Un altro nord è possibile
Spoiler per gli spaventati. La Padania non esiste più, la nuova questione settentrionale è globale
Erano passati già due giorni dai referendum in Lombardia e Veneto e ancora poteva capitare – per carità di (piccola) patria non citeremo la fonte – di leggere frasi così: “Occorre allora fare un primo chiarimento tecnico. Questi due referendum non comportano la dichiarazione d’indipendenza”. Bastava aver letto, per tempo, i quesiti referendari. Fior di commentatori si sono esercitati sulla parola secessione, sul suo fantasma, sulle sue concrete possibilità, persino su quanto valga la “minaccia di Zaia”. Fino a Tommaso Cerno, neo condirettore di Repubblica, che essendo di Udine un’idea più realistica dei fatti potrebbe averla, e invece ha scritto un commento che porta la data di parecchi anni fa: “C’è un lato oscuro, un maleficio che aleggia su quel lembo di terra a Nordest dell’Italia dove è tornato a soffiare il vento della destra. Un’ambiguità tutta padana, un fantasma che si aggira”. Se c’è una cosa che ha dello strabiliante è l’incapacità di comprendere perfino i termini della questione settentrionale, fino a travisare il contenuto stesso delle parole. Alle allarmate vedette che scrutano da lontano “la deriva catalana”, occorre fornire una notizia, anzi uno spoiler: la Padania non c’è più.
E’ sparita da parecchio tempo, assieme al vento del nord che la spazzava a folate.
Per trovare una data, fu all’inizio dell’inverno del 2011, in corrispondenza dell’arrivo del governo Monti e del Nevone che per giorni divise in due Grande Pianura. E’ sparita con la crisi globale e con il governo dei tecnici. Da una parte la paura che paralizzava tutto e tutti, anche nelle zone più produttive del paese; dall’altra l’eurocrazia, i compiti a casa, i conti da far tornare. Le riforme da fare in fretta, e governate dal centro per finirla con le discussioni, le spese periferiche da tagliare. Una spinta di riforme rimasta peraltro incompiuta, tra un neocolbertismo che non si addice all’Italia, tecnocrazia e un referendum costituzionale finito male. Politicamente, la questione settentrionale era già morta da un pezzo. Il finale grottesco della Padania era iniziato paradossalmente nel 2008, quando l’alleanza Berlusconi-Bossi stravinse le elezioni e sembrò a molti la volta buona per una riforma costituzionale in senso federalista dello stato. E’ andata come sappiamo. Tutto annegato nei pasticci del Cav., negli scandali delle regioni, nel disastro dinastico del Cerchio Magico. Anche se la fine del Nord non è che abbia portato fortuna al resto dell’Italia. Nel 2015 il Rapporto Svimez, raffrontando i dati tra il 2008 e il 2014, usava parole che manco Bossi avrebbe immaginato: “Sottosviluppo permanente”. In sette anni il Sud aveva perso il 13 per cento del pil, il doppio del centro-nord, i consumi crollati del 13,2 per cento e gli investimenti nell’industria del 59,3 per cento. Ci sono due questioni, in Italia: a Settentrione e a Meridione. Anche a non volerle vedere. Ora, anche a causa della situazione economica che va migliorando, dalle regioni più avanzate rispunta la richiesta di maggiore autonomia. Ma la nuova questione settentrionale che si va proponendo è sostanzialmente diversa. Non è più “l’indipendenza della Padania”. E’ una faccenda italiana, e anche europea.
La situazione economica va migliorando. Non è più questione di "indipendenza della Padania". E' una faccenda italiana, ed europea
Ma bisogna procedere con ordine, perché la Catalogna ha finito per confondere le nostre già scarse nozioni in materia di autonomie, secessioni, autodeterminazioni dei popoli, nazionalismi e sovra-nazionalismi, egoismi economici e tartassamenti fiscali, articoli e commi. Ci sono questioni latenti e fenomeni nuovi, right or wrong, in Europa. Barcellona, e va bene: un caso di eterogenesi dei fini collettiva. Tre anni prima la Scozia e l’indipendentismo sempre acceso sotto la cenere delle Fiandre. L’Europa è disseminata di piccole patrie che non sono mai state o non sono più, sogni e incubi. Ma le aree che dispongono di statuti di autonomia per motivi storici o amministrativi sono molte. Ci sono poi indipendentismi non così letali come quello catalano, ma ugualmente significativi. Le Isole Far Oer nell’aprile 2018 voteranno in un referendum per separarsi dalla Danimarca: hanno scoperto di avere petrolio e gas naturali. Il novembre 2018 porterà un vulnus simbolico, una puntura di zanzara, all’intangibile République, perché i kanak della Nuova Caledonia celebreranno un referendum per staccarsi da Parigi. I sondaggi certificano che fallirà, ma lo sgarbo non piace ai francesi e soprattutto rischia sempre di infiammare la Corsica. In una ricognizione sui secessionismi europei scritta per il Guardian, il giornalista economico Paul Mason ha ricordato con arguzia che il “diritto all’autodeterminazione dei popoli” fu usato da Lenin per promuovere la distruzione dell’imperialismo. E che dopo la Prima guerra mondiale il diritto internazionale aveva dovuto accoglierlo, volente o nolente, per evitare guai peggiori e ridefinire stati e confini tra una guerra e una crisi post coloniale. Cento anni dopo le condizioni sono così cambiate che qualsiasi idea separatista o autonomista è considerata una minaccia, non solo in Europa. Nel frattempo, però, il mondo si è globalizzato e il concetto di confine in molti casi stenta a reggere sotto il profilo economico, politico e della percezione sociale. I nuovi autonomismi o separatismi, in Europa, non sono uguali a quelli del passato. Non somigliano ad esempio a quelli che nella seconda metà del secolo scorso sconvolgevano l’Irlanda e i Paesi Baschi spagnoli, o in tono minore la Corsica. Oggi ci sono più che altro regioni ricche, o economicamente competitive, che puntano a dipendere meno dalla dimensione nazionale e trovare condizioni migliori per il proprio collocamento in un contesto più ampio. Nel marasma dei commenti apparsi sulla stampa italiana si distingue quello del politologo francese Marc Lazar su Repubblica: “A un primo sguardo non c’è niente in comune tra la Catalogna e le due regioni del nord Italia”, ha scritto. Tuttavia, a differenza che in passato, “i regionalismi di oggi esprimono un malessere democratico. Fanno leva sula sfiducia generalizzata verso i responsabili politici” ed esprimono la volontà di trovare un’istanza decisionale più vicina ai cittadini. Alla base c’è “un atteggiamento ambivalente rispetto all’Europa. Da un lato si dichiarano europei, perché hanno un’economia molto aperta”. Dall’altro c’è quello che il politologo Dominique Reynié chiama “populismo patrimoniale”, parente del sovranismo. Per combattere il “populismo patrimoniale” e la sua chiusura economica sarebbe utile non scoraggiare l’autonomismo “aperto”, che è anche un “autonomismo di prossimità”.
Torniamo all’Italia, alla nostra piccola patria. Alla Padania che non c’è più.
Rivedere il funzionamento delle autonomie decisionali, dentro un'ottica globale, è il problema della nuova questione settentrionale
Ilvo Diamanti ha ripreso il dato di un sondaggio Demos per il Gazzettino Veneto: “La secessione non piace nemmeno a coloro che predicano l’indipendenza. Indipendenza infatti è concepita come in-dipendenza. Non-dipendenza. Cioè autonomia”. Anche la grande epopea della locomotiva del nordest si è modificata, col tempo e dopo la grande crisi. Oggi i “padroncini” stanno imparando a pensare globale e 4.0. Guardano i confini come un intralcio tecnico e pensano a Roma più come a un pasticcio burocratico da semplificare che a un nemico storico da cui andarsene. Qualche settimana fa, in un intervento sul Corriere della Sera, l’ex presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca spiegava che nei prossimi decenni “saranno i territori e le città a vocazione internazionale a trainare sviluppo e ad attrarre capitali e competenze”. Territori e vocazione internazionale: il contrario del sovranismo e della piccola patria. Prendiamo il caso Milano. E’ la città dove l’affluenza al referendum è stata più bassa, e dove del resto la Lega non batte chiodo. Perché? Perché i milanesi sono cosmopoliti, si dice subito, ma è una risposta scontata e parziale. Milano è al centro di una megalopoli tra le più ricche e produttive del mondo. E’ transregionale, transnazionale. Vive in una dimensione diversa rispetto al localismo e al nazionalismo. La sua capacità di attrattiva, la sua immagine glam sono frutti della sua efficienza e basterebbe il numero di multinazionali che la hanno scelta come propria sede europea per spiegarne la centralità. Ma, come diceva Ferdinand Braudel, non esiste grande città che non abbia attorno un ricco contado. Il retroterra, “il contado”, che fa perno su Milano va da Novara (ma sarebbe uguale dire Torino) e Genova e arriva fino a Verona, a Vicenza. Confina con la Francia, la Svizzera, la Germania. E’ un continuum di tessuto socio-economico, è qualcosa di nuovo rispetto anche alle macroregioni. E’ il Nord.
Quest’estate sul Foglio abbiamo commentato i dati di uno studio della Camera di commercio di Milano. Il pil 2016 è cresciuto dell’1,1 per cento, 0,2 punti in più rispetto alla media nazionale. Le esportazioni sono tornate ai livelli del 2012 e rappresentano il 9,2 per cento del totale nazionale. La disoccupazione al 7,5 per cento è 0,3 punti in meno della media europea, cinque in meno della media nazionale. Ma attorno a Milano c’è un’area omogenea che non è solo metropolitana, non è una regione né un piccolo stato né aspira a esserlo. E’ qualcosa di nuovo e se il resto dell’Italia non vuole che si trasformi in un altro pianeta, bisogna provare a capirlo.
In Europa i nuovi autonomismi o separatismi non sono uguali a quelli del passato. Il populismo patrimoniale delle regioni ricche
C’è un rapporto dell’Ocse che già dieci anni fa definiva Milano come una città-regione di oltre 7 milioni di abitanti, con caratteristiche di rete fortemente competitive nel contesto internazionale. Uno studio realizzato un anno fa dall’istituto di ricerca Makno proponeva vie interpretative interessanti per il futuro. Innanzitutto le dimensioni un’area che va ben oltre la dimensione del capoluogo lombardo di circa 10 milioni di abitanti, con una densità tripla rispetto alla media nazionale, che confina con un’area, quella veneta, che ha alcune caratteristiche simili. Qui si genera circa il 30 per cento del pil nazionale, con una percentuale superiore a quella delle aree metropolitane dirette concorrenti come la Renania settentrionale-Vestfalia, l’Île de France e la Baviera. C’è un reddito pro capite più alto del 20 per cento della media nazionale ed europea, un tasso di disoccupazione inferiore di quasi 4 punti alla media nazionale, quasi un milione di imprese attive, più di 6.000 multinazionali presenti.
Il punto non sono soltanto i numeri e i loro possibili moltiplicatori. Il punto che anche i commentatori più spaventati – e pure i politici, che invece non sembrano darne segno – dovrebbero comprendere è che non c’è bisogno di modificare i confini. Non è mai servito prima, non serve più per il futuro. Beppe Sala e Roberto Maroni (e forse anche Luca Zaia) sanno benissimo quanto farebbe comodo e non solo a Milano una Zes, una Zona economica speciale, cioè una legislazione economica e fiscale differente dal resto della nazione come è prevista in altre aree e in molte nazioni. Ad esempio per la partita dell’Ema, o della competitività sui mercati finanziari post Brexit. Ma sanno benissimo che non è possibile, per una serie di legittimi impedimenti legislativi e di regole internazionali. Tant’è che Maroni – e per motivi che prescindono dalla politichetta elettorale interna ed esterna alla Lega, l’unica cosa che però ai giornalisti italiani sembra interessare – ha iniziato da un po’ di tempo, ben prima del referendum, a parlare di “neoregionalismo”, cioè di riprendere in mano con un’altra prospettiva la questione del federalismo e delle autonomie, tenendosi lontano dalle strettoie stataliste o padaniste del passato. Un punto di riferimento, lontano da qualsiasi modello o “pericolo” catalano, è ad esempio il progetto cui l’Unione europea sta lavorando da molti anni a proposito delle aggregazioni geo-economiche territoriali. Un argomento molto caro al politologo della Statale di Milano Stefano Bruno Galli, maître à penser del Governatore. All’orizzonte possibile, più che l’Europa dei popoli sognata da Mario Borghezio, c’è la macroregione alpina, – il nome orribile è Eusalp – una cerniera di comunità, economie e politiche pubbliche coordinate che raccoglierebbe 46 regioni appartenenti a sette stati differenti ma accomunati da un continuum che travalica i confini nazionali. E’ un’ipotesi politica e amministrativa, non servono secessioni per attivarla. Ma, soprattutto, è la dimensione già adesso reale in cui vivono i cittadini e le economie del Nord dell’Italia, dal Piemonte al Friuli. Il 90 per cento delle tasse trattenute sul territorio, gli statuti speciali, le materie concorrenti con lo stato sono specchietti per le allodole elettorali. Rivedere il funzionamento delle autonomie decisionali, dentro un’ottica europea e globale, è invece il problema della nuova questione settentrionale. Cioè nazionale, visto che il confine del nord Italia è Berlino e la Londra della Brexit. Dario Di Vico sul Corriere della Sera ha scritto, giustamente: “Se, come pensiamo, la nuova questione settentrionale si gioca non più esclusivamente nel conflitto con Roma ma nella dura competizione globale, il referendum ci consegna però la domanda su quale sia l’assetto amministrativo più congeniale per supportare questo nuovo posizionamento. Quesito tutt’altro che semplice da soddisfare perché è legittimo chiedersi se l’attuale articolazione dei poteri sia lo strumento più adatto per governare i flussi e le interazioni della Grande Regione A4, il continuum che attorno all’autostrada corre da Torino a Trieste”. Anche dal punto di vista del sentiment, la ripresa del discorso autonomista non va interpretata come una cupa paura egoista, e nemmeno come un’irrazionale e suicida pulsione catalana, ma con la consapevolezza di dover stare su un mercato dove Londra è più vicina di Roma. Concludeva Di Vico: “Chi pensa che ci possano essere modelli di sviluppo separati per il Nordovest, Milano e il Nordest concentra la sua attenzione sul contenzioso per il residuo fiscale con Roma, chi crede in un’integrazione inevitabile quanto virtuosa tra le tre aree non può come conseguenza che aprire il cantiere delle idee”. Poi ci sono quelli che vedono aggirarsi il fantasma della Padania, ma che ci volete fare: è Halloween.