L'Europa? Una bandiera di destra
Dall’unione bancaria al vero progetto Draghi. Cosa farà il centrodestra a Bruxelles se arriverà al governo
Nun ti piace ‘o Presebbio?”. Giuliano Ferrara ha sistemato stupendamente le statuine di Casa Macron. E con la sua magnifica prosa ci chiede come fosse ovvia e scontata la risposta entusiasta: “Non ve piace 'o Presebbio?”. “No, nun ce piace”. E Macron non è Gesù Bambino né Angela Merkel la nostra Madonna. Chiedo scusa a Eduardo per questa invasione teatrale. E a Giuliano Ferrara, che scrive sempre da Dio e incanta, ma ha il torto, almeno per il momento, di non esserlo. Non ci piaceva con Merkel-Sarkozy, non ci piace con il sovranista Emmanuel Macron. Sarebbe un’Europa in salsa francese ed è proprio il susseguirsi dei tentativi di egemonizzazione da parte di questo o quell’altro stato, magari anche mescolando gli intingoli, la malattia mortale dell’Ue. Ottenere un quarto mandato è stato il compito più facile per Angela Merkel. Ora il mondo si aspetta molto di più: che la cancelliera faccia l’Europa, non solo gli interessi della Germania. Forse il responso delle urne tedesche paradossalmente potrebbe aiutare. Per questo diciamo “no” al ministro delle Finanze europee se esso dovesse rappresentare l’egemonia dell’asse franco-tedesco, ormai fuori dal tempo. Come scandiamo un sonoro “no” alla definizione di una nuova governance economico-finanziaria dell’Eurozona. Sarebbe un mettersi nelle mani di potenze indifferenti al nostro interesse nazionale, accomodandoci nel presepe come pecorelle. No, questa nuova governance esige per essere accettata che si costruiscano prima l’unione bancaria, l’unione di bilancio, l’unione economica, l’unione politica. Non è un discorso improvvisato quello che faccio, ma un impegno che dal 2012 si è assunto il Consiglio europeo sulla base dei rapporti dei quattro, e poi cinque, presidenti. Di queste unioni, purtroppo, nessuno parla più quale dato strategico: non lo ha fatto neppure il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker (peraltro uno degli autori dei “Rapporti dei presidenti”). Nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione vi ha accennato nei termini di una risposta alle emergenze, come ha fatto notare di recente anche il Wall Street Journal. Laddove, invece, solo nella simultanea costruzione e nell’equilibrio delle quattro unioni l’Europa sopravvive, di pari passo con il riconoscimento alla Banca Centrale Europea di un suo ruolo di prestatore di ultima istanza, a immagine della Federal Reserve negli Stati Uniti. In linea con le ultime dichiarazioni alla Sorbona del presidente francese, Emmanuel Macron, che parla bene ma poi si comporta in maniera opposta, perdendo di credibilità, da Fincantieri a tutti gli altri dossier “della grandeur” aperti, e alla luce della prospettiva che dovrebbe prendere il futuro governo tedesco con l’ingresso dei liberali.
Che debba trovarsi uno sbocco al Fondo salva stati europeo (ESM: “European Stability Mechanism”), che ha al suo interno 375 miliardi di euro non utilizzati e che finora ha solo investito in titoli di stato tedeschi, è fuori discussione, ma l’idea di trasformarlo in una sorta di “Fondo monetario europeo” non è la soluzione. Si usino, piuttosto, quelle risorse per finanziare gli investimenti e lo sviluppo dei Paesi dell’eurozona rimasti indietro, e non solo loro.
Allo stesso modo, non di un ministro delle Finanze Ue abbiamo bisogno (quasi un super guardiano dei bilanci degli stati), quanto di un ministro dello sviluppo Ue. La nuova governance economico-finanziaria dell’Europa deve, cioè, essere finalizzata alla crescita e allo sviluppo e non deve essere un nuovo strumento nelle mani dei più forti per commissariare i più deboli.
Un’Europa senza crescita non è più possibile e non verrebbe accettata dai cittadini. Senza crescita si blocca anche la trasmissione della politica monetaria all’economia reale, come è avvenuto negli anni dell’ultima lunga crisi. Finora le richieste del presidente della Bce, Mario Draghi, perché i governi collaborino stimolando la crescita nell’eurozona, sono rimaste inascoltate. Oggi può e deve essere l’intera Unione europea a rispondere all’esigenza di sviluppo. Solo così si giustificherebbe un ministro dell’Economia unico.
Accordi bilaterali tra gli stati autonominatisi capoclasse, oltre che essere umilianti, prefigurano fin troppo bene il futuro di sottomissione che nessun governo serio oggi vuole e neppure potrebbe far ingoiare al proprio popolo, con il rischio di fare implodere l’intero progetto europeo. Invece di salti in avanti temerari occorre il lavoro comune, che solo genera fiducia e non lascia in giro la pistola fumante della prepotenza paternalistica. Questo rischio si è già corso, con un crollo della credibilità dell’Ue, per esempio, con la stessa moneta unica, l’euro, rimessa in discussione nei momenti più bui del recente passato, e ancora, più di recente, con il bail-in, approvato prima di aver ben completato l’unione bancaria. E come finirà per accadere con il ministro delle Finanze europee se prima non si fa l’unione di bilancio.
Ogni accelerazione che sia figlia di meri opportunismi di singoli stati membri ha esiti centripeti di debolezza. Quello che sta succedendo in queste settimane, per cui il governo italiano accetta, con somma accondiscendenza, di non partecipare ai tavoli in cui si definisce la nuova governance europea, pur di ottenere non meglio definiti “sconti” sulla prossima legge di bilancio, è peggio di un crimine morale di sudditanza: è un grave errore. Non lo dico io: lo sosteneva uno dei maestri conclamati di Giuliano Ferrara: Fouché, il capo di molte polizie, una volta accusò Talleyrand, il ministro di molti regimi, per aver convinto Napoleone ad ammazzare un uomo innocente, il duca d’Enghien, e commentò: “C’est plus qu’un crime, c’est une faute”. Un esecutivo che accettasse questo scambio unirebbe due effetti negativi. 1) Maggior deficit significa maggior debito pubblico nei prossimi anni quindi un appesantimento dei conti passivi. 2) Il peso dell’Italia in Europa sarebbe quello di potenza minore. Insomma: gravame di debiti, anoressia politica.
Cosa spinga il Governo della terza economia più grande dell’Unione ad accettare a scatola chiusa le proposte altrui è spiegabile, dicevamo, soltanto pensando che possa esistere un accordo tacito tra Commissione europea e governo Gentiloni sulla concessione di ulteriore “flessibilità” sui conti pubblici, vale a dire la possibilità di fare deficit nella prossima legge di bilancio, il cui conto supera già i quaranta miliardi di euro.
Questo non può essere accettato per diverse ragioni. Primo: le ragioni politiche. Qualsiasi proposta riguardi il futuro dell’Europa nei prossimi decenni deve essere concordata da tutti i leader europei seduti attorno a un tavolo, e non essere scritta al ministero delle Finanze tedesco o all’Eliseo. Niente fughe in avanti, quindi, da parte di Francia e Germania: l’Unione europea non è una dependance dell'asse renano. Secondo: le motivazioni economiche. Una governance come quella proposta da Juncker è destinata, in breve tempo, a disgregare l’Unione, se prima non verranno completate, come detto, le quattro unioni che rappresentano le fondamenta dell’attuale assetto comunitario (ripetiamo: bancaria, di bilancio, economica e politica).
Sbagliare le riforme Ue in questa fase storica sarebbe un errore imperdonabile, perché l’Europa intera cadrebbe nuovamente in una crisi istituzionale che getterebbe altra benzina sul fuoco dei movimenti populisti, nello stesso momento in cui questi cominciano a vedere ridursi il proprio appeal.
Se l’intento è quello di proseguire sulla strada dell’integrazione politica e istituzionale, occorre che Germania e Francia lascino da parte le loro mire egemoniche per il controllo dell’Europa e si pongano, invece, nell’ottica di rilanciare una Europa federale, veramente degna di questo nome.
Dal momento che difficilmente il piano di riforme, spesso draconiano, viene rispettato, ecco che il Paese concessionario rientra di nuovo in crisi e quindi è costretto a chiedere un altro prestito, sotto l’impegno di realizzare altre riforme e così via. E’ un approccio che gli Stati Uniti hanno utilizzato nei decenni passati per tenere sotto controllo i Paesi sudamericani, così come ha fatto anche la Germania nel tentativo (fallito) di traghettare la Grecia fuori dalla crisi, e come hanno fatto i paesi occidentali per obbligare quelli africani a seguire riforme di stampo occidentale. La storia insegna che la maggior parte di questi interventi sono andati miseramente male.
Nelle vere federazioni o confederazioni di stati, invece, esiste un fondo perequativo che trasferisce, automaticamente e solidalmente, risorse dagli stati più ricchi a quelli più poveri. Esiste, inoltre, un unico debito emesso da un Tesoro centrale attraverso strumenti di debito, emessi a livello federale. Ma, in Europa, la Germania sul tema dei trasferimenti e del debito unico europeo, purtroppo, ha sempre fatto orecchie da mercante. Che si tratti degli eurobond formalmente proposti da Jacques Delors o dei ben più modesti Sbs (“Sovereign backed securities”) ipotizzati nella primavera di quest’anno da ambienti della Commissione, il debito unico rimane un miraggio. E’ inutile, quindi, iniziare persino a ragionare sul resto.
Il surplus crescente dell’economia tedesca ha dimostrato, negli anni della crisi, che l’espansione monetaria, senza una politica che aiuti la convergenza economica tra i vari paesi, non fa che alimentare uno squilibrio che ci pone in conflitto anche con il resto del mondo.
L’Europa a trazione tedesca non ha volutamente colto, sbagliando, che l’eccesso di virtù (surplus delle “formiche”) produce altrettanti danni dell’eccesso di deficit (dei paesi “cicala”). E le misure per fronteggiare la crisi che ne sono derivate non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, piuttosto che risolverla.
Pensare che la convergenza delle economie dovesse passare attraverso la deflazione interna ai paesi cosiddetti deboli (le “cicale”), ed essere imposta attraverso il consolidamento fiscale anche nei periodi di recessione, ha prodotto deflazione generalizzata e nessun consolidamento fiscale.
Al contrario, quello che serviva, anche per una maggiore efficacia della politica monetaria di Mario Draghi, era la reflazione in Germania, che avrebbe fatto aumentare la crescita nell’eurozona di almeno un punto all’anno, e avrebbe evitato la nascita dei populismi.
Reflazione vuol dire, per tutti i paesi in surplus, cambiare mentalità, e cioè usare le risorse del surplus per finanziare la diminuzione della pressione fiscale, quindi aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, con conseguente aumento delle importazioni e, di conseguenza, della crescita. E con la crescita, aumentare fino ai livelli fisiologici l’inflazione. La reflazione diventa necessaria quando si tocca il fondo della recessione e della deflazione, e per risalire la china serve un “rimbalzo”, vale a dire una politica economica che vada nella direzione opposta. Pertanto, la reflazione, lo diciamo da tempo, era ed è ancora oggi l’unico antibiotico appropriato dopo la fase depressiva che in Europa ha distrutto non solo le economie degli Stati, ma anche le coscienze e ha minato in profondità le stesse regole democratiche.
Vediamo i numeri. Nel 2016, il surplus della Germania ammontava a 300 miliardi di euro, vale a dire il 7,9 per cento rispetto al pil. Insieme alla Germania, i maggiori surplus dell’eurozona sono stati registrati da Olanda (10,9 per cento), Svezia (6,8 per cento) e Danimarca (6,3 per cento), per un totale, in valori assoluti, di 100 miliardi di euro. Guarda caso tutti paesi del nord Europa, gli unici che dalla crisi dell’euro in questi anni ci hanno guadagnato. E se questi dimezzassero il loro surplus, avremmo una iniezione di liquidità di 200 miliardi di euro.
Ne deriva che la soluzione non può essere quella di trasformare l’attuale Esm in una istituzione monetaria che ragiona secondo il meccanismo delle concessioni, ma semmai in uno strumento che, assieme alla Banca europea degli investimenti (Bei), opportunamente rafforzata, eroghi risorse per grandi progetti europei. Anche per quanto riguarda il completamento dell’Unione bancaria europea, occorre creare un meccanismo di garanzia dei risparmi unico a livello europeo. Da questo punto di vista, l’Europa dovrebbe aver capito la lezione della ultima lunga crisi, allorché, per colpa degli egoismi di alcuni stati membri, non è intervenuta immediatamente e pervasivamente per salvare le banche in difficoltà, come avvenne, invece, negli Stati Uniti. Anche in questo caso, è la Germania che si è sempre opposta a creare un tale meccanismo.
E anche stavolta, la risposta è alla nostra portata: interpretare correttamente tutta la regolazione del dopo Maastricht. Rispettare, cioè, lo spirito originario del trattato nell’applicare le norme che sono state innestate sull’impianto iniziale, in primis il Fiscal compact.
Questo significa recuperare la lezione di Guido Carli. Fu su proposta dell’allora ministro del Tesoro, infatti, che nel testo del trattato fu consentito agli stati che non rispettavano i “paletti” di Maastricht per il debito pubblico di soddisfarli non attraverso un piano di rientro a tappe forzate che avrebbe richiesto misure di politica economica restrittive e controproducenti, bensì adottando politiche virtuose che comportassero miglioramenti progressivi. A partire dal Patto di stabilità del 1997 (e modifiche successive), una certa corrente di pensiero e di azione politica ha cercato di cambiare questo saggio equilibrio inviso ovviamente ai tedeschi, in quanto contrario alla loro rigida dottrina calvinista e alla loro ossessione nei confronti dell’inflazione.
Così facendo, quando è arrivata la devastante crisi globale, è stato dato un segnale alla speculazione inevitabilmente presente sui mercati, che si è scatenata a scommettere sulla prevedibilità del non rispetto di quei “paletti”, considerati troppo rigidi e per questo irrealizzabili. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto negli ultimi anni.
Sì alla genialità di Guido Carli, quindi, ma basta agli egemonismi e ai ricatti tedeschi.
Ecco, allora, la necessità di proporre un piano di riforme della governance dell’eurozona finalizzato a una maggiore integrazione del mercato interno, in particolare nel settore dei servizi, ancora troppo segmentato; a migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; a costruire nuove infrastrutture; a migliorare i piani di approvvigionamento energetico; a dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. Chi ha una rete, in una economia globale, ha un tesoro. Come le reti infrastrutturali sono state i catalizzatori della nascita degli stati nazionali nell’Ottocento, così le reti digitali europee dovranno essere i catalizzatori della nuova Europa. Per effettuare questa capitalizzazione basterebbe utilizzare i fondi che, dicevamo, sono oggi inutilizzati, dell’Esm e far diventare quest’ultimo quello che non è riuscito a essere il piccolo fondo base che sosteneva il piano Juncker. Generare così crescita, aumentare la produttività, l’occupazione, vero collante per un’Europa unita anche nella lotta ai ribellismi. Utilizzando la grande opportunità rappresentata da tassi di interesse a livelli mai come oggi così bassi.
In Italia, infine, il serbatoio con il maggiore potenziale di crescita è il sud. Il Mezzogiorno, infatti, proprio per le sue carenze infrastrutturali ed economiche, può assorbire più investimenti, offrendo così un’opportunità di crescita al paese intero e quindi all’intera Europa.
Attuando nel nostro paese una strategia di politica economica di grande impulso alla crescita, a partire dal sud e assolutamente in linea con i principi e i valori europei, avremo tutte le carte in regola per ridurre la pressione fiscale e produrre per il paese quel salto di qualità da troppo tempo atteso. Questa è la nuova Europa che vogliamo. Che vinca i populismi e le sfide di questo secolo, che torni attrattiva e gestisca come si deve i flussi migratori di massa e non tema le crisi finanziarie. Il piano Marshall facciamolo prima in Europa. Facciamolo il presepe, ma senza Erode.
Renato Brunetta è capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati