Massimo D'Alema (foto LaPresse)

I pugnali di Massimo D'Alema

Marianna Rizzini

Lessico, aneddotica e fenomenologia dell’uomo che non tollera che un progetto di sinistra non si chiami “sinistra dalemiana”

Scorpione, gli dicono. D’Alema, tu sei lo scorpione che vuole farsi portare dalla rana sull’altra riva del fiume ma a metà strada la punge, perché non può fare a meno di farlo e affoga con lei. C’è anche la variante psicanalitica: “D’Alema è un ludopatico della politica, sempre costretto dalla sua dipendenza compulsiva a intrigare, a giocare d’azzardo e a vincere”, ha detto Francesco Merlo a “Otto e Mezzo”, su La7 – ma in generale, da quasi due decenni, ogni volta che qualcuno dice “D’Alema”, qualcun altro, come in passato Dario Franceschini, tira fuori l’antico scorpione (Achille Occhetto neanche ricorre alla metafora: ha chiamato Massimo D’Alema direttamente “serial killer” della sinistra). Ma lui, D’Alema – ex premier, ex vicepremier, ex ministro, velista ed enologo per diletto ma con profitto (produce vini che si accompagnano a cene stellate) – dal punto di vista zoologico non si identifica. Sono un ariete, non uno scorpione, ha detto in un giorno d’autunno del 2009, in tempi serenamente bersaniani. “Sono un ariete soprattutto di carattere e non solo come segno zodiacale. E per una rana è difficile portare un ariete sulle spalle. Quella è una favola triste perché alla fine tutti e due vanno a fondo, bisogna invece lavorare tutti insieme e

Il “lavorare tutti insieme” a sinistra come profezia mai autoverificata, a partire dal castello di Gargonza (1997)

vincere nel Pd”. Detto da chi, come lui, oggi è seduto sul lato scissionista (Mdp) della sinistra pluralissima antirenziana, quel “lavorare tutti insieme” suona come la profezia che mai si è autoverificata. Stessa cosa succede con il baffo: dici D’Alema e sullo schermo mentale dell’ascoltatore si disegna il caratteristico baffo sornione, presagio di machiavellismo o d’impuntatura potenzialmente mortale per qualsiasi sinistra che non si chiami “sinistra dalemiana”. Ma c’è chi, avendo visto l’ex premier in piazza nel giorno anti-Rosatellum, circa un mese fa, collega il presagio di guerra imminente al nuovo feticcio: l’occhiale fumè che sempre più spesso lo scissionista numero uno indossa da quando il baffo, oltre a farsi segno d’orgoglio anti-rottamazione, si è allungato sulla scena con la baldanza di chi ha detto “no” al referendum costituzionale renziano del dicembre 2016 e ha visto che gli è andata dritta (“e la sinistra rimane di nuovo impigliata ai suoi baffi che sono come la gobba di Andreotti”, scrive sempre Francesco Merlo: “…umori, ambiguità, trame, inciuci, affari, ombre cinesi”). Quando D’Alema abbia cominciato a fare il D’Alema è difficile a dirsi, forse già dai tempi della scuola elementare – era iscritto ai piccoli pionieri comunisti – o dal giorno in cui, come dice un ex compagno di partito, “ha capito che le vittorie migliori sono quelle che all’inizio sembrano acque fermissime”. Fatto sta che D’Alema non ha mai smesso d’esser D’Alema. Non fa testo l’allusione all’Europa – tipo “mi occupo di Europa” – luogo della mente che per l’ex premier a un certo punto è stata un po’ come l’Africa per Walter Veltroni. W. non c’è andato (per fare documentari), D’Alema non c’è andato per fare vini, ma anche perché, a un certo punto, qualcosa s’è messo di traverso al suo arrivo effettivo a Bruxelles nei panni di “Mr. Pesc” (ministro degli Esteri della Ue), motivo ricorrente e sotterraneo di attrito con le aree maggioritarie del Pd.

  

Il baffo, l'occhiale, il vino,
e quel luogo della mente, l'Europa, sempre evocata ma mai raggiunta nei panni di Mr. Pesc

Volendo individuare la costante dell’azione del D’Alema “ariete”, armato di pugnale sui progetti di centro-sinistra, di sinistra, nonché a volte sui progetti di governo o di cosiddetto dialogo bipartisan che non possano essere definiti d’ispirazione dalemiana, si potrebbe semplificare così: se una cosa la fa D’Alema va bene (vedi la Bicamerale, vedi lo scontro con i sindacati sull’articolo 18 in versione D’Alema contro Sergio Cofferati). Ma se la fanno altri – uguale o quasi – non va bene (vedi Patto del Nazareno, vedi scontro con i sindacati sull’articolo 18 ma in versione Renzi contro Camusso). Come ha scritto Francesco Cundari nel saggio “L’Ulivo come un dramma”, pubblicato su questo giornale nel giugno scorso, D’Alema, “accusato dagli avversari interni di aver tramato con Silvio Berlusconi per attentare, nell’ordine: alla Costituzione (con il ‘Patto della crostata’), al governo Prodi (per prenderne il posto senza passare dalle elezioni), ai diritti dei lavoratori (con l’attacco all’articolo 18 e lo scontro con Cofferati), dal novembre 2014 è divenuto il più fiero avversario di Matteo Renzi. Accusandolo di aver tramato con Silvio Berlusconi per attentare, nell’ordine: alla Costituzione (per il “patto del Nazareno”), al governo Letta (per prenderne il posto senza passare dalle elezioni), ai diritti dei lavoratori (con il Jobs Act e lo scontro con Susanna Camusso)”.

 

E dunque si può idealmente procedere di passo in passo, in ordine e a sbalzi, lungo l’arco delle principali “project assassination” dell’uomo che domani farà da padrino (e/o demiurgo) all’assemblea-convention di Mdp-Sinistra Italiana-Possibile, con alea sul ruolo di Piero Grasso e discussioni latenti e lampanti su simbolo e nome e identità, ma soprattutto con impronta originaria dalemiana, ché D’Alema era “scissionista dentro” molto prima di scindersi dal Pd, scherza un ex pci-pds-ds). Ma non solo contro il Pd renziano l’opera demolitrice dell’ex premier si sostanzia: si segnala la punzecchiatura a Giuliano Pisapia, leader del Campo progressista ancora in bilico sulla collocazione pre-elettorale (e dunque sui rapporti con il Pd renziano): “Io ho sentito Pisapia – come tutti noi – dire in piazza che per ricostruire il centrosinistra occorre una forte discontinuità di contenuti e di leadership e dire che lui si sarebbe alleato con il Pd solo a condizione che il Pd accettasse le primarie di coalizione. Se poi Pisapia farà tutto il contrario di quello che ha detto è un problema che dovrà risolvere con la sua coscienza, non con me”. Risposta di Pisapia: “Quando D’Alema faceva bombardare il Kosovo, io ero nei campi profughi del Kosovo. Sulla coscienza D’Alema non dia insegnamenti a nessuno e tantomeno a me”. Ecco i principali capi d’imputazione che pendono sul capo del “pugnalatore” metaforico.

 

Le cose fatte da lui vanno bene, ma non se un altro le fa uguali (vedi Patto del Nazareno e premiership non “elettorale”)

Primo capo d’imputazione: l’intervento di Gargonza, anno 1997. Trattasi dell’intervento con cui Massimo D’Alema, sull’eterno argomento “primato della coalizione o dei partiti?” – ha dato un colpo secco all’Ulivo, dopo un anno dalla salita a Palazzo Chigi dell’Ulivo (governo Prodi I). Si riuniscono al castello di Gargonza, nell’aretino, in quel marzo del 1997, i principali esponenti del governo del Professore, tra cui Walter Veltroni, anche vicepremier, e Rosy Bindi, oltre a vari intellettuali, tra cui Omar Calabrese, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Ettore Scola, Paolo Flores d’Arcais, Elvira Sellerio e Pietro Scoppola. La discussione va sotto il titolo di “Dieci idee per l’Ulivo”. D’Alema, allora segretario del Pds, prende la parola per dire che per continuare a fare politica bisogna continuare a farla con i partiti e non attraverso movimenti politici “tardo sessantotteschi”. “Non mi si venga a dire che si fa una nuova formazione politica mantenendo i partiti che ci sono…poi nasce il problema su chi è sovrano”. Pur parlando in modo non così antipatizzante, in “prospettiva, di un eventuale partito dell’Ulivo, in quell’occasione D’Alema, odiatore di “comitati”, dice anche, perché gli intellò e i compagni di partito più movimentisti intendano: “Noi non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti”. Se però si considera il “partito dell’Ulivo” come l’anticamera del futuro Pd, partito che D’Alema contribuì, a partire dal 2003, a mettere in cantiere, si arriva a un rovesciamento della suddetta “prospettiva”: sotto forma di Pd renziano, il partito post-Ulivo a D’Alema piacerà così poco da far nascere in lui una vena scissionista che piace proprio alla società civile anti-renziana, riunita in comitati del “no” al referendum costituzionale (ora il comitato può andare).

 

Secondo capo d’imputazione: caduta del governo Prodi. La domanda: è stato Fausto Bertinotti o è stato D’Alema? O anche: quanta mano di D’Alema c’è stata nella caduta di Prodi? Sulle percentuali di responsabilità gli esegeti ancora dibattono, sulla presenza di D’Alema, poi premier, nel parterre dei regicidi prodiani la concordia è quasi unanime. Sullo sfondo, resta la questione “Ulivo”, con il carico della mazzata dalemiana di Gargonza ancora tutto da portare, specie per quell’indimenticabile affondo sul “narcisismo delle minoranze” (allora stigmatizzate, oggi agìte in prima persona).

 

Terzo capo d’imputazione: la critica sottile al concetto di “costituente” della coalizione. Nel 1998 le prime avvisaglie: “…Sento dire che bisogna convocare gli Stati generali dell’Ulivo. Bene io sono qui che aspetto di essere convocato. Ma ho la sensazione che questo Ulivo ci sia soltanto nei giorni di festa. Quando il centrosinistra vince le elezioni, le ha vinte l’Ulivo, quando le perde le hanno perse i partiti. Quando c’è una grana l’Ulivo scompare e la grana se la deve mettere sulle spalle il segretario di questo partito troppo piccolo per governare l’Italia. Dico queste cose con tutta tranquillità…”. Ma è a un certo punto del 1999, mentre è presidente del Consiglio, che D’Alema sente dire la seguente frase da Walter Veltroni, allora segretario dei Ds (il partito intanto ha cambiato nome): “Dopo le elezioni europee del 13 giugno bisognerà rilanciare la capacità di aggregazione dell’Ulivo” (con una cosiddetta “costituente”, appunto). Veltroni riprende un’ipotesi formulata da Antonio Bassolino, e in quell’occasione ricorda che “nel 1996 abbiamo vinto stando tutti insieme ed è grazie a quell’idea politica che oggi la sinistra e le altre forze dell’Ulivo governano il Paese…nessuno di noi da solo va da nessuna parte, nessuna provocazione potrà portarci a bruciare per uno 0,1 per cento in più o in meno la più grande idea politica che abbiamo avuto, ossia la costruzione dell’Ulivo e del centro-sinistra”. E tra le provocazioni, forse, si può annoverare la formula lievemente derisoria con cui, secondo ricorrenti leggende metropolitane, D’Alema parlava della costituente dell’Ulivo come di qualcosa somigliante piuttosto a una costituente “del nulla”. Intanto, sempre nel 1999, con l’asinello dei Democratici appena nato, D’Alema, a proposito del partito unico del centrosinistra, fa esercizio di sarcasmo, come ricorda l’Espresso: “…ci mettiamo un po’ di ambientalismo. Poi siamo un po’ di sinistra come Blair, perché è sufficientemente lontano. Poi siamo anche un po’ eredi della tradizione del cattolicesimo democratico. Poi ci mettiamo un po’ di giustizialismo che va di moda e abbiamo fatto un nuovo partito. Lo chiamiamo in un modo che non dispiace a nessuno, perché Verdi è duro, Sinistra suona male, democratici siamo tutti. E chi può essere contro un prodotto così straordinariamente perfetto? Auguri!”. Poi però, nel 2003, D’Alema rilancia la proposta prodiana di “listone” come “partito riformista”, con inversione di ruolo rispetto al passato.

 

La fine del governo Prodi, la guerra alla “costituente” dell'Ulivo, la regia sotterranea dell'assemblea
Mdp-Si-Possibile di oggi

Quarto capo d’imputazione: la ragione cade sempre due volte – ma con giravolta – dalla stessa parte. In ossequio alla massima interiore dell’“avevo ragione prima, ma ho ragione tantopiù adesso”, che D’Alema pare osservare scrupolosamente, ci si ritrova oggi con un D’Alema che ha fatto il Blair ma ora fa il Corbyn (ancora ricordano, gli ex bertinottiani, tutti gli attacchi dalemiani a una sinistra radicale che, paragonata a quella corbiniana, pare quasi riformista). E insomma ci si ritrova con un D’Alema ex premier considerato “riformista” come ex premier, e con un D’Alema punto di riferimento della sinistra-a-sinistra di tutto che coabita con ex bertinottiani ed intellettuali ieri come oggi lontanissimi dal riformismo dalemiano d’antan.

 

Il quinto capo d’imputazione è storia d’oggi e forse di domani: la lenta e persistente opera di sminamento anti-renziano della sinistra (battuta chiave, così l’ha definita D’Alema stesso: “Finché vivrò, Renzi non potrà mai stare tranquillo”), e con orizzonte di riscossa antirottamatrice che a tratti somiglia alla riscossa antiberlusconiana dei tanto odiati (un tempo) “comitati” da società civile che, come si è detto, ora D’Alema deve riabilitare di fatto, ché, in mezzo, c’è stata la scissione (a cui ha dato abbrivio proprio la vittoria dei comitati del “no” al referendum costituzionale del dicembre 2016). Dopo la scissione, il pugnale dalemiano rotea sotto forma di intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Nel settembre scorso, infatti, D’Alema ha detto l’ormai famosa frase sulla differenza tra Craxi e Renzi (“Il primo era di sinistra”). E a novembre, in modalità “Cassandra”, ha recapitato la sentenza preventiva: “Il voto utile condannerà il Pd”.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.