Cercasi classe dirigente
Il candidato premier, si sa, ormai non è più centrale. Oggi contano di più la squadra e la borghesia di riferimento. Inchiesta in tre puntate: si comincia con il Pd, da una palestra
Alle prossime elezioni, lo sappiamo, la figura del candidato premier esisterà solo a metà (con un sistema proporzionale il candidato premier uscirà fuori sempre più dal cilindro del presidente della Repubblica e sempre meno da quello degli elettori) e ogni partito e ogni movimento è consapevole che per avere speranze di vincere le elezioni o quantomeno di non perderle ha bisogno di puntare più sulla sua squadra che sul volto che rappresenta la squadra. In altre parole: sulla sua classe dirigente. Ma chi è oggi che, ancora prima dei front runner, rappresenta davvero, con tutte le sue ramificazioni, le sue reti di relazioni, la classe dirigente del centrodestra, del centrosinistra e del movimento 5 stelle? Abbiamo indagato un po’, abbiamo messo insieme alcuni puntini e ne è venuta fuori un’inchiesta in tre puntate. Si comincia con il Pd, si va avanti con il centrodestra, si arriva al grillismo.
Business e internet. Federico Marchetti e Nerio Alessandri rappresentano ciò che poteva essere il renzismo e che può tornare a essere
Le storie di Giorgio Gori e Achille Passoni, la società civile in movimento (e valorizzata) e poi quella misteriosamente ignorata
Sul versante musicarello il renzismo – racconterà l’antropologo – si allietava invece con Jovanotti, ovvero l’immanenza della politica italiana. Jovanotti vive a New York ma resta un ragazzo romano, anzi vaticano. Figlio di un funzionario della Santa Sede, è il rocker democristiano che piace a tutti i cinquantenni che piacciono, e che lo deprecavano quando era un rapper. Lui è bravissimo ad amministrare la sua vita pubblica e privata da eterno ragazzo fortunato, firma contratti milionari ma attraversa l’Islanda in bici e rimane il ragazzo “semplisce” che gioca a carte coi vecchi di Cortona. Si sposa in chiesa, non si separa, passa sopra le disavventure coniugali: è il Gianni Morandi della sua generazione. Pensa positivo, passa da Gandhi a San Patrignano, mescola alto e basso, De André e Mogol e la dance, con una spruzzata di sinistra. E’ il cantautore del compromesso storico. “Sex no drug & rock and roll”, è il rocker che non si è mai fatto una canna. Renziano della prima ora, ha alleggerito negli ultimi anni l’appoggio ma senza scaricarlo come altri renziani tendenza show business come Lapo Elkann (“Non è un Macron, è un micron”) o Pif (che all’ultima Leopolda non è andato) o Fabio Volo (che si è alzato e se n’è andato da una presentazione del suo libro a cui era presente anche Renzi).
Farinetti sa allargare la coalizione, tiene tutto insieme, apre al centro (tavola) e il suo salotto è lo specchio di un progetto
A quell’incontro c’era anche Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, la socialgastrocrazia. Farinetti incarna il renzismo alimentare, l’ottimismo glicemico del Pd. E’ il salotto buono italiano, dove, se alcune banche sono bollite, è rimasto solo l’angolo cottura. Tra gli azionisti di Eataly ci sono tutti i nomi ormai dell’agroalimentare, Lavazza, Marzotto, Ferrari quelli dello spumante, Ferrero. Farinetti a differenza di Renzi riesce ad allargare la coalizione, tiene tutto insieme, apre al centro (tavola). Nel suo nuovo parco dei divertimenti di Bologna, il Fico (Fabbrica italiana contadina) riesce a tenere insieme le Coop, l’università, il comune, i fondi di investimento, le mucche e i maialini a chilometri zero. Farinetti è la biodiversità del Pd. Dalla torrefazione del caffè del padre alla catena di elettrodomestici Unieuro ha creato Eataly (ma progetta già un nuovo business misterioso di design naturale), ha cavalcato la grande stagione dell’Expo e gli è piaciuto talmente che se n’è fatto uno tutto per sé. Se ci fosse il Nobel per lo storytelling a Farinetti bisognerebbe subito darglielo, solo lui poteva concepire un luogo così americano in mezzo alla pianura padana, dove il suo ottimismo commerciante si materializza tra le nebbie di un paese di rosiconi e protestatari. E infatti poi gli americani si stupiscono che Eataly esista “perfino” in Italia.
Un’Italia un po’ americana è quella sognata pure dal candidato del Pd alla regione Lombardia. Un candidato che sembra un’idea di Stefano Accorsi. Quasi sessant’anni ma ne dimostra quaranta, una moglie televisiva, una cognata masterchef, sindaco di una cittadina tranquilla e ricca come Bergamo. Socialista con passione giovanile craxiana, laureato in architettura, giornalista, assistente di Carlo Freccero, e poi produttore del Grande Fratello. Frondista antiberlusconiano in Mediaset (nel senso di contrario alla discesa in campo), si è portato dietro per sempre la nomea “raffinata testa d’uovo del berlusconismo” secondo Miguel Gotor, inventore di molto immaginario italiano contemporaneo, “Scherzi a Parte”, “Le Iene”, il “Grande Fratello”, quando vende la casa di produzione Magnolia nel 2011 manda un sms a Renzi allora sindaco di Firenze e offre la sua testa d’uovo. Comincia ad andare sempre più frequentemente a palazzo Vecchio, dà consigli, arriva di mattina presto, tenta di portare organizzazione bergamasca nel caos renziano.
Non ci riesce e come con tutti i consiglieri di Renzi i rapporti sono altalenanti. Gori è uno stakanovista, lavora dodici ore al giorno, arriva con le sue cartellette e i suoi appunti. E’ capace di passare ore in riunioni pallosissime, si alza prestissimo, con un programma preciso. Con Renzi dunque pare che non si prendano mai. L’amore dura poco. Alla Leopolda 2011 le slide vengono proiettate direttamente dal computer di Gori. Si candida al Senato, perde, rimane umile, ricomincia da Bergamo (claim: “Concreto. Dinamico. Bergamo”). Sindaco di successo. Cortocircuiti: le frequentazioni coi Trussardi-Hunziker, aristocrazia di Bergamo Alta, che abitano nel palazzo di fronte in quella piccola Lubecca orobica. Un capo di gabinetto che si chiama Christophe Sanchez ed è un ex autore di “Scherzi a parte”. Bergamo con lui diventa ancora più concreta e dinamica. Porta il wifi gratis in tutta la città. Motto: “Se una cosa la puoi fare oggi, falla oggi”, e un’ossessione per “la delivery puntuale”. Per conquistare la Lombardia adesso ha lanciato “Gori 100 tappe”, un tour soprattutto nelle zone più disagiate, quella Lombardia “che non vede la politica in faccia”, dove il centrosinistra è storicamente più debole e quindi ha “più margine di crescita e miglioramento”. Punta ad allargare la maggioranza, dialoga con Grasso, e conta sulle liste civiche, replicando il modello vincente che lo portò a Bergamo quando con la sua lista Gori prese il 14 per cento.
Jovanotti e Mazzoncini sono i due poli di un universo che esiste, va veloce, è trasversale ma ancora oggi fatica a dialogare. Ragioni
Forse avrebbe bisogno del “buttadentro”, o del “casco blu”. Soprannomi di Achille Passoni, nome sconosciuto ai più, eppure braccio destro del ministro più cool del governo uscente, Marco Minniti. Passioni rappresenta il “mondo Minniti”, il volto muscolare del governo, che piace a tutti, il ministro dell’Interno che “si muove a suo agio tra divise, tonache, tuniche, turbanti, sultani, generali, frati francescani, tribù del deserto” come ha scritto Marco Damilano sull’Espresso. Piace a tutti, per come ha gestito soprattutto la questione degli sbarchi: a destra, a sinistra, ai Cinquestelle, perfino a Milena Gabanelli (“il mio sostegno a Minniti è totale”) e a Marco Travaglio (“ha deciso di mettere ordine in questo far west. Bravo Minniti”). Passoni è l’eminenza grigia minnitiana. Marito della ministra Valeria Fedeli, per anni è stato responsabile organizzazione della Cgil, l’uomo d’ordine di Cofferati e demiurgo della grandiosa manifestazione pro-articolo 18 del 2002 “ma anche” dell’altrettanto grandioso “Pd Day”, sempre al Circo Massimo a Roma, la volta famosa del predellino di plexiglass di Walter Veltroni che pronunciò la frase forse inconsciamente pre-grillina: “Questo Paese è meglio di chi lo governa”. Il “buttadentro”, come lo ha definito Marianna Rizzini qui sul Foglio, ha avuto un momento di impasse quando, inviato in Sardegna a sedare le faide nel Pd isolano dopo le dimissioni di Renato Soru, ha fallito. Nel 2010, però, con Minniti, firma il cosiddetto “documento Veltroni-Gentiloni”, carta con la quale 75 parlamentari, su impulso dell’attuale presidente del Consiglio e dell’ex segretario Pd, si impegnavano a fare sì che il partito raccogliesse “energie interne ed esterne” al partito, che in quel momento aveva però Pierluigi Bersani come segretario.
Passoni avrebbe dovuto condurre lui lo sfortunato treno del Pd, che mestamente ha sferragliato durante l’autunno 2017. Oppure, come macchinista sarebbe andato bene Renato Mazzoncini, il manager renziano che rappresenta l’Italia del post-alta velocità delle Frecce. L’Ad di Trenitalia, proprietario dell’unica Tesla della sua città natale, Brescia, e di una casa tutta elettrica che non consuma ma addirittura produce energie, è un entusiasta delle tecnologie. L’artefice della fusione tra Trenitalia e Anas sogna un paese tutto cablato e come un grande plastico ferroviario: vorrebbe portare le Frecce anche in Sicilia, con il vecchio sogno del Ponte sullo stretto. Rappresenta la “metropolitana d’Italia”, quel fenomeno la cui intensità si studierà solo tra vent’anni come l’autostrada del Sole, quando nessuno si ricorderà più le lotte per la Tav, ma anzi si penserà con affetto a cos’era l’Italia prima, prima che si facesse il Milano-Roma in due ore e mezzo, e che nascessero fenomeni come il nuovo pendolarismo, la centralità di una città-stato come Milano, e lo svuotamento e trasformazione in città tropicale di Roma (fuga delle professionalità creative, dei giovani, delle grandi aziende, come Mediaset-Sky-Unicredit; accentuazione del carattere di capitale mediorientale). Le Frecce, che Mazzoncini vorrebbe scorporare e quotare a parte, come Marchionne ha fatto con la Ferrari, confermavano con una riuscita tutta italiana e peculiare la teoria dei “cluster”, cavallo di battaglia di Enrico Moretti, l’economista di Berkeley autore della “Nuova geografia del lavoro”, secondo cui le città più avanzate attraggono sempre più talenti, mentre le altre si svuotano e restano come gusci o carapaci vuoti. Renzi lo va a omaggiare ogni volta che vola nella vagheggiata Silicon Valley; dove è andato nel 2014 nel volo di stato e poi più malinconicamente a febbraio scorso in visita privata, e dove minaccia di rifugiarsi un giorno, ma chissà, conclusa la sua esperienza politica.