Iniziano le bordate da sinistra contro Grasso
Gli esordi del presidente del Senato e leader di Liberi e Uguali sono facilmente dimenticabili. Caldarola, stufo, dice che è come Renzi. Visco ironizza sulle tasse
Roma. Pietro Grasso, male la prima. Gli esordi del presidente del Senato e leader di Liberi e Uguali sono facilmente dimenticabili. Non tanto per le critiche degli avversari – quelle sono scontate – ma per le bordate che arrivano dall’interno. Dai dalemiani, come Peppino Caldarola, direttore della rivista ItalianiEuropei, che ha dedicato la sua rubrica di venerdì scorso su lettera43.it alle “inquietanti analogie tra il metodo Grasso e il metodo Renzi”.
Caldarola, ex direttore dell’Unità, che in un’intervista al Foglio a dicembre aveva già espresso tutte le sue perplessità per la scelta di un giudice alla guida di un cartello o partito o movimento di sinistra, va subito al punto: l’indicazione di Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente, come coordinatrice della campagna elettorale di LeU e candidata al Parlamento, è discutibile. “Il presidente, che si trova al vertice di LeU senza un voto che lo legittimi, in quale sede democratica, cioè con quale metodo, ha indicato nella signora Rossella leader del partito in associazione con lui? Non è una questione da poco”, scrive Caldarola. “Molta parte delle sacrosante ragioni della scissione dal Pd nacquero per una asfittica vita democratica in quel partito che Matteo Renzi dirigeva con i suoi amici. Era un metodo. Lo è anche per Grasso? E i compagni di battaglia di Grasso, i cosiddetti ‘tre ragazzi’, come vengono chiamati, o i vecchi elefanti, per dire di altri, nulla hanno da dire?”. D’altronde, al segretario del Pd gli avversari hanno sempre rinfacciato la gestione personalistica, amicale, del partito, con il famoso Giglio magico a spadroneggiare. Adesso, si chiede Caldarola, che cosa vuol fare Liberi e Uguali, ricominciare daccapo? Il direttore non ne fa una questione personale, aggiunge di non conoscere neanche Muroni. Il punto è il metodo adottato, il punto insomma è tutto politico. E già Grasso, appunto, non gli piace molto (“Avere come capo politico della sinistra un magistrato – aveva detto al Foglio a inizio dicembre – mi fa venire l’orticaria, perché c’è ancora da smaltire tutto un pregresso, cioè l’accusa di giustizialismo che pende sulla sinistra ex comunista. Un’accusa abbastanza fondata”), figurarsi adesso che scorge le “inquietanti analogie” tra Grasso e Renzi.
L’accusa di Caldarola è circoscritta: il presidente del Senato è pronto a fare una brutta copia del Giglio magico renziano. Una critica non da poco, specie se viene dall’interno. La domanda finale del post è infatti precisa, anzi, “maliziosa”, come la definisce lo stesso Caldarola. Perché Grasso “vuole una quota di parlamentari a lui legati? Un micro-gruppo in un gruppo non ampio fa venire cattivi pensieri”. Non va molto meglio altrove. All’assemblea di LeU all’Ergife, Grasso si è lanciato nella proposta di abolizione delle tasse universitarie. Misura che costerebbe 1,6 miliardi: “E’ un decimo dei 16 miliardi che ci costa lo spreco di sussidi dannosi all’ambiente, secondo i dati del ministero dell’ambiente”, spiega. Anche qui, le polemiche sono molte. Da “destra”, Luigi Marattin, renziano, consigliere economico della presidenza del Consiglio, dice che “quella che sembra una proposta di sinistra, è in realtà una proposta di destra. Perché? Poiché una buona parte di coloro che pagano l’Irpef hanno un reddito basso e non ricevono servizi universitari, scegliere di far finanziare gli Atenei interamente dalla fiscalità generale si traduce in un trasferimento di circa 2,5 miliardi dai ‘più poveri’ ai ‘più ricchi’. Non propriamente una misura di sinistra, tantomeno ‘dura e pura’”. Ma anche da sinistra, e qui è la notizia, arrivano critiche. “Abolire le tasse universitarie – dice Vincenzo Visco, ex ministro del Tesoro, nonché uno dei padrini di LeU – penso sia una metafora per dire che c’è diritto allo studio e borse di studio. D’altra parte da noi sono così basse che non è che abolendole succeda molto. E’ un segnale importante ma è chiaro che è un tema marginale”. La prima proposta di Grasso è insomma stata demolita in poche righe. Non va meglio con la lettera, pubblicata ieri da Repubblica, con cui il presidente del Senato ha replicato alle accuse di Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd, di non aver versato 83.250 euro al suo vecchio partito. Il comportamento di Bonifazi, che “se n’è accorto solo dopo cinque anni”, solo nel giorno in cui annunciava di aderire a Liberi e uguali, è “penoso”, dice Emanuele Macaluso, per non dire “miserevole”. Detto questo però l’argomento usato da Grasso appare debole: “Non sembra opportuno che il presidente del Senato sostenga con soldi pubblici l’attività di un partito, così come per prassi centenaria non è chiamato a dare con il voto alcun contributo politico”, ha scritto il magistrato. “Francamente – dice Macaluso – questo argomento di Grasso, stavolta non regge. La sua indennità parlamentare non c’entra nulla con il suo ruolo imparziale di presidente del Senato. Ingrao e Nilde Jotti furono presidenti irreprensibili e il loro comportamento fu sempre elogiato da tutti i gruppi. Ma versavano al partito più di tutti in quanto ricevevano anche una indennità presidenziale. La verità è che da tempo siamo in un altro mondo politico e le persone che in questi anni hanno fatto politica operano proprio in questo mondo. Che, a mio avviso, non cambierà facilmente”.