Rutelli ci spiega perché la rottura a sinistra non è una cattiva notizia
L'ex segretario della Margherita e fondatore del Pd analizza le ragioni che hanno impedito l'accordo elettorale tra Democratici e Mdp-Si-Possibile
Roma. È il giorno della rottura a sinistra sottolineata e ufficialmente ribadita, con quella frase “non abbiamo dato disponibilità a una trattativa”, pronunciata dagli emissari di Mdp-Si-Possibile, e con quel “prendo atto con rammarico di un atteggiamento di indisponibilità” pronunciato dal mediatore Piero Fassino. Ed è anche il giorno in cui ci si rinfaccia reciprocamente di non aver saputo cogliere i segnali della controparte. E mentre infuria il “colpa vostra, colpa loro”, Francesco Rutelli, presidente Anica, già padre nobile del Pd (poi distaccatosi dalla “creatura” nata per fusione nel 2007), due volte sindaco di Roma, vicepremier nel governo Prodi II, ministro dei Beni culturali e sei volte parlamentare, individua “il vero punto critico”, da un lato, “in un’immediatezza che non ha dato respiro e prospettive a un qualcosa (il Pd, ndr) che ne aveva le potenzialità”, e dall’altra in una parallela “semplificazione” (presso la sinistra a sinistra del Pd) che insiste su alcuni concetti (vedi il tanto avversato Jobs act) per aggregare consenso epidermico.
Non a caso Rutelli parla di immediatezza, oggetto del suo saggio “Contro gli immediati” (ed. La nave di Teseo), appena arrivato in libreria. Gli immediati, cioè “i vincitori effimeri di oggi, scrive, sono “coloro che rifuggono la mediazione e vogliono demolire ciò che è intermedio”: i “semplificatori”, “compulsivi e assertivi” che esprimono “giudizi superficiali e slogan rilanciati sulla Rete”, adottando “nuovi alfabeti comunicativi dominati sulle emozioni. “Immediato” chiunque di noi può diventarlo, dice Rutelli, e il concetto è applicabile alla storia (“vedi la strumentalizzazione nel caso Anna Frank”), “al tema del lavoro” in tempi di automazione e intelligenze artificiali, alla vita privata, alle istituzioni.
“Torniamo a scommettere sul tempo medio”, scrive l’ex sindaco di Roma, che, di fronte alla rottura Pd-Mdp e sinistre, invita a ripartire dalla domanda: “Il Pd è la continuazione dell’ex Pci-Pds o una cosa nuova? E’ su questo asse, infatti, che si consuma la crisi di oggi. Renzi ha delle responsabilità per così dire di sistema, per via delle scelte non inclusive che ha fatto e perché la vera scommessa del Pd, il suo vero ‘tempo medio’, riguardava e riguarda la costruzione di una cosa nuova. Formalmente, la cosa nuova è stata costruita. Ma è mancata la trasformazione vera, nel momento in cui si usciva dalle riflessioni sul trattino tra centro e sinistra e tra sinistra e centro. Il Pd ha avuto, a mio avviso, l’opportunità di essere, nel panorama europeo, non soltanto un’operazione Macron prima di Macron, come si è visto alle Europee del 2014, con un risultato percentuale molto alto e l’occupazione di uno spazio da partito riformatore-europeista, capace di sottrarre consensi sia alle sinistre non riformatrici sia alle forze che puntavano tutto sulle parole d’ordine anti-classi dirigenti”.
Ma che cosa ha impedito la trasformazione vera? “Si è seguito intanto”, dice Rutelli, “un impulso di immediatezza anche comunicativa ed emozionale, rivolta contro avversari e provvedimenti, come se il perimetro dell’azione potesse essere definito dall’obiettivo quotidiano di contrasto. Questo ha reso più difficile la costruzione di una nuova identità politico-strategica, di un pensiero ‘dem’, di una classe dirigente”, e l’operazione di ‘unione’ del e nel centrosinistra. Dopo l’arrivo al governo, è mancata insomma la gravitas”. Ed è anche “perché non si è costruito davvero il nuovo che la sinistra prima interna e poi scissionista, ha avuto buon gioco nel ricollegarsi all’antica appartenenza, al cordone ombelicale. Ma sappiamo che questa sinistra in Europa ha percentuali basse: 6 per cento, 5 per cento. Sappiamo che Pierluigi Bersani non è Jeremy Corbyn”. Il resto lo fa la legge elettorale che “impone le coalizione”. Contro questo “si infrange”, dice Rutelli, “anche il meritorio tentativo di tenere insieme, nel centrosinistra, soggetti dalla diversa personalità politica – e bene ha fatto Renzi, comunque, a non sconfessare il Jobs Act, provvedimento che va incontro alle reali esigenze di un mondo del lavoro in evoluzione”.