. La sostituzione tecnologica rende molti difficile questo passaggio. Abbiamo qui il ministro del lavoro che potrebbe tenere una conferenza su quanto oggi possano esistere anche delle riprese economiche a bassa intensità di lavoro, e quindi dire ‘ok, ci sono dei buoni numeri dell’economia ma ci vuole lavoro’ è fondamentale e lo possiamo fare solo noi. Poi ci vuole sostenibilità ambientale. E’ irresponsabile oggi il livello di sottovalutazione del tema ambientale che c’è in mondi diversi dal nostro. Noi siamo in grado di portare dentro la crescita questo valore. E ancora: prima di venire qui siamo stati a Bologna con Stefano Bonaccini che è qui presente, con il sindaco e con questa Alleanza contro la povertà. E abbiamo firmato – anzi: hanno firmato, io ho benedetto – il reddito di solidarietà che è un nuovo strumento della Regione per sostenere le fasce più povere. Abbiamo bisogno di ricordarci – e ce lo dobbiamo ricordare anche qui, in una regione che tutto sommato non se la passa malissimo rispetto ad altre regioni italiane – che la crisi ha prodotto un numero enorme di nuovi poveri. Questa è la sinistra dal mio punto di vista: accompagnare la crescita con questi valori: lavoro, ambiente, tutela della povertà. E infine gestire – ma ne abbiamo già parlato – il tema della situazione internazionale, dei flussi migratori che l’accompagnano, dell’instabilità geopolitica, in un modo umano e responsabile. Abbiamo bisogno di umanità e di responsabilità. Quindi cari amici e cari compagni del Pd: a noi la responsabilità di governare ce la impone il senso di responsabilità generale che abbiamo come cittadini. Se lo facciamo, rispondiamo a quello che è il nostro dovere. Se ci rifugiamo in delle convinzioni magari più limpide, apparentemente più lineari, che ci consentono solo di essere in pace con la nostra coscienza, o con la nostra coscienza di venti o trent’anni fa, facciamo una cosa rilassante, ma facciamo un errore. E non ce lo possiamo permettere, di fare questo errore in questo momento”.
Domanda secca: ma che differenza c’è tra il Partito democratico e il Movimento 5 stelle?
La risposta è stata già data (riferendosi al rumoreggiare del pubblico, ndr). Passiamo alla prossima.
Insisto. Che differenza c’è?
“Io alla fine penso che il lavoro che faccio adesso mi consiglia di non fare polemiche partitiche, quindi lasciamo perdere. Però la differenza c’è”.
“Io continuo a pensare che non si vive di solo pil. Quindi i calcoli poi sono sempre molto complicati. Per esempio: un paese come la Spagna ha certamente un grande dinamismo dal punto di vista del prodotto interno lordo, e ha anche dei livelli di disoccupazione altissimi. L’Italia invece è un paese che ha un debito pubblico molto elevato, che è stato accumulato nel corso dei decenni e che influisce parecchio nel nostro posizionamento nella classifica europea e a livello internazionale. Noi abbiamo un avanzo primario – cioè il bilancio al netto degli interessi che si devono pagare per questo debito pubblico così alto – positivo da quindici anni, e siamo – credo – l’unico dei grandi paesi ad averlo in modo così massiccio e da così tanto tempo. Quindi la nostra è una economia che ha avuto una crisi enorme, che non è ancora tornata – pensate! – in termini di grandi numeri ai livelli che avevamo raggiunto nel 2006-2007, cioè nel momento prima del tonfo. E tuttavia ha non dico raggiunto, ma avvicinato i grandi paesi europei in un modo spettacolare. Ho detto già in un’altra occasione che la cosa incredibile per l’Italia è la distanza tra le previsioni più accreditate sull’andamento della nostra economia e l’andamento reale della nostra economia. Vi cito solo un dato per non dilungarmi molto. Il consenso – si dice così, tecnicamente – delle previsioni sul pil italiano del 2017 era circa un anno fa attorno allo 0,7. Ciò significa che noi faremo quest’anno una crescita doppia rispetto a quello che tutte le grandi istituzioni internazionali prevedevano dodici mesi fa. Doppia, non del 10 per cento o del 20 per cento in più. Esattamente il doppio. Allora questo sì che è un primato europeo. Quindi è vero che alcuni paesi europei hanno tuttora dei tassi di crescita migliori del nostro, ma la distanza dell’Italia da questi paesi si è ridotta in un modo spettacolare. E io penso – visto che siamo in una sede del Pd, del nostro partito – che noi con orgoglio dobbiamo dire che questo è innanzitutto merito dello straordinario lavoro di riforme che è stato fatto in questi anni, in particolare delle riforme con le quali Matteo Renzi all’inizio del suo governo ha dato una botta allo stallo. Poi è chiaro che abbiamo proseguito, abbiamo completato le cose, però non dimentichiamoci da dove siamo partiti. E cioè da una distanza con gli altri paesi europei che sembrava incolmabile: oggi siamo nel gruppo, anche se non siamo in testa. E abbiamo delle risorse straordinarie per continuare, piano piano, a risalire. Il punto però è che non c’è un campionato del mondo del pil a cui partecipi e se lo vinci chissà che cosa porti a casa. Avere la crescita serve per avere più qualità della vita, più benessere, più salute, più lavoro, più occupazione, più dignità nel modo in cui viviamo. E per fare questo ci vuole tempo. Quindi noi abbiamo bisogno di sicurezza nei prossimi mesi e nei prossimi anni per far sì che la crescita continui e cominci ad avere i suoi effetti positivi per le nostre famiglie, per il lavoro, e per il benessere degli italiani. Lì ancora non siamo arrivati a ottenere i risultati di cui c’è bisogno. Di questo dobbiamo essere consapevoli: abbiamo fatto tanta strada ma ne manca una parte fondamentale. Perché se non la diciamo così, le persone ci guardano come matti. Perché è inutile parlare del pil: nessuno può mangiarselo, il pil. Quindi è necessario che siamo in grado di trasformare questi dati positivi in lavoro, sostenibilità ambientale, sostegno alle persone in difficoltà. Quello è il partito democratico, non solo una cifra positiva del pil”.
Se domani mattina un interlocutore straniero le dovesse chiedere: “Caro Gentiloni, ma che cos’è questo caso Consip? Me lo può spiegare un attimo?”, lei come lo spiegherebbe all’estero?
“Cercherei di cambiare discorso…”.
E se il suo interlocutore dovesse insistere?
“In generale, sull’argomento, da presidente del Consiglio direi questo: che per noi, per un paese come il nostro, la credibilità e l’autorevolezza delle istituzioni che amministrano la giustizia e di quelle militari che garantiscono la nostra sicurezza è un bene prezioso da tutelare, soprattutto di questi tempi. E quindi se ci sono dei comportamenti che questa credibilità e questa autorevolezza screditano, io penso che siano dei comportamenti gravissimi. Per fortuna – e sono d’accordo con quanto detto ieri (venerdì 15, ndr) da Matteo – queste istituzioni possono avere al loro interno gli anticorpi per evitare e se necessario eliminare questi comportamenti. Perché è a loro che spetta questo compito. Io ho fiducia che chi amministra la giustizia, chi garantisce la nostra sicurezza sappia confermare la credibilità di cui tutti abbiamo bisogno. Quello che mi preoccupa in questa vicenda è che venga messa in gioco questa credibilità: per un paese come il nostro sarebbe gravissimo. Ma sono convinto che non sarà così, e che chi l’ha messa in discussione alla fine non riuscirà ad incrinare la forza di queste istituzioni”.
Ha citato le parole del segretario del Pd. Ma nel corso delle ultime ore ci sono state anche altre prese di posizione. Il presidente del Partito democratico, Matteo Orfini, ha parlato di “eversione”. Il giornale del Pd, Democratica, ha parlato di “complotto”. Ieri il segretario del Pd ha detto a noi del Foglio che il caso Consip è nato per colpirlo. Io le cito anche un’altra dichiarazione, quella fatta dal vicepresidente del Csm, Legnini, che qualche giorno fa ha detto: “La sola ipotesi che possa esserci stato un falso o un depistaggio, è di per sé inquietante”. Dato che lei è un esponente del Pd, le chiedo a questo punto se condivide quello che hanno detto il presidente e il segretario del Pd.
“Sì, io sono un esponente del Pd ma in questo momento sono anche, casualmente, il presidente del Consiglio. Quindi non mi abbandono a giudizi di questo genere. Non voglio ripetere quanto ho già detto: rispetto ovviamente queste valutazioni, ma la mia convinzione è che i comportamenti che screditano queste istituzioni non possano essere accettati. E sono totalmente fiducioso che saranno queste stesse istituzioni a combattere questa situazione”.
Ieri Renzi ha detto un’altra cosa che la riguarda. Ha detto che lui, in questo momento, si sente l’allenatore del Pd e forse anche della maggioranza che sostiene il governo. Lei in che ruolo si vede in un campo da gioco?
“Io sono una riserva, naturalmente”.
Torniamo ai temi della sinistra del futuro e ai suoi tabù. Quali sono secondo lei oggi due grandi tabù – che riguardano la sinistra, ma che riguardano anche l’Italia – che andrebbero affrontati di petto e senza indietreggiare?
“Sarebbe un discorso lungo. Credo che noi, come Pd, abbiamo fatto in questi anni – ed è stata una discussione in pubblico, quindi sicuramente molti dei presenti hanno partecipato – un grandissimo lavoro di cambiamento della nostra cultura di governo e di sinistra. Abbiamo fatto bene o abbiamo fatto male? L’altro giorno ho fatto due chiacchiere con Piero Fassino che mi ricordava che quando lui, alla nascita del Partito democratico, andava in giro nel mondo dei partiti tradizionali della sinistra europea a dire che si faceva un nuovo partito con delle forze diverse, lo guardavano tutti come se stesse facendo una cosa troppo avanzata. Io penso che la storia di questi dieci anni, e purtroppo anche le difficoltà che i partiti che non si sono rinnovati hanno incontrato in giro per l’Europa, ci conferma che quelle cose che andava a dire in giro Piero Fassino erano in fondo assolutamente giuste. Io credo in fondo che in questo lavoro di superamento delle catene storiche della sinistra, sulle quali il mio intervistatore ha scritto un libro qualche anno fa, noi ci siamo portati parecchio avanti. Mi viene quasi da dire che il problema che abbiamo oggi, più che andare avanti rispetto a vincoli di idee del passato, è un problema di confrontarci con le questioni che ci vengono scodellate davanti dall’attualità, dal futuro. Uno dei problemi più drammatici che abbiamo, per esempio, è quello di come regolare le nuove forme di lavoro. E’ un problema difficilissimo, perché noi possiamo anche dire che le nuove forme di lavoro non esistono, non le accettiamo. Vorremmo tutti le forme di lavoro che ha conosciuto la mia generazione e quelle leggermente più giovani della mia, ma in realtà le nuove forme di lavoro ci sono dappertutto. E sono complicate da gestire. In questi giorni in Estonia c’è stata una riunione dei ministri dell’Economia e delle Finanze e la cosa principale di cui hanno discusso – qui non parliamo di lavoro ma di tasse – è la questione di come tassare le più grandi imprese del mondo. Che sono gigantesche, hanno un numero di dipendenti limitatissimo e in l’Italia addirittura irrisorio, e non si sa bene in quali paesi paghino e tasse, perché sono delle grandissime multinazionali. E che facciamo, le eliminiamo? Andiamo senza Google? E come facciamo a andare senza Google? Quindi, per farla breve, io credo che, più che da spezzare le catene del passato dalle quali ormai ci siamo abbastanza liberati, abbiamo da rifondare un pensiero della sinistra sui problemi aperti del nostro futuro. Qui dobbiamo lavorare. Qui il Pd deve farsi sentire e deve far valere anche il suo ruolo in Europa. Penso che la nostra esperienza possa avere un valore da questo punto di vista. Non a caso su alcuni temi ci prendono ad esempio, a noi del Pd. Di immigrazione discutono in tutta Europa sula base dei risultati che abbiamo ottenuto. E penso che questo sia un motivo di orgoglio per noi e per la nostra comunità politica”.
Le faccio una domanda su un tema un po’ tecnico, ma che penso sia importante da inquadrare anche per capire che ruolo potrà giocare nel futuro l’Italia. Negli ultimi mesi in Europa si è manifestata una piccola rivoluzione non notata da molti: è nata l’Europa a due velocità. Detta così può sembrare una diminutio, un passo indietro dell’Europa; ma in realtà, come lei stesso ha argomentato in diverse occasioni, il fatto stesso che ci siano alcuni paesi – i più forti e importanti – che si mettono insieme per poter far andare l’Europa in maniera più veloce è un passaggio importante. Ci spiega che ruolo può giocare l’Italia nell’Europa a due velocità?
“Banalmente io credo che noi abbiamo vissuto in quest’ultimo anno e mezzo una fase di grandissima sfiducia nei confronti dell’Europa, una fase di crisi che forse è stata la più acuta nei sessanta anni di vita dell’Unione europea dai Trattati di Roma a oggi. In quella notte tra il 23 e il 24 giugno del 2016, quando abbiamo appreso che i britannici avevano deciso, con una piccola maggioranza, di abbandonare l’Unione europea, per la prima volta abbiamo scoperto che una storia di straordinario successo – quella di un’invenzione che aveva posto fine a una guerra e che aveva dato libertà e democrazia ai paesi ex fascisti o ex comunisti, e aveva diffuso il benessere – poteva diventare minoranza nel proprio paese. E quindi ci poteva essere un grande paese che preferiva andarsene. Adesso forse ne stanno molto ridiscutendo, nel Regno Unito, ma comunque hanno deciso democraticamente – e noi lo rispettiamo – di andarsene. Da questa crisi che di fatto era l’unione dell’impotenza dell’Europa sulle vicende migratorie e sulla crisi economica piano piano l’Europa si è risollevata. Ora, a questo risollevarsi dell’Europa che prospettive vogliamo dare? Perché contemporaneamente la domanda di Europa attorno a noi – nel Mediterraneo, in Africa, nel Medio Oriente – è aumentata, dato che in questo stesso periodo, nel nostro più grande paese amico e alleato si è affermata una leadership diversa che è più riluttante a un impegno esterno degli Stati Uniti. Quella del presidente Trump è una leadership che fa fatica ad acconsentire a un impegno nel Mediterraneo, in Libia, in Africa; tende più a isolarsi nel proprio paese. E quindi ecco che la domanda di Europa cresce. E a questa domanda, a questo vuoto geopolitico che qualcuno deve riempire, può rispondere un’Europa di ventisette paesi, condizionata da un meccanismo di unanimità, nella quale inevitabilmente il paese che vuole marciare più lentamente detta l’andatura a tutti gli altri ventisei? Io credo di no. Credo che alla fine i paesi che questa Europa hanno fondato – e quindi innanzitutto l’Italia, la Germania, la Francia, il Benelux – e i paesi che ne sono stati l’anima in tutti questi anni – dalla Grecia, alla Spagna, al Portogallo – ma anche alcuni degli ultimi arrivati, e insomma quelli che sono convinti di andare avanti verso conquiste più rilevanti dell’Europa e quindi verso un’eurozona più integrata, un bilancio della Comunità europea più unito, possono e devono avere il diritto di andare avanti. Smettiamola di vedere queste cose come dei rischi per l’Italia. A noi nessuno ci toglie, molto spesso, una specie di complesso di inferiorità nei confronti degli altri paesi. Tu vai in giro per il mondo e incontri migliaia di persone che ti invidiano come italiano: ‘E come si mangia bene, e la cultura, e che clima che c’è, e quante aziende all’avanguardia, e che meraviglia che è l’Italia…’. Talvolta noi italiani invece abbiamo un’idea di noi stessi molto molto riduttiva. Per cui la prima cosa che pensiamo quando c’è l’Europa a due velocità è: ‘A noi ci toccherà la terza classe, il vagone più lento. E’ inevitabile’. Non è così. Noi saremo protagonisti, nell’Europa a due velocità, di un’Europa più integrata. Lo saremo non perché siamo più o meno bravi, lo saremo perché siamo l’Italia. E penso che sia una cosa giusta e utile da fare”.
L’Europa a due velocità si manifesta in un contesto in cui in Europa si sono registrate altre due velocità. Negli ultimi venti mesi, in tutti i grandi paesi in cui si sarebbero dovute o potute affermare le forze anti sistema alla fine la velocità di crociera maggiore l’hanno mantenuta i partiti tradizionali. Dalla Francia fino alla Spagna passando per il Portogallo e l’Olanda, e per un soffio l’Austria, alla fine i populismi non hanno sfondato. Possiamo dire che in Europa, e chissà anche in Italia, il populismo è stato forse un po’ sopravvalutato?
“Non so se sia stato sopravvalutato. Talvolta sicuramente lo è dai sondaggi. Io direi, forse più semplicemente, che noi abbiamo avuto una crisi durissima e l’abbiamo avuta sia negli Stati Uniti sia in Europa. Una crisi che ha avuto il suo apice negli anni 2007, 2008 e 2009: gli Stati Uniti ne sono usciti molto più rapidamente dell’Europa, che piano piano ne è andata uscendo negli ultimi due o tre anni. Naturalmente rimangono quelle avvertenze che dicevo: buone cifre, buoni numeri che testimoniano l’uscita dalla crisi non sono un invito a non guardare negli occhi i problemi. Però non c’è dubbio che avere superato la fase più dura della crisi – la fase in cui l’Europa sembrava un nemico e basta, sembrava incapace di risolvere qualsiasi problema, sembrava portatrice di una economia disastrosa – ed essere adesso in un contesto un po’ più ottimistico, certamente toglie carburante alle posizioni antieuropee. Dopodiché l’espressione populismo meriterebbe una lunga analisi. Io mi riferisco qui alle forze antieuropee e antisistema, da questo punto di vista. Il populismo è un’altra cosa: nasce a sinistra, almeno negli Stati Uniti. Un esempio: il presidente Trump ha proposto nella sua campagna elettorale, in modo molto frequente, l’appello a quel forgotten man, l’uomo dimenticato: che è un’espressione che Franklin Delano Roosevelt, presidente democratico degli Stati Uniti, utilizzava di fronte a un’altra grave crisi economica, quelli degli anni Trenta. Quindi il riferirsi al popolo ha una sua dignità che alcune espressioni che abbiamo attorno a noi in Europa di questi tempi francamente non hanno assolutamente. Quelle sono, a mio parere, in difficoltà, perché tutto sommato la ragionevolezza del fatto che dobbiamo andare in una certa direzione prevale nella nostra cittadinanza. Ma c’è ancora molto lavoro da fare. Attenzione”.
Penultima domanda. Nel 2015, in Portogallo, le principali forze di governo hanno fatto un particolare accordo in campagna elettorale: hanno promesso di sostenere alcune riforme a prescindere da chi avrebbe vinto le elezioni. Ci sono oggi due questioni vitali per l’Italia sulle quali si augura che tutte le forze politiche possano mettersi d’accordo già in campagna elettorale, in vista delle prossima legislatura?
“Io sono molto affezionato ad alcune cose assai generali. Da una parte io credo che ci vorrebbe un consenso generale tra le forze politiche sul fatto che la fiducia nelle istituzioni che garantiscono la nostra sicurezza e in quelle europee dovrebbe essere preliminare per chi esercita una funzione politica se non hai fiducia in quelle istituzioni, io credo che non svolgi un ruolo positivo a livello di divulgazione di pensiero politico e di diffusione di idee. Abbiamo bisogno di un paese un po’ più coeso, un po’ meno litigioso, un po’ più unito su alcuni valori fondamentale, guardate che c’è molto della storia italiana in questa scarsa propensione ad unirsi intorno alle istituzioni. Quindi io lo capisco: noi abbiamo una storia unitaria recente, un rapporto con lo stato difficile. Però se non recuperiamo questo ritardo, alla fine le lezioni della storia che dovrebbero spingerci nella giusta direzione vuol dire che non le abbiamo imparate. Pensiamo ad esempio all’atteggiamento di coloro che settanta anni fa hanno partecipato all’assemblea costituente e che alla fine si sono messi d’accordo, dopo una discussione molto ampia, elaborata e lunga, su un testo fondamentale, come quello della nostra Costituzione. Ebbene: avevano delle enormi differenze dal punto di vista culturale e ideologico. Se guardiamo alla campagna del ‘48, che c’è stata subito dopo, se guardiamo i manifesti elettorali di allora, è evidente quale fosse il livello di guerra ideologica che c’era in quegli anni. E ciononostante, di fronte al compito supremo di dare una legge fondamentale al tuo paese, tu privilegi il rapporto con le istituzioni. Quindi il primo principio, a mio parere, è sentirsi un po’ più italiani. Siamo italiani, abbiamo una patria, una bandiera, delle istituzione che dobbiamo tutti insieme salvaguardare. Secondo: dobbiamo smetterla di diffondere paura. C’è qualcuno che pensa che la diffusione di paura porti consenso, porti voti. Se non fosse un problema serio, io non me lo porrei. Ma è un problema molto serio. E lo è perché lo spacciatore di paura ha spesso un terreno fertile, e sulle novità del mondo e delle tecnologie, sulla presenza di comunità tanto diverse dalla nostra, se vuole può ottenere consensi. Spacciare paura è la cosa più pericolosa che ci sia. Se ci mettiamo a seminare odio ed esclusione, raccoglieremo odio e violenza. Nei prossimi anni e per le prossime generazioni. Io mi accontenterei in fondo di questo: che tra tutti ci fosse un’intesa sul fatto che le istituzioni e l’Italia si difendono perché sono un bene comune e sul fatto che gli spacciatori di paura non devono far parte effettivamente del nostro circuito politico. Ognuno ha le sue idee, ma seminare paura è veramente molto pericoloso”.
Qualche giorno fa lei ha consigliato un libro: La fine della competenza. E’ un libro in cui si spiega perché in giro per il mondo l’incompetenza sia diventato improvvisamente un valore. A chi si riferiva?
“Veramente me l’hanno solo regalato…”.
Ma lo consiglierebbe a qualcuno?
“Innanzitutto non credo sia ancora tradotto in italiano: quindi è un po’ snob, il consiglio. E’ un libro americano che se la prende con un andazzo particolarmente diffuso nel web per il quale se tu non sei esperto di niente, te ne vanti e consideri quelli che sono esperti di qualcosa come un problema. Io penso che non ci faccia bene. E si tratti di scienza, di medicina, di ingegneri o di qualunque altra cosa, noi abbiamo bisogno di competenze nella nostra società. E per questo dobbiamo far studiare i nostri figli e i nostri nipoti”.