Manifesto per la nuova sinistra di governo
Il rischio estinzione del progressismo esiste ovunque e anche l’Italia deve fare i conti con una emergenza democratica mondiale. Appunti per una nuova sinistra di governo del capo staff del presidente del Consiglio
C’è un racconto di Borges che bene descrive la situazione della sinistra. Il protagonista è Asterione, un tizio sdegnoso che sta sempre chiuso in casa. Una casa bellissima, s’intende, piena di ricordi, dalla forma bizzarra di labirinto. Una casa sempre aperta, la porta non ha serratura, può entrarci chiunque e Asterione se ne fa vanto. Però non entra nessuno. E lui non ne esce. Mai.
La situazione della sinistra, dopo diciassette anni di secolo nuovo, è più o meno quella di Asterione. Tanti bei ricordi. Tante storie da raccontare. E un’imbarazzante incapacità di affrontare il nuovo mondo portato in dote dalla globalizzazione. Per quanto Sheri Berman, sul New York Times, si sia concentrato sul “declino disastroso” della socialdemocrazia europea, la stessa situazione “asterioniana” la vive la sinistra americana. La cui più recente battaglia politica, per voce del capogruppo alla Camera Nancy Pelosi, si concentra nel rimuovere la statua del Generale Lee dal Congresso. La situazione d’irrilevanza della sinistra avvicina, così, le due sponde dell’Atlantico in un’inversa deriva dei continenti.
I due cuori del socialismo europeo, Ps francese ed Spd, sono ai minimi storici. La socialdemocrazia nordeuropea è nei guai. L’unico premier di centrosinistra di un paese rilevante è Paolo Gentiloni, un liberaldemocratico schietto che con la tradizione socialista ha qualche contatto, ma nessuna diretta o indiretta discendenza. Dichiarare morte le idee è il mestiere della storia, non già degli uomini, che quando dichiarano morta un’idea rischiano inesorabilmente il ridicolo. Però se l’idea europea del socialismo democratico non è morta, il suo stato di salute non è mai stato tanto incerto.
In America le cose non vanno meglio. Aspetto questo non secondario, tenuto conto dell’influenza della sinistra americana su quella europea. Negli States i democratici, dopo gli otto fantasiosi anni obamiani, non sono mai stati così deboli nella loro quasi bicentenaria storia. Non è tanto la perdita della Casa Bianca e la maggioranza repubblicana al Congresso a significare la debolezza della sinistra, quanto la marginalizzazione dei Dem nel governo degli stati federati. Prima di Obama, 28 erano gli stati con un governatore democratico, 22 quelli a guida repubblicana; oggi i red state sono 34 e i blue state solo 15. Se si considera il dato del controllo del potere esecutivo e legislativo per singolo stato, lo score prodotto nel corso degli otto anni di Obama si fa tragico: in 26 stati su 50 i repubblicani esprimono il governatore e la maggioranza legislativa; i democratici soltanto in 6 stati. La mappa politica degli States è sempre più rosso rubino. Obama aveva detto che non voleva più sentir parlare di stati rossi e blu. Gli americani l’hanno preso alla lettera.
Il compleanno del Partito democratico italiano, pur con tutte le specificità e le originalità patrie, si colloca nel pieno di questa situazione storica. C’è un difetto di soggettivismo nella politica e nella lettura della politica dell’Italia degli ultimi vent’anni.
Un difetto che tende a misconoscere le dimensioni oggettive entro cui la politica di un grande paese democratico invera se stessa: i cambiamenti economici e sociali, gli orientamenti e le mode culturali, le tensioni istituzionali che attraversano le democrazie, i condizionamenti esogeni delle finte democrazie e dei regimi politici non democratici. L’Italia è tutta dentro questo complesso di fenomeni che rendono la politica un’arte affascinante e una scienza piuttosto complessa. E la vicenda della sinistra italiana è profondamente immersa in questo contesto generale.
Guasto è il mondo?
Con buona pace di Tony Judt, il mondo è molto meno guasto di quanto si racconti. Sebbene Piketty, Atkinson e altri abbiano efficacemente analizzato le crescenti diseguaglianze interne alle singole nazioni, il pianeta, nel suo complesso, è molto meno diseguale di vent’anni fa. Tutti i dati in possesso ci dicono che le diseguaglianze tra i paesi e tra i continenti sono crollate, così come le differenze di reddito, globalmente considerate. L’arrivo dei capitali occidentali nelle aree arretrate del mondo ha fatto uscire dalla povertà più di un miliardo di persone. Il crollo del Muro di Berlino e il nuovo squilibrio geopolitico, la finanziarizzazione dell’economia, deindustrializzazione e delocalizzazione, la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio e l’ingresso nel Wto della Cina, sono fenomeni che hanno sì diffuso benessere globalmente. Tuttavia nei paesi democratici avanzati hanno agito in modo diverso, dacché la nuova ricchezza prodotta, lungi dal distribuirsi, si è concentrata in poche mani, accrescendo le vecchie diseguaglianze e producendo un arretramento economico del ceto medio.
La sinistra a cavallo dei due secoli ha provato a governare tutto ciò. Ha creduto, talvolta un po’ fideisticamente, che la globalizzazione potesse facilmente essere flessa come il legno d’olmo dell’arco di Robin Hood. Ma ben presto la globalizzazione ha mostrato d’essere fatta di duro legno di quercia, poco disponibile a essere lavorato dalle tecniche della sinistra novecentesca. L’esperimento di governo di Bill Clinton di guidare la grande crescita degli anni Ottanta verso indirizzi politici di benessere diffuso e maggiore eguaglianza, mutuato poi da Blair e Schröder nel tentativo di rivitalizzare il socialismo europeo, non ha avuto seguiti di rilievo. Anzi, nel corso degli ultimi vent’anni negli Stati Uniti, negli ultimi quindici in Germania e negli ultimi dieci in UK, c’è stato una specie di sforzo cognitivo dei Democrats, dell’Spd e del Labour volto a distanziarsi dalla terza via. Talora anche a rinnegarla. Sebbene i risultati “sociali” di quegli anni non abbiano conosciuto repliche e siamo empiricamente incontestabili.
Cosa è accaduto alla sinistra? Forse solo uno sforzo di concettualizzazione della sua crisi può soccorrerci, poiché trattasi davvero e soltanto di crisi di pensiero. La sinistra è, per definizione, l’antitesi. Il pensiero politico democratico ha una forma dialettica piuttosto rigorosa. A partire dal secondo dopoguerra, la sinistra si è incaricata di opporre il welfare alla tesi conservativa della destra, iscritta nelle logiche auto definitorie dell’economia di mercato. E’ una divisione, questa, che ha il limite di un certo schematismo, perché molte sono le destre dentro la destra storica degli ultimi settant’anni (così come molte sono le sinistre). Eppure, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo classicamente assistito a questo tipo di dialettica. Al di là della copiosa retorica internazionalista, la sinistra ha opposto progetti nazionali di stato sociale allo sforzo della destra di costruire le condizioni ambientali migliori per l’esercizio della libera crescita economica. Anche il capitalismo ha conosciuto differenti declinazioni nazionali. Ma il minimo comune multiplo dei capitalismi in gioco si è mostrato molto più robusto, alla prova della globalizzazione, di quanto univa tra loro i diversi welfare. La sinistra, che si andava concettualmente definendo come “riformista”, ha riconosciuto ai progetti nazionali di welfare un ruolo molto preciso: la correzione delle distorsioni sociali spontaneamente prodotte dal capitalismo. Alla destra che affermava la tesi dell’utilità economica della diseguaglianza sociale, il riformismo ha opposto, inoltre, l’antitesi dell’utilità economica di una crescita diffusa e meno diseguale possibile. In questo solco la sinistra ha così cominciato a prendere seriamente il tema della crescita.
In buona sintesi: strategie di welfare nazionali finalizzate, anzitutto, a correggere gli errori sociali (e talora qualche obbrobrio) del capitalismo, quindi a servire una crescita economica più solida perché socialmente sostenibile. Questa l’antitesi della sinistra. E’ evidente che tale antitesi entra in crisi quando la globalizzazione spazza via in confini nazionali. La libera circolazione globale del capitale e la liberalizzazione giuridica del suo movimento, se ha prodotto il mondo più eguale di sempre, ha fatto saltare in aria la capacità dei progetti nazionali di welfare di correggere le diseguaglianze e di mettersi al servizio della crescita. Il nazionalismo dei progetti di stato sociale della sinistra si è mostrato impotente al cospetto dei movimenti dei capitali e dei fenomeni conseguenti di deindustrializzazione e di delocalizzazione. La rivoluzione digitale ha dato il colpo di grazia, rendendo più fluido e più veloce il nuovo capitalismo globale.
E’ una crisi di pensiero, quella della sinistra. Non avendo più conoscenza adeguata del mondo per come è diventato, la sinistra non sa più cosa essa sia. Una crisi di ruolo storico, che riguarda i suoi fini, non i suoi mezzi. E’ un difetto dei riformisti concentrarsi più sulle polices che sulla politics. Un tipico difetto positivista che deriva forse dall’estrema prossimità che la politica ha ormai con scienze particolari di successo come l’economia o la sociologia. L’idea, cioè, che la sommatoria di una serie di ricette (non necessariamente giuste) produca de facto la conoscenza del mondo e una qualche visione delle cose. Ma confondere mezzi e fini non rende che ancora più impacciata la sinistra. Torniamo per esempio all’America. Barack Obama, allo scopo di tirare fuori gli Stati Uniti dalla peggiore crisi economica del dopoguerra, ha adottato la più classica delle ricette della sinistra: il deficit spending. Lo strumento keynesiano per eccellenza ha sì favorito la ripresa economica degli States, ma non ha agito sulle diseguaglianze che sono aumentate. Negli otto anni di amministrazione Obama, in America la distanza tra il 10 per cento più ricco della popolazione e il 10 per cento più povero si è spaventosamente allargata. Il paese è diventato più diseguale che negli anni di Bush. E però Obama ha praticamente raddoppiato il debito pubblico. Con la conseguenza che l’intera popolazione statunitense si è indebitata, ma solo le minoranze più ricche ne hanno beneficiato. Un’eredità che con gli ideali della sinistra ha poco a che fare.
Perdere bene
Hic sunt populisti. Perché il populismo, fenomeno carsico della storia, riemerge ogni qual volta vacillano ipotesi di comprensione del mondo e il disagio materiale resta più drammaticamente senza risposta. In America l’odierno populismo è stato addomesticato dal solido sistema bipartitico e da uno dei migliori modelli istituzionali di checks and balances in circolazione. Le incognite populiste della presidenza Trump restano in parte ancora de decifrare, ma la fortezza costituzionale americana sembra inespugnabile. La dialettica politica è parecchio esacerbata e le figure emergenti tra i Democrats appaiono per lo più capipopolo alla McGovern, ma anche questo è un effetto della polarizzazione identitaria cresciuta sotto Bush e Obama.
Anche in Europa, eccezion fatta per l’Italia, il populismo si acconcia allo schema destra-sinistra, trovando rappresentazione di sé nei partiti più estremi degli archi costituzionali. Non mancando naturalmente di condizionare i partiti di governo. A sinistra il populismo trova sponda e, talora, un vero e proprio innesto nel massimalismo, oggi in forma come non accadeva da tempo. Il massimalismo, vecchio arnese della politica europea, ha rispolverato la sua antica etica della sconfitta, fondata sul primato morale di una sinistra che disdegna i compromessi. Una sinistra concentrata a rappresentare il disagio e il malessere, ma disinteressata a tradurlo in opzione di governo.
Jeremy Corbyn, parlamentare eletto e rieletto dal 1983 in un collegio a nord di Londra che i laburisti tengono ininterrottamente dagli anni ‘30, è il campione europeo del nuovo massimalismo. Ha riportato il Labour sopra soglia 40 per cento (non accadeva dalla seconda vittoria di Blair) mostrando una straordinaria capacità di dare rappresentanza e unità al voto progressista britannico. Questo è il grande merito di Corbyn: non eludere le domande della contemporaneità, come fanno oggi a volte i leader riformisti. A quelle domande Corbyn offre puntualmente risposte sbagliate o incoerenti o impraticabili (come fanno i massimalisti), ma ha l’intelligenza di non fare finta che quelle domande non abbiano fondatezza storica. Nell’ultima Conference laburista, Corbyn ha ad esempio preso di petto la rivoluzione robotica che sta trasformando l’industria. Non perdersi in entusiasmi, ma segnalare invece il problema dell’impatto sociale di questa rivoluzione, è un modo per non prendere in giro le persone. Poi, certo, una sinistra che diventasse nemica della scienza, sarebbe una specie di aberrazione. Ma anche una sinistra incapace di cogliere quell’impatto, è una sinistra che nega se stessa.
Corbyn offre rappresentanza politica al disagio materiale e intellettuale nei confronti di una globalizzazione più pugnace. E’ una rappresentanza per la rappresentanza, tipicamente massimalista, quasi una rappresentanza per rispecchiamento. Il nostro piccolo mondo non funziona più, grida Corbyn, e noi dobbiamo ritrovarci per resistere ai suoi cambiamenti. Dobbiamo riunirci nella casa di Asterione, farci caldo l’uno con l’altro, in attesa che la tempesta passi: pura rappresentanza. Poco importa chi vince le elezioni. Perdere bene, la più antica delle tentazioni della sinistra, diventa la più splendente delle vittorie. Anzi, a dirla tutta, in un mondo che non funziona, vincere le elezioni parrebbe certo contraddittorio e quasi immorale. Perdere ha uno statuto etico superiore. Essenziale essere sempre più numerosi nella sconfitta (per Corbyn si potrebbe parlare di quella strategia dell’obesità che Luciano Cafagna ideò per spiegare l’aumento di consenso del Pci negli anni ‘70). C’è l’eco pure del pregiudizio ideologico di Pasolini, che vedeva nella sinistra comunista italiana la parte sana di una nazione corrotta (“…il Pci è un paese pulito in un paese sporco, un paese intelligente in un paese idiota”).
Il rischio è enorme. Una sinistra che si rifugi in uno schema asfittico di rappresentanza per la rappresentanza, disdegnando l’ipotesi di governo, mette a repentaglio il funzionamento stesso della democrazia. Non consegna soltanto se stessa all’irrilevanza, ma sottraendosi quale antitesi storica della destra mina l’efficacia stessa della sintesi democratica. E una destra lasciata sola a se stessa, alla lunga, fa danni.
I dieci anni del Pd
Il Partito democratico italiano entra in questa crisi d’identità politica e di ruolo storico della sinistra nel mondo avendo appena 10 anni di vita. I Democrats di anni ne hanno 189; l’Spd 154; il Labour 117. Non bisogna sottovalutare questi numeri. Aver conosciuto la lunga egemonia a sinistra del Pci è un dato che, per quanto necessiti sempre di essere storicizzato, non ha aiutato la democrazia italiana a modernizzarsi. Il Pci ha avuto il grande merito di combattere il fascismo e di rinunciare alla prospettiva rivoluzionaria forzosa, lavorando alla costruzione della democrazia. Tuttavia, restando in ultima istanza un partito rivoluzionario, ha avuto il demerito storico di anchilosare la dialettica democratica italiana. Si è sottratto a quella funzione di antitesi storica prima descritta, lasciando le forze conservatrici a un’improduttiva autoreferenzialità di governo. Il Psi ha provato, per un certo periodo, a sostituirsi al Pci nella funzione di antitesi della Dc, ma la sua debolezza lo ha reso presto inservibile per un ruolo che richiedeva, per ovvie ragioni, una maggiore forza politico-elettorale.
La circostanza della storia di non avere un partito socialista o socialdemocratico egemone a sinistra, come negli altri paesi europei, ha posto il Pd alla sua nascita in una bizzarra condizione di vantaggio. Il Pd non ha dovuto fare i conti, dieci anni fa, con una crisi della sinistra socialista europea che era già preoccupante. Il Pd si è, alla sua nascita, ritrovato con una definizione di sé più contemporanea. Come se avesse saltato un giro, la sinistra italiana si è proposta dieci anni fa come ampio e laico spazio di riferimento per i progressismi in campo. Un’intuizione felicissima, condita dell’energia delle primarie come strumento di fondazione del partito e mezzo di selezione del leader e dei candidati alle cariche monocratiche. Un’impostazione che ha mostrato subito di poter contare su una certa coerenza storica. Il Pd a vocazione maggioritaria di Walter Veltroni si connetteva idealmente allo spirito federativo dell’Ulivo di Romano Prodi e proiettava se stesso, dopo la fase introversa della segreteria di Pier Luigi Bersani, verso la realizzazione dei propri obiettivi originari grazie alla leadership di Matteo Renzi.
I partiti politici sono fenomeni storici. Vivono nella storia e necessitano di coerenza storica. Non spuntano dal nulla come funghi selvatici, ma sono semi che solo una meticolosa sapienza agricola può far germogliare. Lo sforzo più costruttivo registrato nella sinistra italiana dopo il crollo del muro di Berlino, è stato quello che, avviato dall’ulivismo e irrobustito dalla costruzione del Pd, ha conosciuto il massimo sfoggio di sé con la vittoria alle europee del 2014. Nel contesto generale di una sinistra che in Europa perdeva colpi sotto il peso della propria inadeguatezza, la sinistra italiana ha trovato nel Pd un punto d’appoggio per la leva del progressismo. Il Pd non ha, come è evidente, elaborato una solida cultura politica di riferimento, né strutturato una moderna forma organizzativa, centrale e periferica. L’intuizione del partito a vocazione maggioritaria fondato sulle primarie è rimasta una specie di formula magica esercitata dai suoi più ispirati leader (Prodi, Veltroni, Renzi). In particolare il Pd si è giovato della carica innovativa dell’ingresso sulla scena politica di Matteo Renzi, che invece di percorrere strade solitarie (oggi diremo “macroniane”) ha accettato di essere parte di una storia che lo precedeva. In un certo qual senso, l’intuizione del Pd si è giovata di Renzi molto più di quanto Renzi si sia giovato del Pd.
Tutto questo più o meno fino al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. La sconfitta di quel tentativo di riforma, insieme al naufragio di una legge elettorale maggioritaria, hanno cambiato radicalmente il quadro politico. Il neo proporzionalismo insito già nelle leggi elettorali corrette dalla Consulta, oltre che nei tentativi in corso di riforma parlamentare, indeboliscono profondamente l’intuizione formalista del Pd. Se non avere cultura politica e organizzazione complessa era un limite (più o meno) ben mascherato, oggi la fragilità della ragion pura e della ragion pratica del Pd lo espongono agli stessi rischi dei partiti cugini d’Europa. Il Pd ha travestito tale fragilità, nei dieci anni appena trascorsi, col mito delle primarie e con la vocazione maggioritaria. In un quadro politico neo proporzionale questi due strumenti, per quello che hanno simboleggiato, hanno i mesi contati. La stessa idea di leadership forti perché caratterizzanti, capaci cioè di surrogare i limiti culturali e organizzativi del partito, è messa logicamente a repentaglio.
Non aver provveduto, insomma, in questi dieci anni a irrobustire il cervello pensante del partito e la sua corporatura fisica, espone oggi il Pd agli stessi pericoli dei partiti cugini europei: alle stesse “retrotopie” baumaniane. I suoi dieci anni, da che potevano essere il più formidabile dei vantaggi, rappresentano così un limite in più, il limite di un “partito mancato” come hanno scritto Luciano Fasano e Paolo Natale nel loro ultimo studio. Di una sinistra in Italia c’è bisogno, come ce n’è bisogno nel resto del mondo democratico occidentale. Quella fondamentale funzione storica di antitesi politica alla destra non può essere appaltata a nessuno altro. Ma lo schema neo proporzionale sul quale, per qualche anno, insisterà il sistema dei partiti in Italia richiama la centralità di soggetti politici strutturati. Pena la definitiva e sgrammaticata inefficacia della dialettica politica.
Pragmatismo europeista
La sinistra italiana ha i suoi problemi nazionali, come d’altronde le altre sinistre nei vari paesi di riferimento. In particolare confuso appare lo scenario che si dispiegherà agli occhi della politica nell’incipiente stagione del neo proporzionalismo. Si fa un gran parlare di ritorno alla prima repubblica e anche questa, in fondo, è a suo modo una retrotopia baumaniana… Ma è un gran parlare particolarmente improprio. Non tanto per ragioni politiciste, quanto per motivi legati alle profonde trasformazioni del mondo contemporaneo: ai tempi della prima repubblica non c’era l’Unione europea e il WTO, non c’era internet, la televisione contava un decimo di quanto conta oggi, eccetera, eccetera. Un altro mondo, insomma. Il grado di complessità della funzione della sinistra in Italia andrà, quindi, misurato in relazione con l’ambiente politico che si verrà a determinare e che oggi è vieppiù un’incognita nei suoi effetti di sistema.
Ma la sinistra italiana ha lo stesso problema fondamentale di ridefinizione di ruolo storico e funzione politica che deve oggi affrontare la sinistra nel mondo. Non è detto che le cose debbano volgere di male in peggio. Ha scritto Isaiah Berlin: “L’idea che ciò che è crudele e sgradevole abbia maggiori probabilità di essere vero o reale del suo contrario è una forma di sardonico (o selvaggio) pessimismo non meno romantico e non meno sprovvisto del conforto dell’osservazione empirica di quanto lo sia l’umanitarismo ottimistico dell’Età della Ragione”. Quel che appare empiricamente evidente è che l’eventuale conferma dell’allargamento del diaframma tra chi ha di più e chi ha di meno non è socialmente ed economicamente sostenibile. Società troppo diseguali al loro interno compromettono gli equilibri sociali, culturali e politici che ne regolano e ne preservano la loro conservazione. E’ uno squilibrio crescente che interroga anche la destra che, come ha scritto di recente Giuliano Ferrara, se la passa sicuramente meglio della sinistra, ma mostra ormai di faticare a contenere i populismi e i massimalismi che agiscono alla propria ala estrema.
E’ un paradosso del pensiero che il successo della sinistra socialdemocratica nel Novecento sia stato caratterizzato da intelligenti strategie nazionali, in barba al proclamato internazionalismo. Piuttosto che unirsi, i proletari del mondo si sono organizzati riformisticamente a casa loro, per piegare il binomio di regime democratico ed economia di mercato nella direzione degli ideali progressisti. Hanno avuto successo, rendendo le loro singole patrie paesi migliori dove vivere e nazioni più forti nello scacchiere mondiale. Ma il nazionalismo dei loro progetti politici non ha retto alla globalizzazione perché, come detto, il termine di riferimento sintetico, il capitalismo, ha fatto del mondo globalizzato la propria patria e il proprio spazio economico di riferimento.
Negli anni 30 Roosevelt comprese che il riferimento alla libertà tradizionali dell’orizzonte simbolico statunitense non era più sufficiente. Comprese che bisogno materiale e paura dei conflitti mondiali rendevano afono quel sogno americano di ricerca della felicità fondato sulla realizzazione del singolo. Oggi, rispetto ad allora, il mondo occidentale vive una situazione dissimile nei significati storici ma analoga nel senso generale che li comprende. Il bisogno materiale è tornato a fare prepotentemente parlare di sé, nelle odiose forme delle tradizionali sacche di povertà e nell’impoverimento recente del ceto medio. Il tema del bisogno si accompagna poi a una diffusa paura generata dal terrorismo internazionale. Una domanda potente di protezione cresce in particolare negli strati sociali più disagiati: una domanda che immobilizza la dinamica sociale. La sinistra può ritrovarsi solo se trova il coraggio (e le idee e una visione) di affrontare in campo aperto le sfide che la attendono.
Per i paesi europei (per l’Italia, quindi, e per il Pd), l’occasione di un nuovo sforzo d’integrazione unitario è il naturale spazio politico entro il quale accettare quelle sfide: spazio politico e istituzionale, ma anche spazio economico e sociale. L’Unione Europea è la più grande area commerciale del mondo: il perimetro ideale nel quale sperimentare soluzioni di welfare integrate. La sinistra può ritrovare la sua missione in questo obiettivo, smettendo gli abiti di quel normativismo costituzionale usato vanamente come strumento di un nuovo processo d’integrazione. Se il popolo, categoria con cui tocca tornare ad avere un po’ di familiarità, continuerà a percepire le istituzioni europee come estranee (se va bene) od ostili (se va male), non ci saranno bei discorsi che tengano. L’unica possibilità di rilanciare l’Europa è farla percepire dalle persone come utile a qualcosa. Non svicolare sul rigore degli obiettivi di bilancio, ma costruire soluzione di welfare europeo a problemi sociali che, prodotti da fenomeni economici e finanziari transnazionali, non possono trovare soluzioni nelle vecchie patrie.
Il massimalismo alla Corbyn invoca un ulteriore ripiegamento nazionalista: c’è coerenza nell’ambiguo antieuropeismo corbynista. I riformisti, all’opposto, possono appropriarsi del processo unitario perché serve ai loro scopi di cambiamento progressivo; e possono offrire all’Unione Europea la necessaria immaginazione per uscire dallo stallo in cui s’è cacciata. Un perfetto allineamento di interessi. Esercitare le inevitabili due velocità nello spazio di un welfare comunitario tutto da progettare, come quello che ha descritto Maurizio Ferrera nel suo ultimo libro, è il perimetro in cui i riformisti possono riprendersi il primato culturale contro i massimalisti. Poiché solo un pragmatico cosmopolitismo europeista può riappacificare la sinistra coi bisogni e con le aspirazioni del popolo.
*capo dello staff del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni