Perché bisogna rassegnarsi all'idea che il Jobs Act è un idolo (da proteggere)
Da Schröder a Renzi fino a Macron, l’idea surreale che la sinistra si divida con asprezza su norme che producono non licenziamenti ma lavoro
C’è stata dopo il Jobs Act un’ondata di licenziamenti per motivi economici, senza reintegro giudiziario e con un indennizzo economicamente compatibile per le imprese dopo le nuove norme sul mercato del lavoro? C’è stato un generalizzato downsizing, un ridimensionamento della base occupazionale sulla pelle dei diritti sociali e sindacali? No. C’è stata al contrario, anche per gli incentivi fiscali collegati, una ondata di assunzioni (980.000 secondo calcoli da tutti ammessi come esatti). Il Jobs Act tuttavia divide la sinistra e le impedisce di presentarsi unita alle elezioni. A sentire Bersani e le sue simpatiche sparate è lì che bisogna cambiare, “perché i nostri con quella robaccia lì non votano”. I pontieri Fassino e Damiano sulle correzioni a quella legge discutono o dicono di discutere, con le buone maniere che un Bersani non conosce. Non è nemmeno più una legge, quella norma è una bandiera, uno scontro di valori.
Intanto in Francia, per decreto e come prima cosa, dopo averlo promesso in campagna elettorale e aver vinto la presidenza, un tipo come Macron, che ha una formazione di sinistra aperta al business e al mercato, e ha giocato la sua partita sul superamento del discrimine ideologico destra-sinistra, ha fatto la stessa cosa, un Jobs Act. Lo scopo è anche lì aumentare la base occupazionale, rendere competitivo l’investimento e incrementare la produttività del lavoro. Su questa strada si era mosso anni fa il cancelliere socialdemocratico Schröder, con risultati a quanto pare mica male sia sull’occupazione sia sul resto, cioè sulla crescita economica e di competitività dell’impresa tedesca. Schröder, Renzi, Macron hanno pagato e forse pagheranno dei prezzi alti per questa scelta, sebbene in Francia l’idea che il mercato del lavoro debba essere più aperto e flessibile non abbia eccitato una vera e profonda opposizione sociale, ma non è comunque surreale che la sinistra si divida e si scontri con asprezza su norme che producono non licenziamenti ma lavoro? E questo avviene in economie che di per sé tenderebbero al risparmio della forza lavoro, dato il corso delle tecnologie e la mondializzazione dei mercati.
Bisogna rassegnarsi all’idea che il Jobs Act è un idolo. Anzi è quattro idoli insieme, secondo la classificazione geniale di Francesco Bacone, filosofo della scienza tra i primi e sommi vissuto nella seconda metà del Cinquecento e nella prima metà del Seicento. Gli idola sono in Bacone pregiudizi che rendono difficile l’induzione scientifica, il partire dall’esperienza per arrivare alla verità delle cose. Ci sono gli idola fori o del mercato (ah, che precisione profetica). Una falsa logica nasce dalla non corrispondenza tra definizioni dell’intelletto, linguaggio e realtà. Bisogna evitare questi pregiudizi se si vuole arrivare ad affermazioni vere.
Per Bacone era in gioco la scienza naturale, ma vale anche per la scienza sociale, per l’arte della politica di governo, insomma per il Jobs Act o le Ordonnances o il progetto Hartz di Schröder. L’idea per esempio che gli imprenditori abbiano interesse a licenziare e a usare la libertà di licenziare per ridurre il volume della forza occupata è un simile pregiudizio che mette radici e non se ne va più. Poi ci sono gli idola specus o della caverna, e riguardano gruppi umani particolari, per esempio la caverna della cosiddetta sinistra-sinistra. Poi gli idola tribus, e questi ci riguardano tutti come esseri umani, in quanto persone umane siamo esposti all’errore. Infine gli idola theatri, quelli che derivano da filosofie e ideologie che recitano la loro parte per anni, per decenni, per secoli, e sedimentano quella divaricazione tra il nome della cosa e la cosa stessa. Bacone offre un campionario di astrazioni, di deviazioni nell’uso della ragione, di impedimenti linguistici che sembrano ciascuno la perfetta rappresentazione del falso teorema sociale: i posti di lavoro si salvano per legge, i diritti si garantiscono con norme proibitive, se il mercato si apre e gioca il suo ruolo in modo flessibile è sicuro che il primo effetto sarà la fine della sicurezza dei diritti in materia di lavoro.
Non è così. Non è andata così. I dati sulla disoccupazione tedesca, bassissima, quelli sulla curva crescente di occupati in Italia dopo i vari Jobs Act (e per la Francia si vedrà) dimostrano che intorno alla riforma del mercato del lavoro si combatte a sinistra una battaglia idolatrica. Quindi, a parte correzioni sempre possibili per ogni tipo di norma, lo scontro sbandierato sul mercato del lavoro è il frutto di astrazioni, di scorrettezze logico-razionali che impediscono di accertare una verità attraverso l’esperienza. La verità è che il Jobs Act è stato un’innovazione del codice del lavoro Brodolini, del 1968, e che corrisponde a una necessità sociale e a una convenienza economica del mondo del lavoro, tanto è vero che la norma antiproibizionista sui licenziamenti per ragioni economiche ha prodotto non più licenziamenti ma più assunzioni. Giudicarlo idolatricamente porta a delle conclusioni scorrette, che mettono radici e educano al falso generazioni di cittadini manipolati dalla retorica di leader che si nutrono e li nutrono di pregiudizi privi di base razionale e di rapporti effettivi con l’esperienza. Fassino, D’Alema, Civati, Fratoianni, Boldrini, Grasso e l’allegra compagnia terranno conto di questo?