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Simulare il grillismo in Tv

Salvatore Merlo

Una strada di Eboli governata dai suoi cittadini per cinque settimane. Dieci famiglie, zero competenze, servizi autonomi, assemblearismo. E’ un reality, ma ecco cosa succede…

Eboli. Vicoletti, facciate allegre dai colori pastello e poi improvvise ferite, rovine, interi palazzi abbandonati ma rischiarati da erbe e fiori randagi dove italiani e immigrati guardano lo stesso cielo. E mentre i rintocchi dei nove campanili ricordano l’esistenza senza voce del Dio cristiano, dall’interno delle case di Eboli si sente parlare arabo e campano, i dirimpettai si salutano da un balcone all’altro, ciascuno con il suo accento diverso, nell’istante stesso in cui tutti s’affacciano per fare colazione all’aperto. Da lontano un bambino piange nella lingua internazionale dei bimbi, e una voce di mamma lo consola in cinese. Più su, a ridosso della chiesa di San Francesco, in una strada il cui nome ricorda un seicentesco eccidio di nobili da parte della plebe, chiusi in questo oratorio dall’aspetto di garage che gli ha messo a disposizione il parroco, venticinque persone cominciano a ragionare tra loro in una maniera tanto metodicamente confusa, eppure appassionata, da ricordare certe riunioni di condominio dove forse non si conclude nulla, malgrado tutti sembrino avere la testa sul collo.

 

“Io l’esperimento sociale lo faccio tutti giorni in municipio”, scherza l’assessore al centro storico, Ennio Ginetti

Sono giovani e anziani, coppie e divorziati, pensionati e lavoratori, figli d’immigrati con i loro nomi esotici italianizzati, trasfigurati non si sa se per pigrizia o sforzo di assimilazione. Partecipano a un esperimento sociale ripreso ventiquattr’ore su ventiquattro, tutti i giorni, una trasmissione interamente girata con telecamere a mano che andrà in onda a fine novembre su Raitre. Il sindaco di Eboli ha emanato un’apposita delibera, questa strada del centro storico, per cinque settimane, sarà una “Strada senza tasse”, i cittadini sono al potere, dovranno gestire e organizzare tutto, i trasporti e la raccolta dell’immondizia, l’illuminazione e la cura del manto stradale, e con le stesse somme di denaro che avrebbero speso per pagare le tasse.

 


E allora dice uno: “Tenimm’ setteciento euro per le prossime due settimane”. E un altro lo corregge, con didattica pignoleria: “… per dieci giorni”. “Ahhh”. “Che fine fanno i soldi che non spendiamo? Ce li teniamo? Li restituiamo. E a chi? Al comune? Dobbiamo dimostrare che ‘quelli’ i soldi non li sanno spendere”. Segue così un’infinita, minuziosa, a tratti incomprensibile discussione intorno alle piccole somme, alle frazioni più spicciole e trascurabili, commenti e chiose, con un gusto speciale di cantarsi e di affliggersi, discutere e contraddirsi, infiniti voli di Pindaro su come spendere e a chi affidarsi per la conduzione dei servizi, “noi dobbiamo lottare per la libertà di eseguire i lavori e le impellenze che ci cadono da cielo”, dice il più combattivo, Antonio, il rappresentante d’imballaggi coi capelli a codino che sembra un deputato del M5s e li ha convinti tutti ad avviare una iperbolica e abbastanza velleitaria raccolta differenziata “al 100 per cento”, che neanche a Stoccolma: così ogni tanto si vede qualcuno armeggiare con scarsa convinzione intorno a un vaso dove si mescolano terra, cacca di animale e altri rifiuti organici. “Affidarsi per lo smaltimento dei rifiuti alla stessa azienda che lavora per il comune… non mi piace”, dice Antonio. “Nuie dovimm’ solo capi’ se l’azienda ci sta trattando bene o male”, gli risponde Peppe, il professore di ginnastica, con il suo tono saggio e il suo fisico grande e tombolotto. 

 

I visi onesti, simpatici, impegnati, compresi, illuminati da quel fervore civico che trasfigura finanche il più ordinario degli individui. Queste dieci famiglie riunite in assemblea deliberante ancora non sanno che la loro strada, che amministrano da neanche due settimane, la strada che la notte è buia perché non sono riusciti a ripristinare ancora l’illuminazione pubblica, questa strada che a ferro di cavallo circoscrive il perimetro delle loro abitazioni e del loro regno, questo comune dentro il comune di Eboli, sta per riempirsi di monnezza, quella stessa che loro hanno smaltito illegalmente, seppur in buona fede, per ignoranza tecnica, violando una decina di regolamenti e di leggi complesse, prescrittive e severissime. Tutta la monnezza che Raitre sta per riscaricargli sotto casa. Assieme a una multa che porterà quasi in rosso il loro bilancio.

 

 Nessuna astuzia di pensiero sembra contaminare la loro voglia di occuparsi di questo spazio in cui la normalità è stata abolita

In America, ma anche in India, esistono una decina di cittadine dove quest’idea iper libertaria della città privata o città volontaria l’hanno realizzata sul serio, città a misura degli ideali e delle esigenze di chi ci abita, come Sandy Springs in Georgia, dove tutti i servizi eccetto la polizia e i pompieri sono stati messi a gara e affidati ai privati, città in cui non si pagano le tasse ma si pagano i servizi, la cui qualità ed efficienza sono commisurate alla spesa. Ed è così che nasce il format televisivo originario di questa trasmissione, che appartiene alla britannica Bbc, ma che declinato in Italia, ovviamente, applicato dalla produttrice Simona Ercolani ai nostri riflessi condizionati e alle nostre abitudini, ai nostri umori anarchici e recriminanti, messo in piedi sotto forma di esperimento-commedia nel paese in cui tutti sono allenatori di calcio, medici, ingegneri, virologi, sindaci e anche un po’ presidenti del Consiglio e ministri dell’Economia, ha preso tutto un altro sapore. E non solo perché la rapidità e la moltitudine dei gesti mediorientali della nostra gente è in contrasto con l’immobilità da manichini degli anglosassoni, ma perché questi italiani del sud hanno saputo trasformare, persino con una certa simpatica inconsapevolezza, un esperimento sociale in una sfida televisiva alla casta dei tecnici, dei professionisti, dei politici, delle competenze specifiche. “Certo che ci putimm’ organizza’”, dice allora il signor Peppe, malgrado la monnezza li stia ricoprendo fin alla punta dei capelli, “io non capisco dove finiscono i soldi delle tasse. Ora vi facciamo vedere come facciamo molto meglio da soli”. E le competenze? “Eh”, sorride Pompeo, piccolo, coi capelli argentati e gli occhi pieni di lampi, “le competenze piano piano ce le facciamo”, dice lui, che nella vita si occupa di export per una ditta di caffè e adesso ha a che fare con il residuo secco e la plastica riciclabile. E non c’è somma che basti a pagare il biglietto per uno spettacolo talmente vario e continuo.

 

Così, mentre sono tutti riuniti in assemblea, tra circonvoluzioni intricate, esclamazioni represse, sospiri, affettuosi e viscerali errori di grammatica, in un ambiente di facili emozioni esternate in forme pubbliche e teatrali, ecco entrare il loro arbitro, Flavio Insinna, il conduttore. “Vi devo ricordare che la strada è ancora buia, che succede se la sera qualcuno casca dentro una buca e si fa male? Ce l’avete un avvocato?”, li rimprovera. “Ma il vostro più grande problema sono i rifiuti… Li avete abbandonati in un luogo non conforme, li avete mescolati e li avete trasportati in modo illecito. E la legge non ammette ignoranza”. E per un giorno, proprio dopo lunghe disquisizione teoriche di carattere ecologista sul “compost” e intorno al ruolo dei “batteri buoni” nella decomposizione organica dei rifiuti, dopo aver teorizzato con un tocco attraente di civiltà e maturità civica la raccolta differenziata al 100 per cento, dopo aver richiesto preventivi e contattato aziende, in realtà, arrivati al dunque, la monnezza raccolta era stata ammonticchiata sul cassone di un’Ape Piaggio, poi abbandonata sotto le finestre di casa della signora Nella, ex professoressa di liceo classico, ex vicepreside, la più istruita del gruppo, che svegliatasi la mattina e osservato il “muntone ’e munnezza” graveolente aveva dato in escandescenza torcendo in fuori le labbra, girando più volte la destra a mestolo, come a voler dire sgomento, meraviglia, cose dell’altro mondo, cose da pazzi, e provocando nel resto del gruppo la straordinaria escogitazione finale, quella di abbandonare i rifiuti nell’enorme container di un supermercato fuori dal paese. E in un attimo si misura la distanza tra le fantasie e la realtà, tra la leggerezza della protesta e la difficoltà del governo, e ci si comincia a chiedere se l’indignazione e le lamentele possano mai diventare coscienza di qualcosa, trasformarsi in periscopio, cogliere la realtà al di sopra del pelo dell’acqua.

 

E le competenze? “Eh”, sorride Pompeo, coi capelli argentati e gli occhi pieni di lampi, “le competenze piano piano ce le facciamo”

“Io l’esperimento sociale lo faccio tutti i giorni in municipio”, scherza l’assessore al centro storico, Ennio Ginetti, mentre cammina per strada e saluta tutti perché conosce tutti, anche le dieci famiglie che partecipano alla trasmissione, uno per uno. Al bar, davanti a un caffè, il sindaco Massimo Cariello stringe gli occhi come in uno sforzo di concentrazione, “la prima competenza di un amministratore pubblico è conoscere le leggi”, esclama, e mentre lo dice non sa che proprio l’ignoranza delle leggi è già costata una multa di quattrocento euro ai suoi concittadini, ai partecipanti di questo gioco-commedia-esperimento. E dunque il paese osserva, si diverte, si divide, discute. La domenica pomeriggio, all’uscita dalla messa, mentre la folla cola lentamente giù dal sagrato e riempie la strada di solito semi deserta, si colgono frammenti di discorsi, “è tipo il Grande Fratello”, dice una donna che spiega ai parenti più anziani la presenza di tutti quei forestieri e di quelle telecamere in movimento.

 

Mimmo, detto il professore, posteggia la sua vecchia Jaguar verde cigolante e viene subito raggiunto da un conoscente, un amico, che si chiama Massimo, fa l’ingegnere, ed esprime entusiasmo, “a Eboli se ne parla tantissimo. Ma pure fuori… fino a Battipaglia”. Mimmo è il proprietario di una notissima cartoleria del paese, ha sessantotto anni e una sua eleganza da gagà napoletano, il naso poroso, il fazzoletto nella pochette e mille braccialetti al polso sinistro. Nel gruppo dei cittadini si è occupato di gestire i rapporti con l’azienda dei rifiuti, finora senza troppo successo, “la verità è che non ci si può improvvisare”, sorride e ammette. “Stiamo sempre con il ditino sollevato di fronte alle amministrazioni. Ma le cose non sono facili e richiedono competenze”, aggiunge nel tono astratto di uno che ragiona per conto suo, con negli occhi e nelle orecchie ancora i suoni e le immagini dell’assemblea comunitaria dei cittadini, con quella mania di dire, in una forma confusa e con termini maldestramente usati, pensieri lapalissiani e sentimenti incerti, la difficoltà di esprimersi e di condividere le proposte e le proteste.

 

Ed ecco l’occhio della telecamera che ingrandisce questa gente, i loro volti e gesti istintuali, i mille pensieri di un ambiente che si dibatte in un’unica inimmaginabile confusione tra sistemi di raccolta e smaltimento dei rifiuti, illuminazione e meccanismi decisionali. Quando Insinna li invita a trovare un modo di autogovernarsi, un ordine qualsiasi, dittatura o monarchia, oligarchia o assemblearismo puro, qualcuno di loro lascia un bigliettino anonimo in cui la contraddizione esplode in un cortocircuito comico che ha qualcosa di estremamente incoerente, dunque di molto italiano e di meridionale, quasi come una battuta di Totò: “Non abbiamo bisogno di un leader. IL LEADER E’ IL GRUPPO… Possiamo eleggere un capogruppo”. E davvero sembrano i Cinque stelle, che tra loro si chiamano “portavoce”, perché nessuno è capo di nessuno ma solo rappresentante di istanze comuni, perché “uno vale uno”, gli stessi che poi però eleggono Di Maio e lo chiamano leader. E allora nessuna astuzia di pensiero sembra contaminare la loro onestà e voglia di occuparsi della loro strada e di questo spazio in cui la normalità delle istituzioni è stata abolita. Quando sono insieme, quando si controllano l’uno con l’altro, sembrano affidabili come il ferro e la quercia, poi però una mattina presto, di nascosto, quatto quatto, uno di loro, comprensibilmente stanco della monnezza che staziona troppo a lungo in casa, chiama i netturbini del comune per farsela portare via di straforo, “illegalmente”, perché secondo le regole del gioco non si potrebbe ricorrere ai servizi pubblici.

 

E in un attimo si misura la distanza tra le fantasie e la realtà, tra la leggerezza della protesta e la difficoltà del governo

Ma li ha chiamati lei gli spazzini?, chiedono quelli delle telecamere. “No, no… Quali spazzini? E’ stata mia cognata”. E lo stesso fa un altro, simpaticamente in difficoltà, “la spazzatura? Oddio, è sparita non so… Credo me l’abbia ‘rubata’ la donna delle pulizie”. Così quando la storia viene fuori, in assemblea, mentre si chiede ai colpevoli di farsi avanti, e nessuno solleva la mano per dire “sono stato io”, mentre Insinna sollecita una confessione, allora il signor Pompeo prende la parola e dice “qualcuno è stato per forza ma non vogliamo sapere chi. Pagheremo tutti insieme l’errore”. E se Antonio è contrario, e dice: “Qua qualcuno ci ha tradito e voglio sapere chi è”, invece il signor Peppe fa un esercizio di garantismo comunitario “e invece io non lo voglio sapere”. Alla fine pasticciano e perdono tempo, sembrano funzionare poco come amministrazione comunale di se stessi, eppure adesso qualcosa unisce di colpo queste famiglie prima indifferenti, persino divise da piccole dispute di vicinato, da rivalità sociali, uomini e donne che prima di essere coinvolte in questo esperimento televisivo, che li ha trasformati in un gruppo, a malapena si salutavano per strada.

 

Si chiude la seconda settimana di riprese e ci si chiede soltanto se durerà lo spirito solidale, o se anche questo finirà con l’evaporare, precipitando il gruppo in una logica di correnti, clan e fazioni contrapposte. Come succede fuori, nella realtà, al di là dal vetro del laboratorio televisivo, nelle città italiane, come Roma, dove cittadini non precisamente esperti prendono il potere vantando la propria incompetenza, e abborracciano soluzioni, operano in base a previsioni e orientamenti puntualmente smentiti dai fatti, si mettono nelle mani di specialisti del tutto cervellotici, e alla fine, tra rovine fumanti da loro stessi provocate, ripetono candidamente: “E’ colpa degli altri”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.