Giovani, crudeli e determinati
Da Tamerlano a Saint-Just, per non parlar di SS. Il perturbante legame tra spietatezza, politica ed età
Serio e cupo, “nemico della gaiezza”, Tamerlano lo Zoppo aveva uno spiccato senso dell’emulazione e fin dalle sue prime campagne militari di gioventù aveva mutuato da Gengis Khan, il suo idolo, il vezzo di fare piramidi con i teschi dei nemici uccisi. Quando conquistò Aleppo le piramidi furono alte cinque metri e con un lato di tre, visibili da lontano, e i cronisti contarono ventimila teste. Ma poiché era un uomo anche fantasioso, aveva elaborato la variante ingegneristica – narrano sempre i cronisti, attendibili con beneficio d’inventario come sono sempre i cronisti – di costruire torri umane accumulando migliaia di prigionieri vivi gli uni sugli altri e facendo versare sopra i loro corpi fango e mattoni. Allo scopo di incutere un terrore ancor più magniloquente. Tamerlano non mutò carattere invecchiando. Ma era un barbaro dell’Oriente, delle steppe, ed erano altri tempi, bui. Il suo nome è rimasto nella storia ed è legato a quelle parti del mondo. Ma la storia della crudeltà è un fiume carsico, che riemerge non soltanto nelle steppe in cui proliferano i giovani guerrieri allevati nelle scuole coraniche.
"Sono Goran Jelisic, l'Hitler serbo".
I giudici ne riconobbero "la natura bestiale, sadica e ripugnante".
Aveva 24 anni
Giusto venerdì ha chiuso per sempre le sue attività, dopo 24 anni, il Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia, quello che aveva giudicato Slobodan Milosevic e qualche settimana fa s’è visto suicidare sotto il naso, se così si può dire, l’ex generale bosniaco Slobodan Praljak. Ma uno dei condannati più disturbanti, nel catalogo degli imputati transitati davanti ai giudici dell’Aia, si chiamava Goran Jelisić, serbo-bosniaco. Aveva soltanto 24 anni nel maggio del 1992, quando torturò e uccise centinaia di musulmani e croati nel campo di concentramento di Luka a Brcko, nel nord della Bosnia. Figura politicamente minore, sul crinale della follia criminale, Jelisić impressionò i giudici proprio per quel tratto di efferatezza, inescusabile anche con l’attenuante della giovane età, che invece apparve subito come un additivo. Dei suoi comportamenti. “Uccidere è bello”, era il suo motto. Alla prima udienza si presentò così: “Sono Goran Jelisic, meglio conosciuto come l’Hitler serbo”. I giudici ne riconobbero “la natura bestiale, sadica e ripugnante”, “uccideva e torturava con entusiasmo”. Si vantava di “aver l’abitudine di far fuori dai 20 ai 30 musulmani ancora prima di prendere il caffè la mattina”, ma queste sono forse le millanterie di un Tamerlano di provincia. Assieme a lui (40 anni di carcere), fu condannata la sua amica Monika Karan-Ilic, che invece era famosa come la Lolita serbo-bosniaca e aveva soltanto 17 anni quando, al campo di Luka a Brcko, si guadagnò la fama di una delle rare criminali di guerra donna del conflitto.
Della liquidazione del Ghetto di Varsavia sappiamo molto, o quasi tutto. Il comandante delle SS Jürgen Stroop scrisse un rapporto dopo la repressione della rivolta dell’aprile preciso come una tabellina. Stroop aveva il grado di generale, aveva all’epoca 48 anni e si presume da questo che avesse piena consapevolezza delle sue azioni. Ma nel suo bel libro memorialistico La mia vita, Marcel Reich-Ranicki (Sellerio), uno dei più noti critici letterari tedeschi del secondo Novecento, che fu testimone oculare dei fatti, racconta dello Sturmbannführer Hoelfe, un maggiore delle SS: dunque un sottoposto, ma comandante del reparto speciale che gli ebrei polacchi conoscevano come “squadra di sterminio”. “Un uomo corpulento, calvo”. Fu lui a prendere la parola, nel luglio del 1942, nella riunione nella sede del Consiglio ebraico che diede il via al “trasferimento” degli ebrei dal Ghetto. Disse, anzi lesse: “Nella giornata odierna inizia il trasferimento degli ebrei da Varsavia”. Fu lui, in pratica, a gestire le tecnicalità di questa parte dello Sterminio. “Era sufficiente il tedesco che parlava (con forte accento austriaco) a testimoniare la rozzezza e la volgarità di quell’ufficiale delle SS”, ricorda Reich-Ranicki. “Più tardi sono venuto a sapere che era originario di Salisburgo: pare fosse meccanico e avesse lavorato nella centrale elettrica della città”. Quest’uomo tarchiato e ferino, che “leggeva lentamente, a fatica” ed era probabilmente inconsapevole “di stare partecipando a un evento di portata storica”, aveva solo 31 anni. Forse non era consapevole, ma aveva dalla sua la risolutezza della giovinezza e nello sguardo la ferocia e la determinazione necessaria. Di questi Sturmbannführer o Unterscharführer che “con un cenno annoiato del frustino” decidevano in un attimo “la morte di venti o trenta persone” è piena la memorialistica del nazismo. Spesso, molto spesso, con la notazione a margine dell’impressionante giovane età che si abbinava a tanta dimestichezza con l’orrore.
La "rozzezza e la volgarità" dell'ufficiale nazista che liquidò
il Ghetto di Varsavia raccontate
da un testimone. Aveva 31 anni
La crudeltà della giovinezza (c’è persino una crudeltà dell’infanzia) è un tratto fisiologico, quasi biologico, che a volte diventa patologico. Sarebbe ovviamente stupido farne una categoria universale, e ugualmente banale legarla soltanto all’efferatezza delle guerre, delle rivoluzioni, o del crimine. Anche se, sociologicamente, è un qualcosa che è sotto i nostri occhi da molto tempo, o da sempre: “Una gioventù insofferente e incattivita che alla superficialità risponde con la superficialità, alla crudeltà risponde con la crudeltà”, aveva scritto Pier Paolo Pasolini quasi sessant’anni fa, ne 1959. E ci vuole un po’ di stomaco per reggere un film come Funny Games di Michael Haneke, 1997. E’ però impressionante, o volendo persino affascinante, accorgersi che esistono nella storia molti esempi che legano l’estremismo politico o ideologico alla gioventù e alla crudeltà.
Sebastian Kurz, il giovanissimo nuovo Cancelliere austriaco, ha 31 anni e nulla nella sua biografia che possa essere messo in rapporto alla crudeltà o all’efferatezza politica. Nondimeno, l’effetto perturbante che ha generato in mezza Europa la sua scelta di varare una coalizione di governo con l’estrema destra, e di affidare al partito partner i ministeri chiave per i rapporti tra gli stati e l’Europa – Esteri, Interno, Difesa – è stato più che palpabile. Dove intende andare, il giovane leader che a parole ostenta apertura, ma come prima mossa mette armi pericolose in mano “alle oscure forze della reazione”, come avrebbero scritto i giornali filo sovietici di settant’anni fa? Ma politica delle cancellerie a parte, è evidente come l’effetto perturbante sui media provocato dal cancelliere sia legato alla sua immagine personale: la giovane età – binomio di determinazione e scarsa esperienza – l’aspetto così irrimediabilmente “austriaco”, per evitare di dirlo ariano, la fierezza un tantino d’acciaio nello sguardo. Non c’è nulla, al momento, in Sebastian Kurz che possa far pensare di essere alle prese con un pericoloso nazionalista. Ma è altrettanto indubitabile, non c’è bisogno della psicologia statistica, che una parte del fascino esercitato da Kurz sull’elettorato dell’Austria risiede in quella immagine, vagamente Hitler-Jugend, volontà d’acciaio e purezza della Heimat. Forza, determinazione, persino un filo di spietatezza nel fare punto e a capo sono le caratteristiche che piacciono un po’ ovunque, agli elettori dei primi decenni del Terzo millennio. E l’ingrediente della giovane età è avvertito come una garanzia di non scadenza per gli altri ingredienti. Del resto, i tempi sono cambiati e i cannibali non vanno più al potere. (A proposito: Jean-Claude Duvalier, il figlio di Papa Doc, quello dei Tonton Macoutes di Haiti, prese il potere quando aveva 20 anni). Poi c’è Kim Jong-un, ovviamente, che di anni ne ha 33 e la sua crudeltà minacciosa – pur al netto delle fake news e della propaganda di regime – è uno degli incubi mondiali preferiti di questo scorcio di anni Dieci. Ma in fondo Kim è un figlio d’arte, replica un modello.
Saint-Just era bello, insolente, crudele, di una vanità smisurata. Prima era un avvocaticchio.
Un Di Maio dei suoi tempi
Dovrebbero forse fare più paura certi apprendisti stregoni della spietatezza politica. Quelli che esercitano regolarmente il potere non di parola ma di linciaggio, quelli che cavalcano e s’intestano l’onda della delegittimazione, che non riconoscono l’avversario politico ma soltanto il nemico da abbattere, senza mediazione. Sono alcune delle caratteristiche del populismo contemporaneo, a trazione social mediatica, presente oggi in molte nazioni. Ma appunto oggi al massimo si sogna di rottamare, ammesso di riuscirci, o si delegittima, o si vuole aprire il Parlamento come una scatola di tonno. Crudeltà da parolai, spesso senza esito. Però la ferocia, in politica, appartiene molto spesso alla giovinezza e a una cattiva visione: dacché la presbiopia, la predisposizione a vedere ciò che è lontano, è un regalo della vecchiaia. Ma la ferocia di matrice giovanil-populista vanta qualche esempio di fulgore abbacinante, e qualche riflesso arriva a illuminare il presente.
Louis Antoine Léon de Richebourg de Saint-Just aveva 26 anni nel 1793, l’anno del Terrore in cui fece rotolare nella cesta più teste di quante ne fece spiccare il suo mentore Robespierre. “Saint-Just è il beniamino del Comitato di Salute Pubblica. Se non fosse anche di una bravura straordinaria, si direbbe di lui che è un retore eccitato”. Lo descrive così, senza simpatia, lo storico Pierre Gaxotte in un vecchio eccellente libro radicalmente critico con la distruzione del “grande edificio” dell’Ancien Régime, La Rivoluzione francese. “Figlio di un ufficiale dei gendarmi, nipote di un notaio, giovane di studio di un procuratore a Parigi, studente a Reims, ricoverato per qualche mese in una casa di cura su richiesta della madre, egli si era trovato, agli inizi della Rivoluzione, senza posto e senza mestiere”. Trasportato oggi, con un filo di ironia, potrebbe essere il ritratto di un Di Maio, di un Dibba, prima del salvivico incontro con Beppe Grillo. Ma i tempi allora erano più violenti, si faceva sul serio. “La caduta di Luigi XVI sistemò gli affari di questo Bruto innervosito”, lo inchioda Gaxotte: “Venne eletto alla Convenzione e si legò subito a Robespierre”. Paradossalmente, sarà il ragazzino a fare da levatrice al pensiero del capo partito: “Persuaso che la Ragione eterna si sia incarnata in lui, abbonda di frasi taglienti e di aforismi definitivi. E’ bello, insolente, crudele, di una vanità smisurata”. E’ lui il teorico del vero e proprio comunismo di guerra giacobino: “L’eguaglianza dipenderà soprattutto dalle imposte. Se saranno tali da ottenere che il ricco indolente abbandoni la sua vita oziosa per navigare o fondare un'industria, egli perderà di colpo l’alterigia che lo contraddistingue”. Spietato, lineare: “Non dovete punire solo i traditori, ma anche gli indifferenti; dovete punire chiunque sia passivo nella Repubblica… Bisogna governare col ferro quelli che non possono essere governati con la giustizia”. “Ciò che costituisce la Repubblica è la distruzione totale di ciò che le si oppone”. E’ lui che il 13 novembre 1792 domina la Convenzione. “Qui non è questione di fare un processo. Luigi non è un accusato, voi non siete dei giudici. Non dovete emettere una sentenza a favore o contro un uomo, ma dovete prendere una decisione di salute pubblica”. Quando il 28 luglio 1794, il giorno dopo il 9 termidoro dell’anno II, la sua testa cadrà, ha 27 anni.
Non c'è nessun determinismo
in base al quale la giovane età debba far rima con crudeltà.
Gli esempi del contrario
Ovviamente, non c’è nessun determinismo né biologico né storico in base al quale la giovane età debba far rima con crudeltà, ed è spesso vero il contrario. La forza dei neuroni freschi, e la capacità a imparare e immaginare, è una delle risorse più grandi a disposizione: la facoltà di dare inizio, direbbe Hannah Arendt. Einstein, che pure non era un genio precoce, ideò la Teoria della relatività quando aveva 25 anni, le idee di Darwin sulla selezione naturale erano già pronte nella sua testa quando ne aveva 21, in attesa di solcare i mari del Sud in cerca di conferme sperimentali. Steve Jobs ha creato Apple a 20 anni, Bill, Larry Page e Sergey Brin hanno fondato Google a 23. La giovinezza è forza, intuizione naturale che le regole esistono per essere sovvertite, o quantomeno sottoposte a stress test. Che Pol Pot avesse 28 anni quando rientrò in Cambogia avendo già messo a punto la sanguinaria idea che non c’è niente di più puro dei bambini per essere trasformati in spietati esecutori della rivoluzione, capaci di spezzare anche i legami naturali. Che Enver Pasha ne avesse poco più di trenta – ed era un uomo istruito e occidentalizzato, di ottime maniere – quando iniziò a pianificare il genocidio degli Armeni, forse sono soltanto coincidenze statistiche. Ma non è detto che da vecchi si diventi più buoni. Neanche a Natale.