Il sindaco di Mantova spiega come nasce un linciaggio senza prove
Parla Mattia Palazzi, travolto da false accuse di “pressioni sessuali”: “Fango facile, così nessuno vuole più fare politica”
Roma. Richiesta di archiviazione. Punto. Tre parole che mettono fine al cosiddetto, fulmineo caso Mantova, un giallo d’inverno con piccoli misteri appena velati dalla nebbia della Bassa, ma anche un esempio di gogna preventiva su sfondo di presunte pressioni sessuali, con suggestione e automatismo mediatico sulla scia della parola “molestie” e dei casi Weinstein e Brizzi. E il caso Mantova, oggi, si mostra in tutta la sua assurdità di testacoda presunta vittima-presunto carnefice, con il presunto carnefice che si trasforma in vittima, e la presunta prova che si scopre essere una non-prova (in quanto manomessa).
I fatti sono noti: il sindaco quarantenne di Mantova, Mattia Palazzi, esponente del Pd, a fine novembre viene indagato per tentata concussione continuata, con l’accusa di aver chiesto favori sessuali alla rappresentante di un’associazione culturale in cambio di un contributo economico da parte del Comune. I giornali titolano immediatamente “chat a sfondo sessuale durata un anno”, ma le stranezze suddette, coperte a malapena dalla grancassa sul presunto colpevole, trasformato preventivamente in mostro, sono già tutte lì: c’è la presunta vittima che dal primo giorno dice di non essere stata lei a sporgere denuncia, e anzi si dichiara pronta a difendere l’accusato. C’è il contributo economico del Comune che non viene erogato (soltanto di patrocinio si tratta, infatti, peraltro neppure usato). C’è il capo (capa) della vittima che riceve dalla vittima la chat tra lei e il sindaco. C’è la chat che arriva in altre mani e, come ha raccontato Michele Masneri, provoca per così dire l’intervento “moralizzatore” (via esposto) di un avversario politico di Palazzi (nonché “massone storico” della città: il consigliere di Forza Italia Giuliano Longfils, già noto per aver fatto dimettere un sindaco in passato). Un mese dopo, il ribaltamento: si scopre che la chat era stata “alterata” dalla presunta vittima Elisa Nizzoli (ora indagata per il reato di false informazioni al pm) che sul Corriere della Sera confessa di “essere stata una stupida”, di essere “molto dispiaciuta” e di aver agito con leggerezza forse “per gioco”, forse “per vanteria”. E in questo apparente cadere dalle nuvole sta già in parte la chiave. Tutto finito, se la richiesta di archiviazione verrà accolta? In teoria sì. Ma se la manomissione della chat privata (in cui non c’era in realtà alcuna “pressione in cambio di favori sessuali”) è un caso-limite, è anche vero che il caso-limite è diventato, proprio per la sua assurdità, caso-simbolo della pigrizia con cui spesso si applica la categoria “molestie” a situazioni quantomeno dubbie – e magari a indagini neanche iniziate – e dello scivolamento collettivo nel tic di giudizio superficiale (della serie: “Se è indagato qualcosa dovrà pure aver fatto”).
Ma che cosa pensa e che cosa ha pensato il protagonista della vicenda? Dice il sindaco Palazzi che “la condanna a mezzo stampa” l’ha sentita arrivare subito, e che “il consigliere comunale che ha presentato l’esposto, anche se l’ha presentato in forma dubitativa – ‘qualora fosse vero… potrebbe configurasi un reato ‘ – non poteva non aver calcolato l’effetto mediatico che poi in effetti ha avuto. La molla politica di quell’azione a me pare quindi evidente, com’è parsa evidente anche ad alcuni commentatori, per esempio al direttore del Tg di La7, Enrico Mentana. Io, come ho detto, continuo a pensare che gli avversari politici si sconfiggano alle elezioni, non con il fango. Ma forse te ne rendi conto davvero quando ci sei in mezzo, quando il fango arriva a te. Prima forse anche io ero portato a leggere vicende simili con distacco e distrazione”. Ex post, dice Palazzi, “vedi tutte le distorsioni, e sono distorsioni gravi: il fatto che si possano pubblicare atti coperti da segreto d’indagine – e non basta trincerarsi dietro alla frase ‘il diritto di cronaca è sacrosanto’. O il fatto che la mannaia mediatica cali sulla testa dell’indagato, per mezzo di titoli cubitali su cose false, non soltanto prima che questi possa dimostrare di essere innocente, ma addirittura prima che giunga all’interrogatorio. E allora dopo questa vicenda io mi domando: che cosa stiamo facendo per evitare alla radice che un metodo malato diventi inesorabile prassi in un sistema dove sembra non esserci più neanche il rispetto della persona, per giunta a monte della fase processuale?”.
Forse ha influito, nella vicenda Palazzi, l’eco dei vari casi di molestie vere o presunte nel mondo dello spettacolo. E in questo caso, dove il confine privato-pubblico era netto, si è dato per scontato una (inesistente) forzatura di ruolo pubblico, fino alla “character assassination” preventiva. “Io ho vissuto come una violenza la supposizione senza approfondimento sul mio conto”, dice Palazzi, “e la cosa mi ha fatto pensare più in generale al fatto che queste condanne collettive sommarie contengono in sé un germe di frustrazione e insoddisfazione che porta a rincarare la dose nel dare addosso al personaggio pubblico indagato. Però una cosa mi ha colpito: in rete mi aspettavo ovunque insulti su insulti, libero sfogo di improperi. Invece, nei commenti online che ho letto sulla stampa locale e sulla mia pagina Facebook, sorprendentemente, non c’è stato il fiume di qualunquismo e rabbia che mi aspettavo. E’ stato allora che ho pensato: beh forse la realtà – il “come” viene governata la città, per esempio – è più forte. La percezione che ho avuto è che più ti avvicini al contesto in cui il fatto avviene, meno il piacere contagioso della condanna astratta prende piede”. E ora il sindaco Palazzi, oltre “a continuare a fare il sindaco”, vista la “celerità e serietà del lavoro della Procura”, vorrebbe dare un contributo “alla riflessione sul ricorso facile alla gogna come metodo di battaglia politica: non deve più passare l’idea che basti un esposto per buttare giù l’avversario o arriverà un momento in cui quasi nessuno vorrà più fare il sindaco o vorrà farlo soltanto chi non ha nulla da perdere, magari perché non ha un lavoro, oppure chi ha indole da avventuriero spregiudicato. Si rischia che sempre meno persone con passione politica si sentano disposte a lavorare 15/16 ore al giorno, quasi mai guadagnando una fortuna, ma rischiando magari di vedersi recapitare il titolo che può provocare la devastazione pubblica e privata, a prescindere dalle indagini. Il problema esiste, ed è prima tutto un problema di civiltà”.