Una scena tratta da Squadra Mobile - Operazione Mafia Capitale

L'Italia e il tabù della politica al cinema

Claudio Cerasa

Contro l’autarchia cinematografica. Perché l’idea di ritrovarci in prima serata con un numero maggiore di film ispirati più a Mafia Capitale che a “Homeland” è un dramma per la nostra democrazia e un grande assist al paese dei Tafazzi

Se non è corrotto, non è corretto. Se non è compromesso, non è concesso. Se non è sputtanato, è quasi un reato. La notizia dell’approvazione dell’incredibile riforma che obbliga le televisioni nazionali ad aumentare la quota di produzioni made in Italy messe in onda nella fascia di prima serata è una notizia sconfortante non soltanto perché le modalità di visione della “Corazzata Potëmkin” diventano improvvisamente legge dello stato ma anche perché l’imposizione coatta della cinematografia italiana rischia di avere un impatto devastante per la cultura politica italiana, che di per sé tra l’altro se la passa già così così.

 

Diciamo questo non per voler creare un clima di allarmismo ma solo per segnalare al ministro Dario Franceschini che un paese che ogni giorno deve fare i conti con le stupidaggini del partito anti casta avrebbe il diritto ad assorbire meno fotogrammi di Mafia Capitale, e meno derivati delle Suburra e Associati, e più fotogrammi di una serie tv a scelta tra “Homeland”, “Veep”, “Scandal”, “West wing”, “House of cards”, “Billions” o “Good Wife”.

 

Se è vero che nella costruzione dell’immaginario di un paese il cinema e la televisione giocano ancora un ruolo importante, l’occasione della legge Franceschini ci è utile per mettere a fuoco un problema con cui spesso dimentichiamo di fare i conti quando parliamo di film italiani: ma per quale diavolo di motivo nel nostro paese quando la politica finisce in televisione o sul grande schermo ci finisce solo per essere massacrata, per essere devastata e per essere descritta come se fosse nient’altro che un covo di pericolosi pervertiti senza scrupoli che non hanno altro interesse nella propria vita se non quello di trescare con la mafia, di calpestare lo stato, di giocare sporco con la criminalità organizzata e di spendere a caso i soldi di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella? Chiunque abbia avuto la possibilità di mettere a confronto negli ultimi tempi una qualsiasi puntata di una serie tv americana con una qualsiasi puntata di uno sceneggiato italiano non può non essersi accorto che, quando la politica finisce al centro della narrazione, in Italia scatta un riflesso pavloviano che non si trova facilmente in America.

 

Nelle produzioni americane è considerato moralmente lecito quello che in Italia è considerato moralmente illecito e anche nelle serie tv e nei film in cui emerge in modo chiaro e netto il volto oscuro del potere si tende più ad analizzare che a giudicare la politica, anche a costo di correre un rischio che nel nostro paese nessuno sembra essere disposto a correre: creare cioè un sentimento di empatia tra il fruitore di uno sceneggiato e l’universo della politica.

 

Per mettere insieme scene che siano diverse dalla mera trasposizione su pellicola dei dibattiti da talk-show occorrerebbe (a) costruire film e serie tv scommettendo più sugli Aaron Sorkin e meno sui Roberto Saviano (avercene di sceneggiatori) e (b) avere il coraggio di descrivere la politica senza la pretesa di dover offrire solo (pseudo) documenti realistici. Se ci si pensa bene, non c’è nulla di più soggettivo di un film nato per raccontare la verità della politica e paradossalmente, nella trasposizione della vita politica in un film o in una serie tv, non ci sarebbe nulla di più rivoluzionario di una fiction che permetta di far ragionare su ciò che può essere la politica spersonalizzando i soggetti, abbandonando la finzione di voler raccontare la verità e concentrandosi così più sugli oggetti che sui soggetti.

 

Per esempio, il ruolo che ha la politica estera nella vita di un governo (“Homeland”). Per esempio, la diversa visione del mondo che può esistere tra chi si occupa di diritto e chi si occupa di finanza (“Bilions”, “The Good Wife”). Per esempio, il dietro le quinte più o meno surreale e più o meno credibile che esiste nella quotidianità della politica (“West Wing”, “Homeland”, “Scandal”, “Veep”). Da questo punto di vista le conseguenze del decreto Franceschini – e l’idea cioè di ritrovarci in prima serata con un numero sempre maggiore di serie tv, di film e di documentari ispirati più a Mafia Capitale che a “Homeland” – ci sembrano persino più spaventose delle conseguenze di carattere economico che porta con sé una legge ispirata ai princìpi basilari dell’autarchismo culturale. Ci piacerebbe pensare che obbligare le tv nazionali ad aumentare la quota di produzioni made in Italy possa essere un’occasione per responsabilizzare i nostri sceneggiatori (basterebbe un po’ meno House of Mafia e un po’ più commedia all’italiana). Ma purtroppo temiamo che allargare ulteriormente l’inquadratura sul modo in cui l’universo cinematografico e televisivo tende a raccontare il nostro paese produrrà un effetto diverso: metterà in risalto la nostra propensione naturale a considerare accettabile solo ciò che porta acqua al mulino dell’apocalitticamente corretto e ci porterà a cercare delle alternative lontane da quella che è destinata a essere sempre di più la formula egemonica delle nostre prime serate: ciak, governo ladro. Caro ministro Franceschini, davvero ci meritiamo tutto questo?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.