Il grillino che è in te. Il dramma di una classe dirigente senza carattere
La borghesia italiana e l’equivoco del terzismo: non prendere parte, considerare tutti allo stesso modo, sistema e anti sistema, significa già aver fatto una scelta
Dirigente o digerente? La scorsa settimana, le parole consegnate da Eugenio Scalfari a Giovanni Floris su Silvio Berlusconi, “tra Di Maio e Berlusconi sceglierei Berlusconi”, hanno avuto l’effetto di aprire un dibattito su un tema che, se fossimo in un paese come la Francia, oggi sarebbe centrale: in un ipotetico ballottaggio tra il leader di un partito di centrodestra e il leader di un partito anti sistema da che parte starebbe la classe dirigente? Diciamo che il dibattito avrebbe una sua centralità se fossimo un paese come la Francia non per sminuire le argomentazioni di Scalfari ma per segnalare un piccolo dramma culturale con cui deve fare i conti il nostro paese: l’incapacità della classe dirigente italiana di mostrare un carattere costruttivo in campagna elettorale. Senza volerci girare attorno, il tema è il seguente: di fronte a un partito sfascista che sogna di superare la democrazia rappresentativa a colpi di fake news, di bufale digitali, di progetti eversivi e di riforme anti costituzionali, una classe dirigente può permettersi di essere neutrale? Eugenio Scalfari, forzando la sua natura anti berlusconiana, ha detto che non si può, che non si fa e che di fronte a una scelta tra un populista di sistema e un populista anti sistema non bisogna fare gli schizzinosi e bisogna non premiare il male minore ma semplicemente votare contro il male maggiore.
Come si fa a essere contro un partito (il Movimento 5 stelle) che
ha portato in campagna elettorale molti temi fatti propri negli anni dalla illuminata borghesia moralista e anti casta? Per farlo, bisogna rinnegare se stessi. Scalfari
lo ha fatto. Abbiamo l'impressione che rimarrà un caso isolato.
E che la borghesia italiana in fondo abbia già fatto una scelta. Scegliere di non scegliere
Lo ha fatto valutando un’opzione impossibile, ovvero il ballottaggio tra Di Maio e Berlusconi, e lo ha fatto spiegando, forse involontariamente, la ragione per cui la classe dirigente italiana può permettersi il lusso di non decidere da che parte stare: in assenza di un sistema elettorale che ti costringe a prendere posizione, a fare sistema, a smussare gli angoli, non prendere posizione diventa una posizione come tutte le altre. E dunque, riformuliamo la domanda: ma oltre alle parole di Eugenio Scalfari, parole che hanno fatto svenire buona parte degli opinionisti del giornale fondato da Scalfari, c’è da aspettarsi, in campagna elettorale, che la borghesia italiana scenda in campo contro Grillo con la stessa enfasi con cui la borghesia francese è scesa in campo contro Le Pen? Finora possiamo dire che questo non è successo, che la borghesia ha scelto di abdicare al suo ruolo di guida morale del paese e che l’establishment (o per lo meno quello che resta di esso) ha sempre scelto di fare un passo indietro nei momenti in cui il paese chiedeva di fare un passo in avanti. Senza rendersi conto che in una fase storica complicata come quella in cui viviamo oggi non prendere parte, essere neutrali, considerare tutti allo stesso modo, sistema e anti sistema, democratici e anti democratici, significa già aver fatto una scelta.
Misurare la forza di una classe dirigente e di un establishment non è facile ma a volte basta un qualche dettaglio. Basta, per esempio, osservare cosa succede nelle più importanti città di un paese. Prendete il Regno Unito, dove il populismo della Brexit ha prevalso ma non ha prevalso nella capitale della borghesia (Londra). Prendete gli Stati Uniti, dove il populismo di Trump ha prevalso ma non ha prevalso nella capitale dell’establishment (New York). Prendete la Francia, dove al primo turno delle presidenziali, quando il Front National arrivò al 21 per cento, il populismo di Marine Le Pen nella sua Capitale (Parigi) ha fatto breccia solo sul 4,9 per cento degli elettori. Guardate tutte le grandi capitali d’Europa, guardate tutte la grandi città d’Europa e poi guardate l’Italia e capirete che ha ragione il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda (ne ha parlato con chi scrive a un convegno a Roma una settimana fa) quando dice che su questo fronte una situazione come quella italiana non esiste forse in nessuna parte del mondo.
Torino, ex capitale d’Italia, governata da una forza anti sistema. Napoli, una delle più grandi metropoli italiane, governata da una forza anti sistema. Roma, capitale d’Italia, governata da una forza anti sistema. Guardate tutto questo e provatevi a fare una domanda: la borghesia italiana è più simile a una classe dirigente (che dirige il traffico) o a una classe digerente (che digerisce tutto)? Per provare a rispondere al quesito (la cui risposta ci sembra essere più la seconda opzione che la prima) bisogna andare più a fondo e mettere a fuoco il grande equivoco che si trova alla base di tutto. Un grande equivoco che coincide con una parola con cui alcuni giornali hanno costruito una fortuna e che oggi più che una risorsa rischia di essere una minaccia per la democrazia: il terzismo.
Per anni, un pezzo importante del nostro paese, ben rappresentato dal Corriere della Sera, ha scelto di non prendere una posizione a favore di qualcuno o contro qualcuno (unica eccezione l’endorsement di Paolo Mieli nel 2006 per Romano Prodi) e ha deciso di soffiare su una bolla pericolosa immaginando un giorno di ritrovarsi a sostenere un Luca Cordero di Macron italiano: la scomposizione del bipolarismo. Non scegliere tra i due poli di governo è diventata una scelta virtuosa, quasi coraggiosa, quasi rivoluzionaria, sicuramente molto chic, e in nome di questo principio è stata legittimata anche una dura e tosta battaglia anti casta che come tutti sappiamo è stata portata avanti per molti anni proprio dal giornale della borghesia. Il ragionamento era semplice: per favorire la nascita di un terzo polo prima occorre indebolire i due poli. Il risultato però è stato leggermente diverso: aver contribuito a indebolire i due poli (che nel frattempo hanno fatto di tutto per indebolirsi anche da soli) non ha portato alla nascita di un terzo polo illuminato ma ha portato alla nascita di un terzo polo poco illuminato. Doveva arrivare Macron, purtroppo è arrivato Di Maio e la borghesia illuminata si è ritrovata di fronte a un problema mica da poco: come si fa a essere contro un partito (il Movimento 5 stelle) che ha portato in campagna elettorale molti temi fatti propri negli anni dalla illuminata borghesia anti casta? E se ci si pensa bene lo stesso problema rischia di averlo un altro pezzo di borghesia italiana, quella ben rappresentata dal giornale fondato da Eugenio Scalfari che ha tentato di utilizzare il moralismo come surrogato del riformismo e che ha impugnato a lungo l’arma della questione morale per distruggere le carriere degli avversari. E si capisce che anche per quella borghesia il problema è simile a quello descritto prima: come si fa a essere contro un partito (il Movimento 5 stelle) che ha portato in campagna elettorale molti temi fatti propri negli anni dalla illuminata borghesia moralista? Per farlo, in entrambi i casi, bisogna rinnegare se stessi. Scalfari lo ha fatto. Abbiamo l’impressione che rimarrà un caso isolato. E che la borghesia italiana (che da questo punto di vista è ben rappresentata da Urbano Cairo) in fondo abbia già fatto una scelta. Scegliere di non scegliere. Che mai come in questo caso però somiglia molto a una scelta. Molto chic, no?