Berlusconi, il ritorno. Ecco perché i suoi elettori vanno presi sul serio
Dal 1994 a oggi, c’è un motivo se gli italiani hanno scelto ripetutamente di votare per un “populista plutocratico”
Con i sondaggi politico-elettorali che circolano nelle ultime settimane, molti analisti tornano a darsi di gomito e ad avvertirci: “Silvio Berlusconi ancora una volta va preso sul serio”. Ci sarebbe un po’ meno “effetto-sorpresa” se gli stessi analisti avessero preso sul serio – e per tempo – il tipico elettore berlusconiano. E’ quello che tenterò di fare in questa sede. Partendo da una domanda: perché gli elettori nelle democrazie mature, a volte, optano per quelli che all’estero sono chiamati “populisti plutocratici”?
Una possibile risposta è la seguente: perché gli elettori sono immorali o stupidi, oppure entrambe le cose allo stesso tempo. Questa risposta è decisamente soddisfacente per coloro che hanno costruito la propria identità politica in radicale opposizione con gli slogan populisti. Ed è stata ripetuta infinite volte da politici e intellettuali progressisti nell’Italia di Berlusconi. Come pure è implicita nell’ormai celebre espressione “deplorevoli” usata in modo denigratorio dall’ex candidata democratica alla Casa Bianca, Hillary Clinton. Per quanto tale approccio possa essere soddisfacente in termini di politica identitaria, però, una risposta così piena di pregiudizi potrebbe essere confermata dalla ricerca empirica ma anche smentita. Nell’ipotesi tale risposta fosse errata, o anche solo parziale, essa potrebbe comportare la rovina di coloro che sfidano elettoralmente i populisti. E’ difficile per esempio dubitare del fatto che la riconosciuta incapacità degli oppositori di Berlusconi di comprendere lui e i suoi elettori spieghi tanta parte dei ripetuti successi elettorali del tycoon italiano.
Mettere da parte i nostri pregiudizi, comprendere le ragioni di coloro che votano per i populisti plutocratici, sforzarsi di guardare al mondo dal loro punto di vista, ecco cosa è necessario fare per tentare di trovare una risposta alla domanda da cui siamo partiti. Oltre che per accrescere – per chi lo desidera – le possibilità di sconfiggere i populisti nelle urne. Le mie considerazioni sono basate essenzialmente sul caso italiano che ho studiato e approfondito nel libro “Il berlusconismo nella storia d’Italia”. D’altra parte molto di ciò che è accaduto in Italia e che aiuta a capire il fenomeno Berlusconi non è appannaggio soltanto del nostro Paese. La delegittimazione del “politico” come campo specifico e autonomo dell’azione umana, con le sue regole specifiche e con l’altrettanto specifica necessità di personale che alla politica sia dedicato. L’“invasione”, all’interno del campo politico, da parte di princìpi e persone che provengono dalle aziende private, dalle tecnocrazie pubbliche e dal settore giudiziario. La relazione cangiante tra politica e tempo. L’importanza crescente del cleavage orizzontale fra popolo ed élite e il rilievo sempre minore del cleavage verticale tra sinistra e destra. La crescente rilevanza politica delle emozioni. Il divorzio fra potere e responsabilità che trasforma i politici in capri espiatori perfetti, destinati a essere incolpati di problemi che non hanno più la possibilità concreta di risolvere. L’Italia, nel complesso, è particolarmente interessante perché ha anticipato e mostrato su ampia scala tutte le caratteristiche elencate sopra, che oggi possono però essere osservate pure in tutte le altre democrazie.
Il ruolo di Tangentopoli
Il Berlusconi politico è figlio di un imponente terremoto politico avvenuto in Italia nel 1992-93. Quella fase politica è troppo complessa per essere trattata in maniera esauriente, mi limiterò dunque a quattro brevi cenni.
L’ondata di indagini e processi giudiziari per finanziamento illegale dei partiti e corruzione politica che è iniziata a crescere nel febbraio 1992, e che in meno di due anni ha demolito i cinque partiti allora al Governo, ha mandato in frantumi la credibilità dei politici professionisti come garanti del bene pubblico. Gli italiani inoltre, fondandosi su una antica e tradizionale divisione fra “paese reale” e “paese legale”, sono rapidamente arrivati alla conclusione che la politica è sempre e comunque autoreferenziale e che i politici sono sempre e comunque egoisti. Inoltre, visto che le classi politiche italiane si sono spesso presentate – con più di un tocco di arroganza – come insegnanti e civilizzatori di un Paese arretrato, agli italiani tutto sommato non è dispiaciuto poter trovare delle ragioni per criticarle.
Anche se l’élite di governo spazzata via nel 1992-93 ha avuto sicuramente delle responsabilità, essa ha sempre goduto di una legittimazione democratica piena: ancora nell’aprile del 1992, più del 50% degli italiani ha votato per quei partiti alle elezioni politiche. Lo tsunami emotivo che si è abbattuto su questa élite all’inizio degli anni 90, dunque, non è stato completamente giustificato. La tesi secondo cui gli italiani si sarebbero giustamente ribellati contro una classe di governo corrotta e distante per fare pulizia nella politica è da considerare, anche perché molti attori di allora interpretarono la situazione in quel modo. Ma come interpretazione storiografica, essa è troppo semplicistica. Gli italiani erano in cerca di un capro espiatorio, non volevano essere ritenuti responsabili per gli errori passati – inclusi quelli che erano alla base dell’espansione eccezionale del debito pubblico – e quindi erano in cerca di una via d’uscita rapida e indolore. Si illusero dunque che, sacrificando il mitico capro, tutto sarebbe andato bene.
Dalla fine degli anni 70 e attraverso gli anni 80, la competizione politica ha fatto sì che i politici stessi contribuissero alla propria delegittimazione collettiva e quindi alla propria immolazione. Gli attori politici continuavano a occupare i posti più in vista del cosiddetto Palazzo, mentre allo stesso tempo perdevano gradualmente il controllo – spesso in conseguenza di proprie iniziative – delle leve del potere, incluse quelle che governavano la spesa pubblica. Gli stessi politici hanno diffuso e alimentato il mito della “società civile” che, ribaltando un approccio tradizionale, sosteneva che un “paese legale” inefficiente e corrotto impediva al “paese reale” virtuoso e progressista di fiorire in tutte le sue potenzialità. I politici hanno dunque delegittimato le istituzioni pubbliche, sostenendo che esse dovessero essere radicalmente riformate ma fallendo subito dopo nel riformarle. Hanno argomentato che la vita pubblica italiana era attanagliata da una “questione morale”, salvo poi mancare di occuparsene.
Il sacrificio del capro espiatorio politico è stato infine reso possibile dalla convinzione che la politica nazionale non fosse più necessaria. Le decisioni vere erano ormai prese in Bruxelles – si diceva – o da corpi giudiziari e tecnocratici, fossero essi nazionali o sovranazionali. Inoltre il clima psicologico da “fine della storia” dei primi anni 90 è sembrato lasciare poco spazio al disaccordo sulle finalità dell’azione collettiva, e quindi di fatto poco spazio alla discrezionalità politica.
Contenuti e modalità della “discesa in campo”
Berlusconi è stato incredibilmente abile nel raccogliere i frutti di questa situazione. I suoi strumenti plutocratici sono stati certamente una condizione necessaria del suo successo. Il collasso dei partiti di governo infatti aveva svuotato il segmento centrale della politica italiana privandolo di personale, strumenti organizzativi e cultura. Solo qualcuno che a quel punto godesse già di una notevole visibilità e che disponesse di cospicue risorse finanziarie e comunicative avrebbe potuto riempire quel vuoto in pochissimo tempo. Tuttavia il successo di Berlusconi non fu dovuto solo al tentativo di riempire quel vuoto, ma anche alle modalità con cui tentò di riempirlo. Un imprenditore di grande successo, uno degli esponenti più luccicanti della “società civile” italiana (parte di quegli “animal spirits” che le sue televisioni avevano raccontato negli anni 80), che prometteva soluzioni efficaci, rapide e indolori per i problemi del Paese, ipotizzando l’uso di strumenti manageriali più che politici: in questo modo Berlusconi sfruttò a proprio vantaggio la convinzione diffusa che la società italiana fosse virtuosa e che i politici di professione fossero malvagi e destinati perlopiù a sprecare tempo. In quella congiuntura politica, il suo discorso dunque appariva pienamente sensato.
Perché però gli elettori italiani furono così poco attenti a valutare l’altro lato della medaglia? Il rischio di mettere il paese nelle mani di un tycoon, il sospetto non infondato che Berlusconi fosse sceso in campo per difendere i suoi interessi e per aggirare i suoi guai giudiziari. Una parte di questo “lato oscuro”, in effetti, fu vista in una luce del tutto positiva; molti italiani pensarono: “Se egli userà le sue proprie risorse per condurre iniziative politiche, vuol dire che non sprecherà le risorse pubbliche come invece hanno fatto finora i politici di professione”. Un’altra parte di quel “lato oscuro” fu considerata il prezzo da pagare per godere dei benefici del lato più luminoso di Berlusconi: “Se vuoi che il Paese sia guidato da un imprenditore di successo, allora dovrai tollerare i suoi conflitti di interesse. D’altra parte anche i politici di professione erano egoisti e volti ai loro interessi privati, e mancavano pure di qualità manageriali”. Una terza parte di quel “lato oscuro” era così risolta: nel 1992-93 la magistratura aveva assunto un ruolo politico, e la tesi secondo cui anche i guai giudiziari di Berlusconi erano politicamente motivati non sembrava così assurda, anzi.
Questa breve analisi ha omesso ovviamente alcune sfaccettature del fenomeno Berlusconi. I limiti della coalizione di sinistra che a lui si oppose, per esempio, sono stati un fattore cruciale nel suo successo; egli li poté sfruttare grazie a un’aggressiva retorica anti comunista che risultò efficace nonostante il comunismo fosse collassato nel 1989. Berlusconi in un certo senso era sicuramente un populista: perché metteva l’uno contro l’altro “i politici malvagi” e “gli italiani buoni”, perché prometteva soluzioni facili e rapide, così come per il linguaggio e lo stile comunicativo utilizzati. Tuttavia egli non vedeva “il popolo” come una entità chiusa, omogenea (anche dal punto di vista etnico); da figlio degli anni 80 che era, le sue emozioni predominanti non erano la paura e la protezione ma la speranza e l’opportunità; insomma, nel suo armamentario politico c’erano molti aspetti che non possono essere considerati populisti. Infine, ancora oggi, Berlusconi è politicamente vivo e attivo, anche se questa non è la sede per discutere come il fenomeno si sia evoluto nel tempo. Spero però di aver mosso alcuni passi nella direzione di una possibile risposta alla domanda da cui sono partito: perché gli elettori di una democrazia matura come quella italiana hanno scelto ripetutamente di votare per un “populista plutocratico”?
Questo saggio è pubblicato anche su LUISS Open, research magazine dell’Università LUISS (e in lingua inglese su Pro Market, blog dell’Università di Chicago)