Ricordo di Fiamma
Farmela con i fasci, appunto, come diceva il mio collega. Me lo aveva chiesto Veltroni, all’epoca direttore del mio giornale, dopo che l’amata Dc mi era stata portata via sotto gli occhi dal ciclone di Tangentopoli.
"Aho, ma che tu sei un giornalista?”. “Sì…”. “E de che giornale sei?”. “Dell’Unità…”. “Aho, regà, correte, qua ce sta ’na zecca! E’ dell’Unità, questo qua…”. “E allora sarà stronzo du’ vorte: prima come giornalista e poi come comunista!” e dai! Scatta il circoletto intorno. “Boia chi molla è il grido di battaglia!” – sempre quello, poi: tale il grido, tale la battaglia. I ragazzi levano il braccio in aria, saltellano e romanamente salutano, gonfiando il torace tra l’ideale der fascio palestrato e la parodia di Gregorio guardiano del pretorio. “Guardate che lo dico a Fini, quello ve stacca la capoccia a sganassoni…”. Le braccia calano di colpo, i petti riconoscenti buttano fuori un po’ d’aria compressa. Gianfranco Fini, il capo del partito, è un centinaio di metri davanti, alla testa del corteo che percorre via Cavour. “Aho, vabbè, ma che glielo dici davvero a Fini? Stavamo solo a scherzà…”. “Non glielo dico, ma non rompete troppo i coglioni, dai…”. “Tranquillo, tranquillo, fa il lavoro tuo…” – e s’accendono vaghi sorrisi, e qualche mano si tende in un più borghese (e meno igienico, si diceva) saluto. Ovviamente, non feci la spia col capo – e del resto i giovani virgulti, ancora per poco missini, avevano già i loro patimenti: fino a qualche anno prima andavano sotto il balcone di piazza Venezia a strillare: “Fini, Fini/ il nuovo Mussolini!”, adesso gli toccava un rapido aggiornamento sulla nuova fascinazione gollista.
Qualche anno dopo, università di Firenze. I ragazzi del Fuan hanno organizzato un dibattito sull’informazione. Mi hanno invitato a dibattere la poco appassionante questione. Con me, il professor Roberto Zaccaria, in seguito presidente della Rai, e Maurizio Gasparri, in seguito ministro.
Quelli dei collettivi (o dell’antifascismo militante, o va a sapere chi cavolo erano) fanno la faccia brutta, decisi a impedirci l’ingresso nella sala. Celerini dappertutto – e slogan scemi per tutti. Gasparri se ne becca giustamente la quota maggiore. Ma a un certo punto risuona solitario un: “Di Michele/ fascista/ sei il primo della lista!” – pure questo? (e però primo della lista era chiunque passasse da quelle parti, quindi lista, si potrebbe dire, politicamente cazzuta ma organicamente confusa). A sorpresa, da dietro un angolo, intravedo un mio collega, pure lui dell’Unità. “Che cazzo stai facendo qui?”. “So’ venuto pe’ un dibattito del movimento… Vedo che tu invece continui a fartela coi fasci” – a riprova di quanto democratico incasinamento ci fosse pure nel giornale veltroniano.
Comunque, ne uscimmo tutti senza bozzi e senza danni – dibattito intenso, non memorabile, ma giornata parecchio divertente. “Me lo dici come cavolo fai a stare coi comunisti? Eh, come fai?”, insisteva una passionale militante. E Achille Totaro, giovane dirigente locale, si sforzava di far intendere che non era la mia sospetta schizofrenia politica l’argomento dell’incontro.
Farmela con i fasci, appunto, come diceva il mio collega. Me lo aveva chiesto Veltroni, all’epoca direttore del mio giornale, dopo che l’amata Dc mi era stata portata via sotto gli occhi dal ciclone di Tangentopoli. Dissi a Walter che lo avrei fatto volentieri, ma solo se potevo trattare il Msi come tutti gli altri partiti: parlare con i capi e i militanti, andare nelle loro sezioni, seguire le manifestazioni.
Poi sfottere, prendere in giro, criticare – ma per piacere, niente proclami alla vigilanza democratica e antifascista, niente edificanti pistolotti. “E allora vai così!”, disse Walter. Andai. Cronaca e facce e storie, tanto più che si trattava di un mondo completamente ignorato dalla stampa, a cominciare da quella grande e democratica e borghese. Andai a intervistare Pino Rauti, all’epoca capo del partito, tra la prima (opaca e insignificante) e la seconda (eterna e risolutiva) segreteria di Fini. A via della Scrofa, l’ingresso di un giornalista dell’Unità fu scrutato pianerottolo per pianerottolo, stanza per stanza. “Dell’Unità? Cazzo…”. Rauti fu gentile, disponibile e polemico (col suo partito). L’intervista uscì – mezza pagina, gran titolone: un po’ di redattori si risentirono, qualche partigiano s’infuriò, parecchi lettori s’incazzarono. Ma Walter tenne duro: “Continua”. Continuai.
E così li ho conosciuti bene, questi che oggi vanno a nozze col Cavaliere. Quando il passo era ancora incerto (non più dell’oca, non del tutto democraticamente strascicato), e il braccio in un sussulto poteva scattare ancora in aria – così che Fini, a un certo punto, per impedire equivoci fotografici cominciò a salutare dal palco facendo ciao ciao con la manina, senza levare l’intero arto sopra la testa; e le musiche ancora indefinite – sempre Fini gelò anzitempo (e per sempre) un ardito federale che lo aveva accolto al suono di “Sole che sorgi”: “Noi abbiamo cambiato musica, tu vedi di cambiare disco”. Furono anni, giornalisticamente parlando, divertentissimi e curiosi. Io scrutavo i fasci (allora, la permalosità sul termine non era ancora troppo accentuata), loro il giornalista dell’Unità. Giravo sezioni, federazioni, cene con vecchi e nuovi dirigenti. Una sera, in una sezione, in attesa di un dibattito. “Che faccio, posso sedermi qui?”. Il militante (di grossa stazza e insolito fervore) si gira di scatto, mi punta l’indice sul petto: “A more’, a mezzo metro dar culo mio puoi fa quello che te pare, ma non meno de mezzo metro!”.
Scoprii leggendo il Secolo d’Italia la curiosa bellezza della prosa di Pietrangelo Buttafuoco, che si firmava Dragonera. Conversazione con un vecchio editorialista dell’Unità: “Beh, hai visto quanto è bravo ’sto Dragonera?”. “Macché bravo, sarà un fascista de merda”. “Sì, però è bravo”. “Sempre fascista de merda è”. Passai un’intera notte vagando per Roma con Teodoro Buontempo, all’epoca inteso “er Pecora”. Ogni angolo un saluto – dallo scopino, dal cameriere, dal mendicante. “Teodo’, stamo con te!”. E lui: “Lo vedete che so’ popolare?”. Teodoro grappini, io acqua tonica. Lui parlava del duce, dell’annuale pellegrinaggio a Predappio. “E’ una forza vivificante, un’energia…”. Beh, insomma… “Beh che? Tutti sanno dov’è seppellito Mussolini, ma neanche tu sai dove si trova De Gasperi o Churchill, vero?”. Un pomeriggio, entrai in un bell’appartamento di via Archimede: la casa di Giorgio Almirante.
Avevo chiesto a Donna Assunta di raccontarmi la sua storia con l’uomo che era stato l’incarnazione stessa del Msi. Nello studio, una gigantesca foto – gli occhi azzurri che ti seguivano ovunque – su cui man mano che passavano le ore si posavano le ombre della sera. “Si metteva le mani sui fianchi, come Mussolini, e diceva: mi ci vedete a me come capo del fascismo? Non ho neanche i fianchi per mettermi così”. Mi raccontò, mentre mostrava i piatti che lo Scià di Persia aveva donato “a Giorgio”, e l’intera collezione delle pubblicazioni missine da lei fatte rilegare in cuio come dono al consorte: “Mio marito mi chiamava zio Adolfo, perché sono dura, rigida, disciplinata…”. Io li conoscevo bene. Fini nello studio fumava, dietro la sua scrivania l’opera omnia del duce (ventincinque volumi venticinque, rilegati in cuoio rosso) cominciava a prendere polvere, a sparire dietro pacchi di giornali e targhe e libri più democraticamente orientati. Quando gliela indicavi, lui gettava un’occhiata distratta: “Mah, è rimasta lì… Coperta sempre più da altre cose, giorno per giorno. Io poi non credo assolutamente alla forma, sono uno che se ne strainfischia di quasi tutte le esteriorità”.
Adesso che brilla di luce istituzionale, chissà come sembreranno a Fini quei giorni, quando Francesco Storace faceva da portavoce e al partito non avevano neanche il numero buono per chiamare il Gr2. “Il deserto – raccontava Storace – Al telefono del Gr2 rispondeva una frutteria: ancora co’ ’sto gierredue? Qui vennemo la verdura…”. Io e Pietrangelo – che faceva da Virgilio, in quella sorta di bolgia di fasci e post fasci e quasi fasci e niente fasci – ogni tanto andavamo a satollarci alla mensa di Italo Bocchino, che prima di diventare il vicecapogruppo (demandato alle dichiarazioni serali dei tiggì), faceva il giornalista per il Secolo da Montecitorio, e francamente non che i colleghi se lo filassero tanto.
Comunque Bocchino aveva, sorprendentemente, una bella vestaglia da film hollywoodiano, una cosa che non si vedeva dai tempi del conte Max, e fu iniziatore di una pratica che non poco ci inquietò: il brunch. “Venite”, ci disse. “Che sarà?”, chiedevamo in giro. Non si sapeva. Alle undici del mattino. “Bisognerà andare mangiati?”, si preoccupava Buttafuoco. “Per sicurezza mangiamo qualcosa prima”, fu la conclusione. A casa Bocchino trovammo un vasto assortimento della sinistra della sinistra come mai incrociato prima: la figlia di, il regista di, lo scrittore di… “Sotto il mio tetto, mai tanti comunisti”, feci presente. “Non vi state allargando un po’ troppo?”. Buttafuoco mi fece prendere confidenza con Ezra Pound, io provai a replicare con un poeta di più retto sentire democratico. Rifiutò: “Non è rimasto in giro qualcosina di Peppino Stalin?”. Di tutto un mondo che si è inabissato, Pietrangelo è rimasto com’era: non si è fatto liberale, manco gollista, meno che mai democratico (“una minchia, fascista sono!”). E per dire, se deve lodare qualcuno ha memorabili (e socialmente impresentabili) metafore: “Minchia, è bello come uno squadrista di Farinacci!”.
In quegli anni, dopo il proclama berlusconiano al supermercato di Casalecchio – iconograficamente, una tacca sotto il predellino di piazza San Babila – Gasparri diceva che loro, i missini, si sentivano sempre come Rhett Butler. Spiegava: “Hai presente quella scena in cui saluta Rossella O’Hara, con l’incendio sullo sfondo? Lui dice: mi vado ad arruolare. E lei: ma come, proprio adesso che la guerra è finita? I sudisti hanno perso. E lui risponde: ho sempre avuto un debole per le cause perse”. Che poi, alla fine, quando la somma fa il totale (caro Totò!) e Gasparri il capogruppo, proprio perse forse non sono state…
Un mondo che mutava la sua vecchia pelle, e non sapeva ancora com’era fatta quella nuova. Così che a distanza di qualche anno il pur attento Fini se ne usciva al Costanzo Show con la superba pensata che un omosessuale non potesse fare il maestro, perciò fece epoca la strepitosa battuta con cui un assessore siciliano cominciò il suo intervento in una riunione di partito: “Oh, camerati, non facciamo scherzi: il presidente ha detto maestri, mica assessori…”. Oppure la meravigliosa immagine consegnata da Buontempo, che interrogato su spinose faccende attinenti il settore da una giornalista spagnola, nella sede della Stampa estera, così rispose, serio e ispirato: “Vede, senoritas, los frocios…”.
Ma c’è questo da dire: che i fascisti, i tremendi fascisti, erano anche simpatici – per quanto ancora, politicamente parlando, piuttosto sgarrupati. Un universo sorprendente. E che sorprendeva. Una sera venne a cena a casa mia una collega danese, Lisbeth Davidsen, mandata da queste parti per indagare sul pernicioso prossimo ritorno dei fasci al governo del paese. C’era anche un mio amico del Secolo. Lisbeth fu grandemente colpita dal fatto di trovare “Nicolò Accame, fascist” a banchettare (banchettare per modo di dire, Nicolò aveva la fissa del salutismo, e certe giornate se le passava solo a bere acqua) sotto il tetto di “Stefano Di Michele, kommunist”, e alla sorprendente faccenda dedicò un servizio di un’intera pagina sul suo giornale, il Berlingske Tidende: “Under havet modes alle oer”. Sciaguratamente, i giornali danesi escono in danese, e mai appurammo – pur avendo copia del giornale in mano –, tanto il kommunist come il fascist, con quali inopinate dichiarazioni avevamo fatto rumore dalle parti di Copenhagen. Ma con grande chiarezza io dissi: “Nepot fordi han er fascist, fik jeg til at ga pa opdagelse i hans verden”. E Nicolò sostenne, con non minore determinazione: “Det er mig, der star til venstre og ham, der star til hojre”.
A Montecitorio il camerata Carlo Tassi – sempre in rigorosa camicia nera, che salutò l’avvio dello scioglimento del Msi tra le lacrime e col saluto romano – e sarebbe purtroppo morto pochi mesi dopo in un incidente stradale, quando mi incrociava sempre mi regalava un gadget di sua personale e ispirata produzione: penne con fascio littorio, portachiavi con lo stesso soggetto, accendini parimenti impreziositi. Poi seguirono i più istituzionali peluche Fiammetta e Fiammetto – nei giorni in cui Donna Assunta fece presente proprio che l’antica fiamma missina si stava riducendo “come quella della Pibigas” – e adesso è possibile mettere le mani sul portachiavi “Di Fini ti Fidi”, il volume “Sarkozy. Testimonianze” e lo spumante “Diamant Blanc Brut”, che “nasce da una dedica che l’azienda Francesco Scanavino ha voluto fare ad Alleanza nazionale in riconoscimento dei valori in cui crede”, assicura il sito del partito. Le cose comunque mutavano. E mica poco. Mi raccontò una volta Pino Rauti: “Io ho allevato molta gente, poi mi sono sempre ritrovato con pochi…”.
Ci fu tutta l’epica, meravigliosamente vivace e pure un po’ insensata, del primo governo Berlusconi. Le notti al Gilda, vidi persino Teodoro lanciato su una pista da ballo, “ragazze, non chiametemi er Pecora, per voi sono Teddy!”, e qualche fantasioso diede persino vita al fascio dance, saltellando tra bellone si levava alto il braccio scuotendolo vigorosamente. Nemmeno la saggezza di Pinuccio Tatarella poté molto. E per dire di quanta saggezza, basta questo episodio. Un giorno, da vicepresidente del Consiglio, andò a inaugurare una mostra a piazza Venezia. Poi a piedi, lungo via del Corso, seguito dalla scorta, se ne tornava verso Palazzo Chigi. Improvvisamente davanti a lui inchioda un motorino, alla guida un ragazzotto, tipico coattello romano: “Aho, scusate, che ce lo sapete ’ndo sta er barcone der duce?” – essendo il balcone ducesco, nella capitale, luogo tipico dove darsi appuntamento. Pinuccio fece un repentino salto indietro, alzò veloce le braccia al cielo: “Ah no, io non l’ho mai saputo!”. Poi mi spiegò, divertito e sfottente: “Beh, Ste’, ho pensato: metti che fosse una provocazione fascista?”.
Si videro cose, come piaceva dire a Gasparri, che sfoggiava una fervida fantasia cinematografica, che voi umani non potreste nemmeno immaginare. Con Buttafuoco si andava a mangiare da Settimio, vicino Montecitorio. Sui muri del ristorante, ognuno di noi lasciava, col consenso padronale, traccia del suo passaggio: Pietrangelo un esplicativo fascio, io un’approssimativa falce e martello (tentai con una più opportuna quercetta pidiessina, ma l’esito non era immediatamente comprensibile). Adesso, ripuliti i muri, da Settimio bisogna tenere i pennarelli a posto. Si poteva far tardi, tra quei tavoli, anche con Pinuccio e Ignazio La Russa, fin nel cuore della notte. Una sera – c’era una faccenda di liste elettorali da chiudere – Tatarella diede il meglio delle sua capacità armoniche e teatrali. Le candidature urgevano, i candidati assediavano. Pinuccio al telefono: “Scusa, non si sente… tranquillo… non c’è linea… ci penso… non ti sento… scusa, cade…”, e tacchete!, il cellulare veniva chiuso di colpo. “Uno scocciatore”. Occhiata al cronista dell’Unità: “Però domani non lo scrivere, aspetta dopodomani…”.
Tra i tanti dibattiti che facevo, proprio Tatarella ne organizzò uno a Milano, per la Festa tricolore. Finite le chiacchiere, si andò a mangiare in un ristorante di via Fiamma (pensa tu la scelta), con La Russa e altri dirigenti. Poco lontana, una folla di questuanti premeva per parlare con il vicepresidente del Consiglio. Finito di cenare, vado in bagno, mettiamo, per lavarmi le mani. Sulla porta, di colpo, mi blocca un signore di una certa età. Senza darmi la possibilità di aprire bocca, comincia a passarmi mucchi di carte: “Ah, dottore! Ah, dottore! Lei che è così intimo del signor ministro… Se le potesse accennare alla mia questione…”. Per farla breve: il signore era un maresciallo dei carabinieri in pensione che aveva qualche problema nell’arruolamento, diciamo così, del suo figliolo. “Se poi lei potesse dire al signor ministro che ho servito l’Arma per molti anni nella sua città, a Bari…”. Finalmente riesco a mettere due parole anch’io. “Guardi, si sbaglia. Io col ministro non c’entro niente. Sono qui per lavoro, sono un giornalista dell’Unità…”. Un lampo negli occhi del simpatico ex maresciallo: “Ah, lei è dell’Unità? Ma se è per questo io ho servito l’Arma per molti anni pure a Bologna!”. Geniale. Presi tutte le carte, tornai al tavolo da Tatarella e gliele misi davanti: “Questo è un genio, voi del governo lo dovete fare almeno colonnello!”. Successo clamoroso. Persino il Secolo si divertì a raccontare la storia, sotto un’esemplare e ironica titolazione su raccomandazioni e Seconda Repubblica. In quegli anni, caracollando tra definitivi post fascisti e fascisti senza speranza, l’Unità mi permise di raccontare tutto questo. Una sera a Vietri, dove pure mi ero avventurato per la festa dei ragazzi del Fuan, fui sonoramente fischiato per aver avuto la bella idea, discutendo con loro, di difendere il cardinale Martini, “e fatelo parlà, l’abbiamo invitato noi!” – e qualcun altro: “Eh, bella idea!”.
O quella divertentissima sera dove ci ritrovammo per caso, in piazza del Pantheon, io e Buontempo, il professor Barbera, illustre costituzionalista e deputato del Pds, e Primo Greganti, il compagno G., che era stato liberato da poco. E molto amichevolmente Teodoro – che in carcere c’era stato, “mai per reati infamanti, ma solo per manifestazioni”, e lì aveva conosciuto pure una monaca camerata che gli faceva il saluto romano, “e mi regalò pure due stecche di sigarette: era proprio brava quella monaca” – si attardò con il fiero compagno di Botteghe Oscure. Una volta, con il concorso del solito Buttafuoco (allora al Giornale) e di Pierluigi Battista (inviato della Stampa), tirammo pure uno scherzo malandrino a Fini. Per farlo ben comparire, socialmente e culturalmente, nei nostri resoconti di un suo dibattito scrivemmo di averlo visto arrivare in macchina con l’ultimo libro che stava leggendo: “Gli inconsolabili”, di Kazuo Ishiguro – che in realtà stava leggendo, con non poca fatica, Buttafuoco stesso: “Carusi, uno scassamento di minchia! Per carità, non lo cominciate neanche…!”.
Descrivemmo la macchina di Fini con poggiato sul cruscotto il voluminoso romanzo. Così, per ben far comparire anche la cultura a destra. Risultato (a parte Salvo Sottile, all’epoca portavoce del leader, che voleva sapere dove cavolo avevamo mai visto quel libro nella loro macchina): paginata di lodi sul Secolo d’Italia, tabellina sui giornali che assegnavano l’innocente Ishiguro, di suo solidamente liberal, ai post fasci. Infine, a un dibattito alla feste del Secolo a Rieti scoprimmo nello stand dei libri pile e pile del pensoso romanzo dell’autore anglo-nipponico. “Minchia, sono più dei libri su Fini”, s’impensierì Pietrangelo. Capimmo di averla combinata grossa. E poi, tutto stava mutando davvero. E se “Il libro nero del comunismo” impressionava solo il Cavaliere, dentro An mica era più uno scherzo dire che ormai leggevano più Einaudi che Evola. Alla fine, quelli erano capaci di mettersi a leggere per davvero “Gli inconsolabili”.