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Immigrati, sicurezza, lavoro. Gori spiega il riformismo di razza Pd

Maurizio Crippa

Una Lombardia aperta che si deve misurare con l’Europa, non con l’Italia che va male. La “fotografia” di una squadra che c’è e che sa governare. Niente paura delle larghe intese, “ma un premier di sinistra farebbe meglio”

E il Pd di che razza è? Non pizzicherete Giorgio Gori a polemizzare al ribasso sulle sguaiatezze di giornata del suo rivale, Attilio Fontana. Lo liquida così: “Tutti lo dipingono come un moderato, ma basta aver letto le sue dichiarazioni passate su destra, unioni civili, immigrazione e altro per capire che è un Salvini con la cravatta”. Ma Giorgio Gori è noto per essere “uno preparato” (“l’ansia di non essere pronto me la porto dalla scuola, mi documento sempre”) perciò prende la domanda dalla parte seria: “Il Pd è il frutto di tante storie, anche diverse, che insieme hanno prodotto un partito di massa della sinistra riformista ed europea che non ha eguali. Da questo punto di vista, anche la scissione di qualche mese fa in fondo è servita a fare chiarezza”. E con questo abbiamo liquidato anche il tema dei Liberi e uguali, che in Lombardia correranno da soli e contro il Pd e il suo candidato. “Io continuerò fino al 4 marzo a rivolgermi ai loro possibili elettori. Perché sono convinto che sono più le cose che li avvicinano al programma della sinistra che rappresento (compreso il listino del presidente, saranno sette le liste che lo sosterranno nella corsa per la regione, ndr) che non le divisioni del gioco politico. C’è molto tafazzismo. A parte che la Lega le sembra unita?”.

 

Ed eccoci al cuore della sfida. Lei si è proposto con un claim, “Fare, meglio”, di buon impatto, ma che allo stesso tempo sembra ammettere che tutto male non va, in Lombardia. C’è il rischio (per voi) che sia anche l’opinione media dell’elettore lombardo. E’ la difficoltà che la sinistra ha sempre scontato al nord, e ultimamente sta scontando a livello nazionale: non riuscire a comunicare di poter fare davvero “meglio” degli altri. perciò, a parte la “competenza” contro gli sfascisti, qual è l’idea forte che il centrosinistra può mettere in campo, in Lombardia e in prospettiva nazionale? Lei parla di “apertura”, di Lombardia come sistema aperto contro la “chiusura” del forzaleghismo. Non è un messaggio semplice da far passare: il “modello Lombardia” va di moda. “Bisogna dire le cose come stanno, oltre che dirle bene. Io ripeto sempre: se stiamo qui a misurarci con la Sicilia, o altre regioni male amministrate, possiamo anche crogiolarci in una classifica al ribasso. Ma se invece ci confrontiamo con le regioni europee che sono i nostri riferimenti, o competitori, come l’area di Stoccarda, la Baviera, scopriamo che primi in classifica non lo siamo, anzi. Sull’innovazione, la dispersione scolastica, l’accesso delle donne al lavoro (10 punti in meno), l’assistenza alle fragilità, agli anziani”.

 

Incalza Gori: “Il centrodestra per molti anni ha trascurato questi problemi. Ma noi dobbiamo correre da regione europea, e c’è da correre. Il messaggio ‘“’fare, meglio’, oltre a rispecchiare completamente la mia formazione, la mia idea di riformismo che è diversa da quella della sinistra tradizionale, è un messaggio concreto: si può e si deve fare meglio rispetto al racconto che viene fatto da destra. Del resto basta parlare con le aziende, i consorzi, le realtà territoriali per sentirsi dire quel che non funziona della Regione di Maroni. Basta guardare gli indicatori di efficienza dell’amministrazione che sono peggiorati negli anni”. L’idea forte di questa sinistra, allora, qual è? “Unire la crescita e l’integrazione. Sia per quanto riguarda certe aree che, pur nella dinamica Lombardia, sono state lasciate indietro, come il Sud agricolo. E poi l’integrazione delle persone, dei diritti. Faccio solo l’esempio della difficoltà che hanno ancora i figli della classi popolari ad accedere all’università. Serve un’equità dei punti di partenza. Dobbiamo essere la regione delle opportunità”.

 

 

C’è il problema di sinistra di farsi percepire come una forza propulsiva. Al Nord è un classico, ma ultimamente anche a livello nazionale. “No, non credo. Certo, qui la sinistra per lunghi anni ha perso perché era incapace di comprendere l’economia, il lavoro autonomo, la piccola impresa. Ma quella stagione è finita da molto. Si vede a Milano, si è visto nei molti capoluoghi che abbiamo conquistato – compresa Bergamo, ovviamente. Si è visto soprattutto alle Europee, quando il Pd ha avuto il 40 per cento dei consensi. Quando si presenta come una forza seriamente riformista, funziona”. C’è il problema di far percepire Lombardia come buon modello di sinistra riformista. Domenica mattina a Milano lei, Beppe Sala, Matteo Renzi e Carlo Calenda ci avete provato, pur nella diversità di idee. Come è andata? “Solo il fatto di aver messo insieme Renzi e Calenda, valeva il biglietto. Calenda ha un forte seguito in regione, proprio nel mondo economico e più dinamico che riconosce i frutti del suo lavoro. E’ questo riformismo che dobbiamo sostenere”. Prospettiva nazionale. Se, putacaso, il Pd di Renzi dovesse andare male, che cosa resta di questo modello, di questo riformismo? C’è chi paventa l’implosione. “Lo escludo. E l’incontro di domenica lo ha dimostrato. Proprio stamattina volevo mandare un messaggio a Renzi, mentre viaggiavo verso Milano: ‘Fai una fotografia di quello che c’è’. C’è una classe dirigente – buona e che sta lavorando bene – che è una squadra. C’è Renzi, Gentiloni, Minniti, Delrio, lo stesso Calenda. Sono la squadra del Pd, che sa governare. Inoltre, sono convinto che da qui al 4 marzo la coalizione di sinistra – e ci metto anche la Lorenzin e +Europa che in Lombardia è con noi, è destinata a crescere. Di fronte all’over-promising della destra, e peggio del M5s, le nostre idee, la competenza, convinceranno molti elettori”.

 

Peccato che, qui al Nord ma non solo, si voterà soprattutto su immigrazione e sicurezza, i temi della paura. “Ma noi non andiamo assolutamente sulla difensiva. Bisogna spiegare agli elettori che l’immigrazione è stata gestita male, o non gestita, proprio da chi ha governato qui. E non ha fatto nulla per l’integrazione, per insegnare l’italiano, per l’inserimento in un mondo del lavoro che invece richiede proprio forza lavoro. Sulla sicurezza, idem: sulla polizia locale, sul controllo del territorio, sono state dette parole e fatto poco, speso poco”. Poi c’è il lavoro. “Uno dei miei slogan è: ‘Tre priorità: lavoro, lavoro, lavoro’. Vuol dire potenziare il sistema dell’istruzione professionale, che è competenza regionale, e il welfare. Il basso accesso delle donne nel lavoro è anche causato dal poco che si è fatto per gli asili nido e per il sostegno dei malati: finisce che sono spesso le donne a rinunciare al lavoro per curarsi dei figli, degli anziani. Oppure l’innovazione: non è solo questione di lanciare start up, il problema è come sostenere il second step, il credito d’impresa. Bisogna far dialogare meglio il finanziatore privato e il pubblico”. Lei tempo fa aveva parlato bene del “primo” Formigoni, successe un putiferio. Tralasciamo il putiferio, ma in qualche modo significa che alcune cose erano condivisibili, che alcune cose si possono fare insieme. Insomma, il modello larghe intese, a livello nazionale, potrebbe non essere così male. “Veniamo da cinque anni di larghe intese. Ed è stata una legislatura che ha prodotto molto: sull’economia, i diritti, le riforme. Perciò non ne ho paura. Però, se devo sintetizzare: un governo di larghe intese può fare bene, ma un governo di sinistra guidato da un premier del Pd può fare molto meglio”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"