Che cosa passa nella testa di Grillo
Con Casaleggio pensava di inoltrarsi nell’utopia come sberleffo, si ritrova una piattaforma Rousseau che è uno sberleffo senza utopia, un programmino elettorale farlocco, liste demenziali di sbandati del clic. Che palle, ha pensato
La storia di Grillo come capo politico è finita. Si lascerà coinvolgere nel Gran Finale delle elezioni con qualche barzelletta sul suo blog personale, qualche comizio a sorpresa, non può ragionevolmente sfilarsi del tutto e qualche sfizio ancora se lo vorrà prendere, ma il vecchio attore comico annoiato, frustrato, che lanciò il mitico “vaffanculo” torna sui suoi passi. Per capire quello che passa nella sua mente, nel suo sentimento della cosa, basta guardare la faccia di Giggino Di Maio, un parvenu tutto azzimato che sfida le élite cercando di assomigliare al loro lato peggiore, incompetenza, volatilità, mezzucci, retromarce, parole al vento, carezze ai mass media corrivi eccetera. Se poi pensate a un Carelli candidato o a un Paragone, giornalisti non proprio di primo livello, personaggetti in cerca d’autore, vi fate un’idea. Con Gianroberto Casaleggio, guru, Grillo pensava di inoltrarsi nell’utopia come sberleffo, ora si ritrova una piattaforma Rousseau che è uno sberleffo senz’accenni di utopia, un programmino elettorale farlocco, liste pressoché demenziali di sbandati del clic, tutta roba prima di tutto parecchio inelegante, una modesta filodrammatica di provincia.
Quando decise di trasformarsi in un cartoon globale per sfuggire alla noia di fine carriera, allo sbigliettamento di botteghino, il talentuoso cabarettista pensava di proiettare su un palcoscenico più vivo il meglio della sua commedia dell’arte, un Paolo Villaggio illusionista a disposizione di masse incazzate, non di quei ragionier Filini e di quei Fracchia che si è ritrovato accanto. Grillo ha sempre saputo che le sue idee casaleggiane su economia, ecologia, democrazia, giustizia sommaria, erano delle solenni puttanate demagogiche, ma non aveva calcolato con precisione quanto fossero affini, i progetti di antidemocrazia diretta, a un discorso da bar generico e alla fine noioso, irrappresentabile con un minimo di dignità scenica. Con la morte del Gran Compare gli è venuto a mancare il regista ideologico del cabaret, si è ritrovato in linea dinastica con il suo assistente, e non deve essersi trovato granché bene.
Nonostante le sue qualità di improvvisatore da balera, da studio televisivo, da strada, Grillo viveva nel “paradosso sull’attore” di Denis Diderot, l’enciclopedista del Settecento che aveva ingabbiato gli uomini di scena, in un celebre saggio, nello schema illuministico della razionalità e della disciplina: imitatori creativi certo, ma up to a point. Ecco, con la masnada arrembante, scalpitante, avida e litigiosa, che si è ritrovato al seguito, con quella turba di scimuniti, pensa Grillo, non si va da nessuna parte, la recita non ha più un sapore creativo né disciplinato e razionale. Che palle, deve avere pensato, meglio il botteghino di Rousseau, quella piattaforma commerciale e politica incline ai giochi elettorali delle alleanze e del sottopotere degli ambiziosi velleitari. Svanì per sempre il sogno suo d’amore, l’ora è fuggita, e il melodramma a 5 stelle del piccolo potere ha sostituito l’epica corsa cabarettistica del comico che voleva far ridere dal palco e si ritrova la malinconica saga di una sottomarca della politica in marcia.