Il populismo osceno spiegato da Gabanelli
Migranti, banche, Minniti, umanitarismo, sinistra, Rai e j’accuse (gulp!) contro la magistratura intoccabile. Chiacchierata (a sportellate) con l’ex conduttrice di “Report” sull’Italia che sarà. “No, Grillo non mi ha chiamata”
Roma. “Ok, ma questa intervista è davvero per parlare di quello che penso o è solo per darmi degli schiaffi, come fate spesso?”. Milena Gabanelli lo dice con un sorriso e con tono duro ma cordiale e dopo qualche spiegazione – no agguato, no schiaffetto, no scherzetto, solo voglia di chiacchierare, di confrontarci con persone interessanti che hanno una visione del mondo diversa rispetto a quella del Foglio – accetta di chiacchierare con il nostro giornale non per parlare ancora della Rai, della proposta considerata “indecente” di gestire il sito di Rainews.it, ragione per la quale oggi la ex conduttrice di “Report” ha chiesto l’aspettativa non retribuita dal servizio pubblico, ma accetta di parlare di tutto il resto, dell’attualità, della politica, dell’immigrazione, del populismo, delle elezioni, di destra e sinistra.
Negli ultimi mesi Milena Gabanelli, icona involontaria di un’Italia che tenta disperatamente e a volte affannosamente di trovare un’alternativa anti sistema all’Italia del sistema, è finita al centro del dibattito pubblico per le sue posizioni a sorpresa relative alla politica sui migranti adottata dal governo Gentiloni e in particolare dal ministro Minniti. Una coppia politica fantastica e inimmaginabile: lui tosto ministro di sinistra che fa impazzire la vecchia sinistra applicando categorie politiche bipartisan per la gestione dell’immigrazione; lei tosta giornalista amata a sinistra (ma non dalla nuova sinistra) che fa impazzire la vecchia sinistra sostenendo l’approccio pragmatico di un ministro che rappresenta un nuovo genere di sinistra.
Maurizio Crippa, qualche settimana fa su questo giornale, ha definito con ironia Milena Gabanelli e Marco Minniti la coppia politica dell’anno. Ma l’ironia del Foglio non è piaciuta a Gabanelli. Perché? “Intanto – dice la giornalista sorridendo – l’avete messa con un fondo di ambiguità. E poi c’era una frase che mi è arrivata come uno schiaffo: quella in cui io, secondo il vostro Crippa, proporrei di ‘scremare per bene’ i migranti, prima di metterli nelle caserme, così da non riempire il paese di disgraziati. Suona come se io considerassi i migranti feccia umana, quando è vero il contrario. E’ il sistema attuale a non metterli in condizione di integrarsi! Io sto portando avanti da tempo un modello di accoglienza studiato nei dettagli, tecnicamente. Mi sono detta che non era possibile arrendersi a un fenomeno col quale bisogna fare i conti. Il progetto che ho studiato potrebbe rimettere in moto l’edilizia e generare lavoro per gli italiani. In sostanza il fenomeno potrebbe anche essere fonte di guadagno per il sistema paese, non per le cooperative che speculano".
Guadagno?
“Sì, perché assumendo personale qualificato per l’identificazione, i corsi di lingua e la formazione noi ci guadagniamo, mentre ai richiedenti asilo vengono forniti gli strumenti per integrarsi".
Una sintesi per noi?
“Il progetto si chiama ‘La via d’uscita’. Lo si può trovare sul sito di ‘Report’. E poi l’ho sviluppato, scrivendoci diversi articoli. Uno dei quali ha acceso l’interesse di Minniti: è stato allora che mi ha telefonato e mi ha detto: ‘Mi interessa. Parliamone’. Mi chiese varie indicazioni, io gliele diedi. Poi si è buttato sul fronte libico, ma per quanto riguarda l’Italia non è cambiato granché. Spendiamo molto in affitto, molte sovrapposizioni, poco coordinamento, poco risultato”.
Guadagnare dall’immigrazione mettendo insieme rigore e accoglienza e niente estremismo umanitario. Programma vasto. Programma utopico?
“No, programma possibile, però bisogna passare da un’accoglienza gestita dalle cooperative chiavi in mano a una pubblica. Oggi funziona così: sbarcano 100 migranti, vengono prese le impronte e il fotosegnalamento e poi il prefetto individua una cooperativa e glieli affida, corrispondendo quaranta euro al giorno a testa. Sono previste quattro ore di italiano a settimana, ma nessuna sanzione se non frequenti, e nessun controllo sull’effettivo svolgimento di quelle poche ore. Ovviamente la cooperativa, godendo di una somma fissa, lucra su tutto, anche sul cibo scadente”.
E poi cosa succede?
“Succede che almeno la metà di quei 100 migranti che sa di non avere diritto all’asilo dopo un po’ se ne va dal centro, che però continua a essere pagato pieno per vuoto, mentre l’attesa per ottenere lo status di rifugiato richiede 2 anni… passati su una brandina a fare niente. Va detto che ci sono comuni dove tutta la filiera è ‘pulita’ ed efficiente, ma sono casi rarissimi”.
In Germania come funziona?
“La Germania in particolare, essendosi presa da un giorno all’altro mezzo milione di siriani, ha trasformato l’aeroporto di Tempelhof in un immenso, ma dignitoso, campo profughi, ha riaperto una enorme caserma dismessa e in due mesi l’ha resa abitabile per 2.000 persone, ha assunto 8.000 insegnanti per istituire dei corsi obbligatori. E per chi non frequenta viene rallentato l’ottenimento dello status di rifugiato. Dopo lo screening iniziale i migranti vengono avviati a piccoli centri di accoglienza o sistemati in appartamenti, con l’obbligo di seguire anche i corsi di formazione. Funziona così in Norvegia, Svezia, Olanda”.
Cosa cambia concretamente rispetto a quello che avviene in Italia?
“Intanto hai il fenomeno sotto controllo, e poi un sistema di regole che avvia al processo di integrazione, che di per sé è complicato, in tutte le parti del mondo”.
Stai dicendo che il problema culturale italiano è che si tende a confondere la parola accoglienza con la parola integrazione?
“Sto dicendo che non hai risolto nulla dando una brandina e un piatto di minestra, come si fa con le emergenze, perché è da anni un fatto strutturale, e come tale va gestito. Mi hanno colpito tempo fa le parole dell’ex prefetto all’immigrazione Mario Morcone, oggi sottosegretario all’Interno. Durante un convegno mi ha puntato il dito dicendo: ‘Tu vuoi costruire i lager per rinchiuderci questa gente che fugge dalla disperazione e dalla fame, mentre il mio modello è lo Sprar, ovvero piccoli centri per un’accoglienza diffusa’”.
Risposta?
“Io dico: benissimo l’accoglienza diffusa. Ma prima occorre fare un’operazione diversa e gestita dal pubblico, che è quella di accogliere i migranti che sbarcano in edifici pubblici, e le caserme o i resort sequestrati alla mafia sono perfettamente funzionali perché in grado di far fronte anche a numeri imponenti, senza dover improvvisare quindi delle tendopoli. La permanenza in questi luoghi non serve superare i 6 mesi, durante i quali fare corsi di lingua intensivi, formazione professionale, assistenza psicologica e medica e definizione dello status. Alla fine di questo percorso, chi ha diritto all’asilo viene rilocato in piccoli gruppi di accoglienza diffusa. A quel punto i comuni accetterebbero più volentieri quote di migranti, sapendo che avrebbero meno difficoltà ad avviarli verso l’integrazione; e qui le associazioni possono avere un ruolo di supporto importante. In sostanza un percorso virtuoso che allenterebbe, credo, anche la tensione sociale. Ma mi rendo conto che per un paese come il nostro sia complicato parlare di questi temi in modo pragmatico”.
Perché?
“Perché siamo tutti ingabbiati in logiche populiste, di destra e di sinistra”.
Populismi che si incrociano?
"Esatto. Il populismo di sinistra si appella al buon cuore, quello di destra fa leva sulle paure. Ma in definitiva nessuno dei due produce risultati nell’interesse del paese, basti pensare ai minori non accompagnati: abbiamo la miglior legge del mondo, ma non c’è la copertura finanziaria, e così buona parte sparisce, non sai dove”.
Resta il fatto che secondo molti osservatori Milena Gabanelli sui migranti ha, come si dice, posizioni di destra.
“E per la destra sono quella comunista di Rai3. E’ difficile abbattere il partito preso! Le racconto questo, sono stata alla Versiliana, alla festa del Fatto quotidiano, ed ero sul palco con Furio Colombo, che fu il professore con cui diedi il mio primo esame al Dams: Tecnica del linguaggio radiotelevisivo. Ecco, Colombo ha paragonato l’accordo fatto coi libici per contenere i flussi migratori alla Shoah”.
Svengo.
“E’ un intellettuale che stimo molto, ma avrei voluto dirgli: ‘Caro Colombo, ti ricordi, quando eri alla Fiat, quante teste hai tagliato dietro alle quali c’era una famiglia con una valigia di cartone?’”.
Stiamo sul populismo. Che cos’è oggi il populismo in Italia?
“Non sono né una sociologa né un’analista politica”.
Cioè, Milena Gabanelli non vuole parlare di politica?
“Preferisco parlare delle cose che so. Ci sono degli argomenti di cui io so tutto, altri su cui non so nulla, se non quel poco che leggo sui giornali, e dunque non ho voglia di partecipare alla produzione del rumore di fondo. In via generale penso che alla base dei populismi di destra ci sia molta ignoranza e uno straordinario egoismo, mentre il populismo di sinistra è quello delle anime belle che hanno bisogno di vivere in un mondo un po’ malsano per poter dimostrare la propria superiorità morale”.
Ma la Milena Gabanelli che non ama il populismo è la stessa diventata un’icona politica di uno dei partiti più populisti d’Italia, ovvero il Movimento 5 stelle?
“A me interessano le soluzioni ai problemi. I fenomeni complessi vanno governati con competenza, non attraverso slogan o cercando capri espiatori. Se poi il competente è di destra, di sinistra o nel mezzo, a me non interessa”.
Tra i populismi dove collochi il Movimento 5 stelle?
“Collocazione incerta. Anche perché, a differenza dei partiti tradizionali, non hanno una linea chiara: si rifanno un po’ al pensiero del capo, un po’ a quello di ciascuno dei rappresentanti. Un po’ come nel Pd, a pensarci bene”.
E se non fosse il pensiero del capo il pensiero veicolato ma fosse solo il pensiero suggerito da un algoritmo?
“Cioè, tu pensi che ci sia un algoritmo a suggerirgli di dire che se il pil è cresciuto lo si deve al gran caldo estivo?”.
La followship funziona così.
“Ma non so. Credo che un po’ tutti, con modalità diverse, cercano di capire l’umore della piazza per poi calibrare la mira”.
Facciamo un passo di lato e osserviamo più le conseguenze che le cause del populismo. E tra le cause, ovvero tra gli effetti prodotti dal populismo, c’è un tema che coincide con una parola importante: democrazia. Norberto Bobbio diceva che un eccesso di democrazia può diventare un problema per la democrazia stessa. Parafrasando: la democrazia diretta, questa idea un po’ maoista che hanno i grillini della democrazia, non rischia di diventare un problema per la democrazia?
“E’ un disegno che presuppone una popolazione molto responsabile…”.
Dunque impossibile?
“Non escludo che un giorno ci si possa arrivare, mi piace pensare che sia possibile. Noi italiani del resto ci lamentiamo sempre molto, specie di chi ci governa. Ho conosciuto Frederick Vreeland, un ex funzionario del dipartimento di Stato americano, alle dipendenze della Cia dal 1950 al 1985, mandato a Roma presso l’ambasciata americana dal 1978 al 1985, poi ambasciatore in vari paesi sotto l’Amministrazione Bush. Ebbene, gli ho chiesto: ‘Ma perché voi statunitensi con i tedeschi e i francesi negoziate, mentre a noi date ordini?’. E lui: ‘Noi trattiamo coi governi. Ma voi italiani siete i primi a non credere nei vostri esecutivi, perché dovremmo farlo noi?’. Una risposta che è una sintesi del nostro paese, e che dice qualcosa anche sulle prospettive future di una eventuale democrazia diretta”.
Stai dicendo che siamo un paese con elettori molto manipolabili?
“La gente si lascia sedurre dal personaggio famoso, e lo indica quasi automaticamente a ricoprire incarichi istituzionali, senza chiedersi quali siano le sue reali competenze”.
Ti è stato mai offerto qualche altro ruolo dai Cinque stelle?
“No, e non sono interessata a ruoli politici. Ho avuto un lungo rapporto d’amicizia con Beppe Grillo quando faceva solo il comico, ma ormai sono anni che non ci sentiamo, a parte una telefonata che lui mi fece il giorno in cui mi candidarono al Quirinale: ‘Ciao Gaba, hai visto che bello scherzone che ti abbiamo fatto?’. Fine”.
E l’idea che Grillo, più o meno direttamente, possa governare l’Italia, ti spaventa, ti galvanizza, ti lascia indifferente?
“Del candidato a gestire un comune, una regione, un ministero o un’azienda pubblica io voglio sapere nome e cognome, competenze, e capacità dimostrate nei precedenti incarichi. Se questi requisiti ci sono, bene. Che poi siano o meno del Movimento 5 stelle per me è indifferente”.
Ok. Ma se un osservatore internazionale ti chiedesse un parere sull’eventualità che il M5s vada al governo, tu cosa risponderesti?
“Non faccio la sondaggista, e il vero problema è che non c’è una classe dirigente che venga intercettata dalle forze politiche. E di questo ha la sua responsabilità anche la stampa, che spesso alimenta dibattiti sterili dando risalto a scontri personali invece di portare l’attenzione su temi concreti”.
Da qui ai prossimi sei o sette mesi, cosa ti auguri per l’Italia e per la campagna elettorale?
“Che ogni partito formi una squadra competente. Il grande problema della politica è il reclutamento. Se ti basi solo sugli incarichi precedentemente svolti, sbagli il parametro di giudizio, perché si accumulano soprattutto facendo corridoio. Occorre invece valutare i risultati prodotti durante i tuoi mandati al vertice delle varie strutture”.
Tu per chi voteresti?
“Non te lo dirò mai. Il giornalista è influente, e la lottizzazione della tv pubblica ha fatto dei disastri enormi anche in questo. Per anni ho sofferto il fatto che, solo perché andavo in onda su Raitre, venissi considerata automaticamente portavoce della sinistra. Chi fa il nostro mestiere dovrebbe sempre astenersi dalle frequentazioni e dalla famigliarità con politici e imprenditori, ne va della sua credibilità”.
Dunque secondo te il giornalista per risultare oggettivo nei suoi giudizi deve essere equidistante?
“Sì. Deve esserlo e deve anche apparirlo”.
Stai dicendo che anche se si fanno campagne contro qualcuno non si è più imparziali?
“Se l’attacco è ideologico, certamente sì!”.
Un politico uscito con le ossa rotte da un’inchiesta di “Report” è stato Antonio Di Pietro: perfetto caso di moralizzatore moralizzato. Oggi Di Pietro, a proposito di moralizzatori forse pentiti, è tornato d’attualità per una frase che ha detto qualche settimana fa a proposito di Tangentopoli. Di Pietro ha fatto quasi autocritica: ha rivendicato le sue inchieste, ma ha sottolineato con stupore e rammarico che Tangentopoli ha contribuito sfortunatamente a indebolire forse definitivamente la nostra classe politica. Che lezioni dovrebbero trarre i magistrati dagli ultimi venticinque anni di circo mediatico-giudiziario?
“Credo che il magistrato, o il giudice, non debba porsi il problema dell’effetto che potrebbe avere per il paese portare a processo una certa persona, laddove c’è un’evidenza di reato. Se Di Pietro ha dei ripensamenti, vuol dire che ha dei motivi per dubitare su ciò che ha fatto. E se quelle modalità non erano previste dal codice, sarebbe molto grave. Se invece la sua è una riflessione, è del tutto legittima; ma bisogna anche chiedersi: si sarebbe potuto fare altrimenti?”.
Milena Gabanelli non pensa però che a volte sia proprio la consapevolezza dell’effetto che una certa inchiesta potrebbe avere sul paese a spingere alcuni magistrati nelle loro azioni d’indagine?
“Chi fa questo, senza prove in mano, sbaglia”.
E non hai mai avuto l’impressione che a volte sia accaduto? Non ti sei mai ritrovata di fronte a un’indagine basata più su un teorema che su delle vere prove?
“Non dei casi di cui mi sono occupata. Essendo coinvolta in tante cause, ho avuto a che fare con magistrati, procuratori, giudici straordinari, e altri meno. In via generale direi che la differenza tra un magistrato e le altre categorie professionali è che tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo sentiti dare del cretino. Il magistrato no. E questo li porta a considerarsi in missione per conto di Dio: e dunque sono convinti di non sbagliare mai, né quando con superficialità portano l’innocente a processo, né quando assolvono il delinquente perché subiscono il potere di avvocati influenti. Ogni volta mi auguro di finire davanti a un giudice che abbia davvero voglia di leggersi tutte le carte, e finora è andata così. Incrocio le dita”.
Secondo te è giusto che un politico che viene indagato sia costretto a farsi da parte? Prendiamo il caso di Mastella, che è finito assolto dopo che, anche per l’inchiesta che lo riguardò, cadde il governo Prodi. Non pensi che se ci fosse, anche nel mondo dell’informazione, un sistema di garanzia che permettesse alla persona indagata di essere considerata innocente fino a prova contraria, un politico o un dirigente d’azienda potrebbe restare in carica anche se coinvolto in inchieste?
“La Costituzione c’impone di considerare innocente chiunque fino a condanna definitiva. Ma la stampa deve fare il suo mestiere. Un politico indagato per peculato, può restare a ricoprire il suo incarico? Occorre valutare caso per caso, però quando rappresenti una istituzione, il tuo dovere è quello di preservare la fiducia che i cittadini hanno in quella istituzione. Se sei indagato, e c’è il rischio di gettare un’ombra, penso che sia giusto farsi da parte”.
Cosa pensi della mozione di sfiducia del Pd su Visco?
“Mi pare che qualche problema legato alla Vigilanza ci sia stato, e anche piuttosto grave, quindi la mozione del Pd non è stravagante. Però la domanda da porsi è: all’interno di Bankitalia c’è una competenza migliore di Visco? Se sì, indicate anche i nomi, diversamente proponete un bando internazionale. Queste indicazioni nella mozione non ci sono, e quindi, come sempre si alimenta solo la confusione”.
Equilibri istituzionali