Chi ruota attorno al Cav.
Nel centrodestra a caccia di vittoria elettorale si cerca una nuova classe dirigente che possa affiancare Berlusconi. Ma nessuno è al sicuro. Nomi e volti
Da Milano, da Milano rinnovata locomotiva italiana e capitale dello stato-Nazione, solo un po’ ammaccata dalla sconfitta per l’Ema, l’agenzia europea del farmaco, partita per altri luoghi, occorre innanzitutto partire per raccontare pezzi di classe dirigente berlusconiana. Milano dell’onda lunga Expo, Milano capolinea dei Frecciarossa, delle fondazioni Prada e Feltrinelli, del rinnovato ruolo di capitale morale (con grande scorno dei romani). Qui qualche giorno fa ha presentato il suo programma (il romano) Stefano Parisi, ex candidato sindaco del centrodestra che non è riuscito a espugnare il capoluogo/capitale pur per poco, pochissimo. Tre lampadine tricolori su sfondo giallo sono il simbolo della formazione di questo personaggio poco italiano, ex socialista, ex ufficio studi Cgil, ex grand commis pubblico, ex direttore generale di Confindustria ed ex amministratore delegato proprio di Fastweb. Un programma liberista, ha esposto, Parisi il romano, partendo dalla flat tax che in queste elezioni 2018 si porta molto. “La parola d’ordine è semplificare e noi partiremo dalla flat tax elaborata dall’Istituto Bruno Leoni” ha detto Parisi, che effettivamente era in prima fila anche quest’anno al cenone organizzato dalla business community turboliberista – tra i gadget della serata, rotoli di carta igienica con falce e martello.
Non si può che partire dalla Milano rinnovata: qui Parisi ha presentato il suo programma liberista e molto berlusconiano
A pensarci bene, Parisi – un tempo delfino del Cav, oggi delfino di se stesso – rappresenta un tipo di imprenditore che in Italia esiste ma che in molti fingono di non vedere ed è un imprenditore che pur riconoscendo le qualità dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi riconosce anche che in un contesto delirante come quello in cui si trova la sinistra l’unica speranza per far crescere ancora l’Italia è quella di combattere non tanto il renzismo quanto il contesto che non ha permesso al renzismo di esprimersi come forse avrebbe potuto: il Pd. Nell’attesa di entrare o non entrare nella quarta gamba, infatti, Parisi il romano ha, milanesemente, annunciato che il 25 per cento della sua Chili Tv, ultima delle sue imprese commerciali, è stata venduta alla famiglia Lavazza, per venticinque milioni di euro. Operazione che non c’entra niente con la discesa in campo, e però segnala ulteriormente che – seppur romano – Parisi è soprattutto uomo che bada al business. E viste le condizioni del Pd non è detto che il business, alle elezioni politiche, segua la stessa strada che ha seguito alle elezioni comunali, quando Beppe Sala riuscì ad avere la meglio, al ballottaggio, proprio su Stefano Parisi.
Non solo Gianni Letta. La novità della
romanità che diventa centrale nella rinascita del berlusconismo
Come essere alternativi a Salvini pur essendo alleati di Salvini?
Il tentativo di arginare
il populismo passa
da una gamba
Simmetrico esistenziale del giovane Bestetti è il “vecchio” Antonio Tajani. Milanesissimo il primo, romanissimo anzi ciociaro il secondo. Antonio Tajani è l’eurociociaro. Già soprannominato “Gioiello” dal Cav. ai tempi in cui correva per il Campidoglio contro Veltroni nel 2001, Antonio Tajani è considerato uno dei nomi di punta del Cav., nella duplice versione che questo comporta, essere appunto “uno dei soliti nomi di punta” come dice al Foglio un osservatore, dunque bruciabile “à la carte” in uno degli sport favoriti da Berlusconi, e specchietto delle allodole. Ma anche candidato reale. “Se per Berlusconi non arriverà la candidabilità, e il Cav. intende puntare su un profilo internazionale, di nomi ce ne sono soltanto due, Tajani e Frattini”. Il personaggio Tajani, simbolo di una classe dirigente berlusconiana diventata improvvisamente presentabile anche agli occhi di chi un tempo mai avrebbe accettato di considerarla presentabile, è interessante: già reporter al Gr1 e con Indro Montanelli al Giornale, già ragazzo della Roma-bene (liceo Tasso), con simpatie monarchiche e loden, già coordinatore di Forza Italia nel Lazio ai tempi gloriosi del 1994, già portavoce del Berlusconi I ai tempi gloriosissimi.
Non fu mai eletto in patria (mancata l’elezione alla Camera in quell’anno, mancata soprattutto quella al Campidoglio contro Veltroni nel 2001, pur con il 47,8 per cento dei voti). Gli si spalancò dunque dinnanzi l’esilio e il classico “promoveatur ut amoveatur”, tra Bruxelles e Strasburgo, dove invece che scomparire e soccombere si è ricreato un personaggio molto più sofisticato del precedente, e anche un certo grigiore è stato mitigato non solo dalle camicie a righe assai spesse, che ne fanno un Angelo Bucarelli versione diplomatica, ma anche dalla pratica delle ambasciate, delle cancellerie, del prestigioso estero. E’ “cresciuto molto”, e “mantenendo il genius loci delle origini”, cioè il feudo ciociaro già storica riserva andreottiana, dicono degli esperti al Foglio. “Dall’Europa”, inteso come luogo metafisico, torna solo a Fiuggi, Ciociaria, per le convention del suo movimento “L’Italia e l’Europa che vogliamo”. E’ stimato da Gianni Letta e odiatissimo da Matteo Salvini, che naturalmente gli imputa l’europeismo efficiente e andreottiano (sul suo sito campeggia il claim “La nostra vocazione all’apertura, allo scambio, ha radici profonde. La nostra storia comincia sulle isole, in riva al mare, lungo i fiumi”). Lui naturalmente smentisce ogni discesa in campo: in un’intervista al Mattino di mercoledì scorso ha detto che non si candiderà e che il suo posto “è in Europa”. Il che pare una splendida conferma. Il candidato per Palazzo Chigi, per il Cav., è lui, ma ovviamente non si può dire. Almeno fino al 4 marzo.
Gli uomini azienda che il Cav. vuole in Parlamento e gli uomini simboli di aziende che potrebbero rottamare il passato della destra
Negli ultimi giorni si rincorrono infatti le voci più disparate, come quella riportata dalla Stampa e da Dagospia per cui ci sarebbe pronta un’infornata di direttori pronti ad andare in Senato, e in particolare quello del Tg5 Clemente Mimun (sostituito da Augusto Minzolini o dall’attuale direttore di Panorama Giorgio Mulé). Ma da Mediaset fonti commentano col Foglio che “quelle su una candidatura di Mimun sono voci che girano da vent’anni. Clemente è simbolo di stabilità al Tg5, qui da dieci anni esatti, e sarebbe follia che lui si spostasse proprio ora in campagna elettorale”. Mimun rappresenta insomma l’aziendalismo buono di Mediaset (che per questo Berlusconi vorrebbe in Parlamento). Un rapporto solido e diretto col Cav., “è l’unico direttore ad aver diretto tre telegiornali, il Tg1, il Tg2 e il Tg5”. Mimun è tra le altre cose il creatore dell’arricchimento del Tg2 con tutti i supplementi – Costume e società, Eat parade, Salute, e poi inventore del “panino”, quella tecnica che prevedeva nei servizi politici “il ruolo del pane e quello del companatico assegnati in partenza: la prima fetta di pane spetta al governo, in mezzo c’è la fettina di mortadella dell’opposizione (che in genere ‘protesta’, ‘attacca’, ‘contesta’ o si produce in altre attività negative) e poi arriva, puntualmente, la seconda fetta di pane, quella della maggioranza”.
Questa la ricetta secondo Sebastiano Messina che ne scrisse su Repubblica. Ricetta innovativa, diversa dal “pastone”, formula antica che “risale alla preistoria dei nostri telegiornali” e prevedeva lo “sminuzzare, cuocere e servire le opinioni di quindici partiti in un minuto”. Non era ancora arrivato Masterchef. Mimun è amato dal Cav. ma non è l’unico giornalista che Berlusconi vorrebbe in Parlamento. Da mesi il Cav. tenta di convincere Alessandro Sallusti a scendere in campo ma il direttore del Giornale per il momento non ci pensa. L’establishment con cui Berlusconi si presenterà alle elezioni è vario e ampio ma per capire tutte le sue ramificazioni occorre partire da qui. Uomini azienda fedeli al Cav. E uomini di aziende che non avrebbero mai pensato di ritrovarsi in sintonia con l’unica vera forza di governo alternativa al Pd. C’è una classe dirigente che scalpita. E chissà se Berlusconi avrà davvero il coraggio di permettere fino in fondo ai nuovi volti di governo di rottamare i vecchi volti della sua classe dirigente. Chissà.