2018, la grande fuga dalla candidatura alle elezioni
Sono le elezioni più nannimorettiane della storia repubblicana, “mi si nota di più se non vengo”. Da Dibba ad Alfano così scappare dal Parlamento sta iniziando a dare serietà e prestigio
“Ma che sei matto? Il deputato io?”. Più che gli osservatori Osce ci vorrebbero i buttadentro. Quelle del 2018 saranno forse ricordate come le elezioni politiche della ritrosia. Nessuno si candida. Casi clamorosi, ragioni misteriose. Il Dibba, in leva parentale-esistenziale (con allegato libro-memoir) di giustificazione; Pisapia, in retromarcia da presa di realtà. Calenda, per strategia. Veltroni e Rutelli per bibliografia. Alfano, per realpolitik. C’è chi non ha i voti, chi preferisce saltare un turno, chi conta su future chiamate da riserva della Repubblica, chi si autoconvince d’essere ago della bilancia. Tutti saltano un turno e si mettono “a disposizione”.
Di sicuro sono le elezioni più nannimorettiane della storia repubblicana, “mi si nota di più se non vengo”, a ‘sto giro, con tante macchinazioni, molti calcoli, strategie forse arrischiate. Come le fabbrichette o i ristoranti del Nordest, che cercano cuochi e pizzaioli e non li trovano, e fanno indignare. In Parlamento non ci vuole andare nessuno.
I più sofisticati storici ricordano un’altra fase, quando tra la fine del fascismo e la nascita della Costituente tutta una classe politica s’era convertita, ripulita, imbellettata, cercando benemerenze, tra Vaticano, il Quirinale (allora a guida monarchica), ritraendosi per poi farsi pregare, all’alba della Repubblica: quando non venne chiamato poi nessuno.
Altri citano i romanzi parlamentari d’epoca. “A questo Senato non vuoi più andarci!”, dice la nipotina al nonno in “Illusione”, sublime romanzo parlamentare di Federico De Roberto. Mentre Matilde Serao scrive ben prima di Rizzo e Stella il romanzo anticasta “La conquista di Roma”, 1885. Protagonista un povero peones, Francesco Sangiorgio, subito deluso da un’aula dalle “pareti color legno, coi fregi di un azzurro cupo, fatte apposta per non riflettere nulla, per estinguere ogni allegrezza luminosa: quella tinta volgare assorbiva e smorzava tutte le altre, avvolgeva tutti i colori in una gradazione scialba e monotona”.
“Ogni giorno, da tutte le parti d’Italia, arrivavano deputati, con una piccola valigia” scriveva Serao, giornalista che conosceva bene la Roma parlamentare: “La valigia della settimana di crisi, dove la moglie mette quattro camicie, sei fazzoletti, le pianelle, una spolverina”. Le sofferenze della politica sembrano rimaste sempre quelle: una vitaccia. Un supplizio. “Mi riprendo un pezzo della mia vita”, dice Alfano, come se stare in Parlamento fosse stare chiusi in una Fortezza Bastiani, togliesse l’aria e il respiro.
“Lo faccio per mio figlio, farò politica fuori dai palazzi” dice il Dibba. Tipo “Preferisco vivere”, pubblicità progresso. Aiutali a smettere anche tu. Il ministro ancora ancora (quando mi chiameranno), ma il deputato, quello proprio non lo vuol fare nessuno. Meglio fare la tv, i grandi fratelli, i libri. Al limite, i giornalisti.
I giornalisti, viceversa, non ci pensano proprio a fare i deputati. Si defila Sallusti, ringrazia ma dice no Nicola Porro, Mimun non ci pensa per niente. Tengono famiglia. Montecitorio, comunque sempre un incubo. “In quella grande caldaia politica bollivano tutti i temperamenti, e tutti i caratteri delle regioni italiche si manifestavano”, sempre Serao. Nella grande caldaia parlamentare, anche, temperature micidiali; prima delle arie condizionate e dei rifacimenti novecenteschi, maratone sudoripare. Nel 1893, nel pieno del dibattito parlamentare sullo scandalo della Banca romana, peggio dell’Etruria, vengono mandati infatti commessi con idranti a spruzzare d’acqua fredda il tetto ricoperto di zinco. L’aula semicircolare (“l’emiciclo”) era infatti nota per essere gelida d’inverno e rovente d’estate; era stata disegnata dal poco conosciuto ma pratico ingegner Comotto, in fretta e furia, in un anno dopo l’unificazione, ricoprendo tipo abuso edilizio un cortile di palazzo Montecitorio, dove i peones pascolano tipo studenti del Virgilio.
Da allora, la vita grama del deputato peggiora soltanto. Anni e anni di battaglia contro la #kasta hanno tolto i vitalizi, annullato ogni prestigio, rimosso sirene, scorte, palette, medaglioni, tutto l’armamentario anche simbolico che faceva di un mestiere una professione decorosa e adulta. “Non dite a mia madre che faccio il deputato, lei mi crede pianista in un bordello”, si potrebbe dire, col celebre memoir di Jacques Séguéla, il pubblicitario scelto da François Mitterrand per le sue campagne, che gli fece segare i canini troppo aguzzi per adattarlo meglio al suo claim “une force tranquille” sui poster.
Avere un deputato in famiglia ormai è una disgrazia, è peggio di un bamboccione, o uno sdraiato; è una fase regressiva. E invece scappare dal Parlamento infonde serietà, prestigio. Insomma diventare adulti. Il Dibba è diventato papà rispettabile, se non proprio padre della patria. Alfano ha acquistato una patina da costituente: sempre padre (le parole sono importanti). Gli unici irriducibili che agognano l’emiciclo sono i più navigati. Silvio Berlusconi vorrebbe tanto, e non gli è concesso. D’Alema morrebbe per tornarvi, diciamo. Eppure ci sono stati tanto. Forse contro tutti questi padri, costituenti e non, vogliono solo tornare figli.
L'editoriale dell'elefantino