Costruire, non rottamare
Il caso Visco dimostra che Renzi ha urgente bisogno di un predellino per entrare davvero nella fase Lego
In un passaggio dell’intervista concessa al Foglio una settimana fa, Matteo Renzi ha affrontato un tema sul quale vale la pena tornare oggi, anche alla luce dello schiaffo micidiale ricevuto sulla partita del governatore di Bankitalia. Il segretario del Pd, con onestà, ha riconosciuto che “la fase della rottamazione non può essere riprodotta” ma ha aggiunto che è impensabile per un politico con le sue caratteristiche “diventare il paladino di un sistema che non è quello per cui ho iniziato a fare politica”. L’affermazione deve essere messa a fuoco perché costituisce il vero punto di debolezza della campagna del Pd renziano e il vero buco nero nel quale è entrato l’universo del centrosinistra all’indomani del referendum costituzionale.
La questione è semplice: per un leader destinato a trovare un suo spazio politico solo a condizione di contrapporre alla follia populista la forza tranquilla della ragione è o non è una grave contraddizione voler dare l’impressione di essere dalla parte delle forze antisistema? Probabilmente Renzi ha ragione quando dice che una maggioranza funziona solo se sa osare, azzardare e prendersi dei rischi e a ripensarci oggi, alla fine della legislatura, è un piccolo miracolo che un Parlamento ingovernabile come questo sia riuscito, grazie soprattutto alla spinta del segretario del Pd, ad approvare, nello spazio di pochi anni, due leggi elettorali, una riforma del lavoro, un’abolizione dell’articolo 18, una riforma delle banche popolari, un pacchetto di riforme per l’industria e persino una riforma costituzionale, finita però come sappiamo.
Ma alla luce di tutto questo il vero punto di debolezza incarnato da Renzi in questa fase della sua vita è quello di aver trasformato la tecnica della rottura non solo in un buon metodo di governo, ma anche in uno spericolato stile politico, che da un lato rischia di portarlo sulla strada dell’autoisolamento (se c’è una secessione meno sensata di quella della Catalogna dalla Spagna è forse quella di Renzi da Gentiloni) e dall’altro rischia di allontanarlo dall’unico profilo che dovrebbe indossare per avere la chance di contare nei prossimi mesi: l’abito del costruttore, prima ancora dell’abito del rottamatore. Solitamente, nella vecchia grammatica del centrosinistra, il verbo “costruire”, come ha lasciato intendere ieri Dario Franceschini, non coincide con l’idea di essere il perno di un’Italia che prova a spiccare il volo mettendo insieme la maggioranza silenziosa delle forze produttive, ma coincide, prima di tutto, con l’idea, davvero suggestiva, di dover costruire una coalizione molto ampia sul modello Unione – e già che ci siamo la si potrebbe chiamare anche una gioiosa macchina da guerra. Nessuno esclude che il centrosinistra si presenterà alle elezioni con un assetto basato sul modello Unione (auguri e Turigliatto maschi). Ma quello che sarebbe bene escludere da subito è immaginare un centrosinistra incapace di cogliere la più grande opportunità offerta dalla prossima campagna elettorale: essere l’unico partito capace di rappresentare una garanzia sul futuro dell’Italia grazie alla sua distanza simmetrica da ogni forma di populismo (e grazie alla combinazione tra il modello Gentiloni e il modello Renzi). Per fare questo – e per raccogliere i frutti di ciò che è stato seminato in questi anni – seguire lo schema della rottamazione, sia quando si parla di banche, sia quando si parla di vitalizi, sia quando si parla di pensioni, rischia di essere un modo per alimentare il caos istituzionale e perdere punti nell’unico borsino sul quale un leader che sogna di riportare il suo partito al governo non può permettersi di perdere colpi: l’affidabilità.
Oggi il Pd porterà i suoi pezzi da novanta a Napoli per mettere insieme delle idee nel corso della sua conferenza programmatica. Nonostante la mini secessione di ieri in Consiglio dei ministri (i ministri più vicini a Renzi erano assenti nel Cdm che si esprimeva sul rinnovo di Bankitalia) l’occasione potrebbe essere quella giusta per riflettere su un punto dal quale non si può scappare più. La rottamazione è ormai finita. E oggi l’unico modo per non lasciare a spasso quei milioni di elettori che hanno votato Sì al referendum del 4 dicembre è salire su un predellino ed entrare nella fase Lego, lanciando l’unica operazione che può permettere alla rottamazione di non cadere nella trappola della demagogia: l’operazione costruzione. Forse non è troppo tardi.