I referendum “non catalani” del nord spiegati (ai distratti) dalla necessità di essere più globali
Roberto Maroni e Luca Zaia hanno fatto molta attenzione a tenersi alla larga dalle pulsioni dei fratelli di Barcellona, e sull’Europa non hanno idee sovraniste. I referendum si spiegano invece col “paradigma Ema”
Milano. No, non siamo in Catalogna. Non lo eravamo nemmeno prima, nel senso di due giorni fa, prima dei referendum consultivi sulle autonomie regionali di Veneto e Lombardia. Delle due consultazioni – andata molto bene per i promotori in Veneto, una conferma politica del plebiscito che aveva incoronato nel 2015 Luca Zaia, e meglio del previsto in Lombardia, dove il dato dell’affluenza rispecchia grosso modo il bacino elettorale del centrodestra – si può dire di tutto. Che erano tecnicamente inutili: si poteva ricorrere come ha fatto l’Emilia-Romagna all’art. 116 della Costituzione, che già consente l’attribuzione alle regioni a statuto ordinario di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Si può dire che erano costosi (a patto di considerare “un costo” l’esercizio della democrazia). Si può dire che vi era un intento propagandistico in vista delle elezioni che nel 2018 interesseranno anche la regione Lombardia (a patto di voler sostenere che le scelte di chi governa, in Italia, non abbiano mai un occhio rivolto anche alla competizione politica).
Quello che non si può dire è che ci fosse dietro ai due referendum un “vento catalano”, e non soltanto per una evidente questione di legalità. O che il voto esprima soltanto i rumori di una “pancia” più o meno populista. Eppure ieri su Repubblica un preoccupato Stefano Folli evocava “la deriva catalana”. Che “non è oggi un pericolo nel Lombardo-Veneto”, ammetteva, e “tuttavia non è indifferente il contesto europeo in cui si è svolto il voto… in un’Europa che tende a frammentarsi”. Roberto Maroni e Luca Zaia hanno in realtà fatto molta attenzione a tenersi alla larga dalle pulsioni dei fratelli (o ex?) catalani, e sull’Europa non hanno idee sovraniste. Basterebbe chiederglielo. Sulla Stampa, Francesco Bei provava invece a dimostrare che il voto ha soltanto aggiunto un “tassello nel mosaico dello scontento”.
Qualche giorno fa sul Corriere della Sera, giornale che a onor del vero si è accorto per tempo del fenomeno, Dario Di Vico spiegava che, al di là degli stessi referendum, c’è alle viste, o già in atto, una nuova questione settentrionale. La quale “si gioca non più esclusivamente nel conflitto con Roma ma nella dura competizione globale”. E che “il referendum ci consegna la domanda su quale sia l’assetto amministrativo più congeniale per supportare questo nuovo posizionamento”. Citava, Di Vico, un intervento sul quotidiano di Via Solferino di Gianfelice Rocca, ex presidente di Assolombarda, secondo cui “saranno i territori e le città a vocazione internazionale a trainare sviluppo e ad attrarre capitali e competenze”. Vuol dire, chiosava Di Vico, che “a decidere delle fortune di Veneto e Lombardia alla fine sarà il loro grado di apertura e di presenza nelle reti internazionali”. La questione è evidente, per chi la voglia osservare senza distrazione, e soprattutto senza ridurla alla misura corta di uno scontro politico interno-esterno alla Lega, che pure esiste ed è interessante: chi tra centrodestra e centrosinistra saprà meglio intercettare umori e interessi del nord? Il risultato dei governatori riporterà Salvini verso l’alleanza con Forza Italia?
In un momento di rilancio economico, i “territori e le città a vocazione internazionale” hanno bisogno di strumenti agili e di velocità di scelta. Non per “andarsene” dall’Italia, ma per trascinarla “nelle reti internazionali”. Bei faceva un esempio, sbagliato: “La Lombardia chiede di avocare a sé la ricerca. Ma di fronte alle università e ai centri di ricerca lombardi c’è la Cina, che nel 2016 ha investito in ricerca e sviluppo l’equivalente di 396 miliardi di dollari. È del tutto evidente che la dimensione regionale non è adeguata per la caratura mondiale delle sfide”. È esattamente ciò che diceva tempo fa a questo giornale il rettore della Statale di Milano Gianluca Vago, quando lamentava la difficoltà di poter attrarre “cervelli” e ricercatori non avendo, né l’università né il territorio, sufficienti margini di autonomia legislativa e di investimento. Una ricerca che debba dipendere esclusivamente dalle scelte “redistributive” del ministero è morta, Cina o non Cina. I referendum si spiegano invece col “paradigma Ema”: se arriverà a Milano, il merito sarà di tutte le istituzioni, governo in primis, che si stanno impegnando a fare della metropoli lombarda il miglior terreno possibile per la scelta europea. La Catalogna non c’entra.