L'sms di D'Alema al Cav.
Sottotesto politico di un’intervista di bolle e balle dalemiane: perdere per vendicarsi, e poi contare
Con questo casino de señoritas uno si beve l’intervista di Massimo D’Alema a Aldo Cazzullo con gusto. Disseminata di bolle e balle, dissimulazioni più o meno sottili, trappole, doppi sensi, è però un testo politico, ha quel sapore e quell’intelligibilità. Il sottotesto racconta un ex tutto, che si ripresenta all’appuntamento come deputato locale, ah sì “locale”, in una formazione insensata, con un capo putativo lugubre e insensato, e naturalmente si ripresenta per fare i conti con chi lo ha cacciato, al quale si rivolge, per infilzarlo meglio, con un motto morettiano alla rovescia, “non facciamoci del male”. Il succo sarebbe, salvo correzioni elettoralistiche a venire, piantiamola con lo psicodramma a sinistra, lo spettacolo è tutto per i casinisti di Grillo e per Berlusconi, il circo è la loro seconda pelle, con la variante becera dell’orso Salvini; noi che facciamo della politica un onorato mestiere procediamo, occupiamoci del 5 marzo, è chiaro che sarà necessario un governo del presidente per rifare la legge elettorale, una novità, e per guidare la ripresa del paese, nella relativa stabilità possibile, con una serie di cose da fare intorno a cui aggregare una maggioranza da governo del chi ci sta ci sta.
Il corbinismo non si addice a D’Alema, che alla malattia infantile, per quanto redditizia in certe fasi, preferisce un tocco di senile vanità, lo si sa anche se egli lo nega con risolutezza trumpesca, poverino, vittima di fake news in serie. Fatto sta che l’idea di lasciare il circo e la sua arena elettorale agli orsi ammaestrati e ricondurre a responsabilità e serietà la baracca elettorale, compito quasi impossibile, non sarebbe male. E comunque certi indizi, tra cui la paternalistica maniera che ha Berlusconi di trattare il centravanti di sfondamento e futuro ministro dell’Interno dal quale, salvo improbabile vittoria con premio, sarà destinato presto a separarsi, all’indomani del voto, dicono che lo schema D’Alema non è nuovo ma si presenta adesso come paranazarenico, naturalmente con la riserva del ridimensionamento di Renzi e della sua relazione speciale di rottamatore a sinistra, erede delle rottamazioni effettuate dal Cav. da destra nel corso degli anni. Quando D’Alema triangolò, legittimamente, con Berlusconi e Giuliano Amato per il Quirinale, che nelle riservate e spettacolari promesse avrebbe dato una grazia risolutiva (ma col binocolo) a Berlusconi, premiandolo per aver fatto il Nazareno e insediato Renzi per i suoi mille giorni, il problema per il capo della vecchia nomenclatura della sinistra postcomunista era lo stesso di oggi: riprendersi il maltolto. Renzi come si sa non stette al gioco, ma non riuscì a spostare il sei per cento dell’elettorato referendario, che il Cav. gli avrebbe sicuramente portato, dalla parte del pacchetto delle riforme istituzionali. Il complesso mediatico-giudiziario-politico aveva già cominciato a logorarlo nell’opinione nazionale, come era avvenuto con altra spettacolare performance nel caso di Berlusconi, e dopo il tonfo del 4 dicembre 2016 tutto è radicalmente cambiato, e non poteva essere altrimenti.
Una prospettiva identitaria farlocca
Ora D’Alema riparte dalla situazione concreta, con un esercizio di realismo nella sua tradizione politica, e non vuole giocarsi in una prospettiva identitaria farlocca, l’operazione bislacca che ha nome Pietro Grasso, una via d’uscita alla fine attraente: stare dopo il 4 marzo, quali che siano i risultati, dalla parte di chi dà le carte per la governabilità del paese.
Solo un rovesciamento del paradosso per cui il Pd ha governato piuttosto bene ma minaccia di finire alle elezioni piuttosto malino, che a stento sarebbe possibile, stando ai sondaggi e al clima circense che si respira, potrebbe cambiare le cose. Se nessuno vince, probabile, D’Alema lo scaltro vuole che chi sicuramente perde, e fa perdere, cioè la sua formazione politica, abbia voce in capitolo il 5 di marzo. Fallo scemo.