J'accuse contro il radicalismo degli idioti
Populismo vs realtà. Gran lezione di David Brooks (anche per Lega e FI)
Arrivati a questo punto della storia, arrivati cioè a ottantadue giorni dalle elezioni politiche, sappiamo finalmente quando si vota, si vota il 4 marzo, ma non sappiamo ancora un dettaglio che forse potrebbe tornare utile, nel momento in cui si deciderà a chi affidare la guida del nostro paese per i prossimi cinque anni: ma esattamente, su cosa si vota? Se la risposta che ciascuno di voi darà a questa domanda coincide con l’idea che il voto a marzo sarà un referendum su Renzi, su Berlusconi, su Di Maio, su Salvini o su D’Alema significa che in una certa misura la campagna elettorale italiana, già da oggi, è viziata da un problema grave che riguarda tutte quelle democrazie moderne che sono vittime dei propri successi e che si ritrovano a fare i conti con un populismo di ultima generazione, la cui natura, permeante e trasversale, è stata perfettamente sintetizzata tre giorni fa sul New York Times da David Brooks: il radicalismo identitario.
Brooks sostiene che il radicalismo di oggi sia diverso rispetto a quello del passato perché è “un radicalismo che riguarda più l’identità delle persone che i problemi sociali”. Ed è grazie a questo gioco di prestigio che i populisti riescono a prescindere completamente dai dati di realtà spostando il fuoco del dibattito pubblico su un piano dove i radicalismi sono più forti: la distruzione delle persone odiate. Il radicalismo identitario – sostiene Brooks – esalta la perdita di fede nelle istituzioni, la tendenza a vedere cospirazioni corrotte, il desiderio di un cambiamento totale e alla luce di queste priorità diventa accettabile l’idea che a volte sia necessario non solo ignorare i fatti ma anche accettare di ingaggiare il più grande idiota disponibile per ottenere un cambiamento purchessia.
L’osservazione di Brooks calza bene anche con il contesto italiano e per capirne la ragione è sufficiente ridare un’occhiata ai dati offerti qualche giorno fa dal Censis, che ha ricordato che gli italiani, con percentuali che vanno dal 70 all’85 per cento, non hanno più fiducia nelle istituzioni pubbliche e private (l’Italia del rancore) ma allo stesso tempo in molti, il 78,2 per cento, si dichiarano molto o abbastanza soddisfatti della vita che conducono. Le cose vanno piuttosto bene e gli italiani sono contenti della propria esistenza ma nonostante questo siamo tutti molto arrabbiati. Tutto questo, ovviamente, combinato con la circostanza di un paese come il nostro in cui per anni un pezzo importante di classe dirigente ha alimentato in modo irresponsabile la bolla del moralismo politico scommettendo sull’idea che il “cambiare chi” fosse molto più importante del “cambiare cosa” non fa che alimentare il rischio di veder fermentare in campagna elettorale, da una parte e dall’altra, una forma più o meno sofisticata di radicalismo identitario.
Se ci si pensa bene, anche la rottura maturata ieri in Parlamento tra Salvini e Berlusconi (Forza Italia ha votato no alla legge contro gli sconti per i reati gravissimi proposta dalla Lega) nasce non da uno scontro ideologico ma da un problema identitario. Da una parte c’è un partito (quello di Salvini) che usa il giustizialismo per alimentare l’idea che l’Italia sia devastata da un sistema corrotto che va punito. Dall’altra parte c’è un partito (Forza Italia) che dice che l’Italia non è un paese allo sfascio, e che non è corrotto fino al midollo, e che per questo non ha bisogno di distruggere un sistema (se si pareggia, Gentiloni va benissimo a Palazzo Chigi) ma semmai ha solo il dovere di migliorarlo. Brooks non lo dice esplicitamente ma per uscire da questa patologia della democrazia (Lenin diceva che l’estremismo era una malattia infantile del comunismo, oggi potremmo dire che il radicalismo identitario è la malattia senile di una democrazia che funziona) la soluzione sembra essere solo una: spostare la discussione elettorale sugli oggetti e non sui soggetti di un paese. Lo spazio per farlo esiste, sia a destra sia a sinistra, difficile dire se Salvini sia l’alleato giusto per contrastare la malattia senile di una democrazia che funziona: il populismo identitario, quello senza logica, senza idee, senza contenuti, è semplicemente fuori dalla realtà.