Oltre la Boschi c'è di più
Sms mattutini, collant, tacchi a spillo e distretti orafi. Ma la storia delle banche è molto altro
Alla fine ci si ricorderà solo di Banca Etruria, di Maria Elena Boschi col suo papà, degli sms di Vegas, delle richieste al dottor Ghizzoni, delle inopportunità, delle allusioni, delle scarpe col tacco e dei collant, dei frizzi e dei lazzi. Va bene. Ma chi avesse la pazienza di farsi largo nel folto della campagna elettorale, tra i rovi dello scandalismo e della spettacolarizzazione politica, può anche afferrare il frutto più inquietante offerto in questi giorni dalla mitologica Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario. Abbiamo infatti scoperto che quando le banche italiane hanno problemi di liquidità e di redditività vendono al pubblico prodotti finanziari (la commissione ha per esempio messo in luce che dal 2009 al 2014 gli azionisti della Popolare di Vicenza lievitarono fino alla spaventevole cifra di 121 mila. Ovvero la banca aveva piazzato i suoi prodotti azionari non solo ai soci, ma anche ad altri, solo per sopravvivere). E abbiamo scoperto che gli strumenti per capire cosa esattamente vendano le banche, quando devono sistemare i loro problemi di bilancio, non ci sono (per esempio: la commissione ha messo in evidenza come nei prospetti informativi sugli investimenti offerti da Veneto Banca nessuno avesse avvertito che l’istituto aveva 150 milioni di cosiddetti “crediti baciati”, che sono un chiaro segnale di difficoltà nei bilanci). E insomma in questi mesi la commissione parlamentare, al netto delle urla e delle strumentalizzazioni, ha rivelato che i meccanismi di sopravvivenza messi in campo dal sistema bancario negli anni della crisi erano del tutto improvvisati, e che l’intero sistema ha un problema di vigilanza, persino nei rapporti di collaborazione tra la Banca d’Italia e la Consob, ovvero tra chi controlla lo stato patrimoniale delle banche e chi vigila sui prodotti finanziari che queste mettono sul mercato. A questo proposito, chi può, dovrebbe rileggersi lo stenografico del confronto in commissione tra il capo della Vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, e il capo della Vigilanza di Consob, Angelo Apponi. Ne viene fuori uno spaccato illuminante. I due si rimpallano le responsabilità.
E insomma, grazie alla commissione, si è capito che, mentre la tempesta finanziaria del 2008-2011 si abbatteva sul nostro paese, Banca d’Italia e Consob si muovevano seguendo un quadro normativo contraddittorio e inadatto alla modernità finanziaria, un sistema di regole che, come invece dovrebbe succedere nelle navi quando affondano, non risolveva (e ancora non risolve) un dilemma fondamentale: salviamo prima la banca o salviamo prima gli investitori? E inoltre: qual è l’equilibrio tra il principio di stabilità del sistema (le banche non devono fallire e vanno protette) e quello di trasparenza (i prospetti informativi in campo finanziario non devono essere dei “bugiardini”)? Si è insomma capito che il Testo unico delle finanza (Tuf), noto come legge Draghi, è una buona legge in tempo di pace e di calma. Ma in tempo di guerra, e di tempesta, il sistema non sa più che fare, e cerca di ovviare con italica inventiva portando al limite l’utilizzo delle norme esistenti. La legge sulla finanza, per esempio, prescrive una serie di giustissimi princìpi: la collaborazione tra gli enti di vigilanza e l’obbligo di trasparenza. Ma non prevede sanzioni. Ovvero: devi collaborare, ma se non collabori che succede? Devi informare, ma se non informi che succede? Adesso si potrà anche continuare a parlare della Boschi, fino alle elezioni. Poi, però, il prossimo Parlamento, chiusa la campagna elettorale, dovrà mettere a tema la riforma del Testo unico della finanza.