Contro le quote rosa
Perché l’alternanza di genere del Rosatellum e l’obbligo di candidare le donne non servirà a riavvicinare l’impegno femminile alla politica. Un girotondo di opinioni
L’alternanza di genere prescritta dal Rosatellum vieta che più del 60 per cento dei candidati di una lista e dei capilista di ciascun partito siano uomini o donne. La cronaca della campagna elettorale di questi giorni è piena di divertenti episodi (ma pure toni) che quasi ci convincono: stavolta è fatta, la rigenerazione della classe politica è compiuta, la democrazia paritaria sta facendosi effettiva, grazie quote rosa.
La presenza femminile nel Parlamento che stiamo pensionando è del 30 per cento. "Ma diminuirà", dice Anna Paola Concia
Dobbiamo crederci? Flavia Perina dice al Foglio: “L’alternanza uomo-donna di questa legge elettorale consente una delle tante soluzioni all’italiana: si mette al primo posto in quattro collegi la stessa donna, al secondo un uomo, al terzo una donna, al quarto un uomo e così si supporta la disposizione di legge. Tuttavia, poiché non si può essere eletti in quattro collegi, la capolista deve sceglierne uno, liberando, negli altri, l’accesso agli uomini. I parlamentari hanno votato entusiasticamente – molto più delle parlamentari – questo sistema, perché salva tanto la loro immagine quanto la politica maschile”. La questione è annosa, ma il problema non risiederà magari nel principio stesso delle quote rosa? Quante femministe, politiche, cittadine abbiamo sentito, negli ultimi anni, deprecarle prima come sistema discriminatorio e poi come soluzione tampone, ininfluente su un piano sistematico (“una riserva per panda!” secondo Virginia Raggi; “una riconduzione forzata al proprio sesso”, secondo Lea Melandri). “Non sarà un sistema perfetto”, dice Perina, “perché perfetto sarebbe poter competere alla pari, ma chiunque abbia un po’ di esperienza della politica italiana sa che senza un minimo riferimento alle quote, in Parlamento avremmo solo maschi sessantacinquenni. D’altronde, da quando voto, ho sempre visto che le liste elettorali coprivano, anche se non dichiaratamente, delle quote – operaia, giovane, anziana – quando i partiti squadernano una proposta politica davanti agli elettori, cercano di agganciarla a quella che è una fotografia del paese reale e delle sue categorie”.
Nel paese reale, la legge Golfo-Mosca (operativa dall’agosto del 2012, obbliga i consigli di amministrazione delle aziende quotate e pubbliche ad avere una rappresentanza femminile pari almeno a un quinto) sembra stia funzionando: ieri il Sole 24 Ore riportava che il 33,5 per cento dei posti nei cda delle 237 società quotate in Borsa al mercato telematico è occupato da donne. In più, la presenza femminile nel Parlamento che stiamo pensionando è del 30 per cento.
“Scommetto che diminuirà – dice Anna Paola Concia – perché alle quote rosa non abbiamo affiancato né un cambiamento di sistema, né una proposta politica che concretasse il lavoro di una classe dirigente composta, com’è composta l’Italia, di donne e uomini e che si battesse prima e incarnasse poi un equilibrio della rappresentanza”. Insomma, solo fuffa? “No. Io ho votato la Golfo-Mosca: non c’era altra strada che introdurre un obbligo. Vengo, però, da una stagione politica di grande protagonismo femminile, quella della Carta delle donne: era il 1987, non c’erano quote rosa eppure le donne lavoravano insieme, le loro battaglie avevano una rilevanza apicale”. E ora? “Vedo che gli uomini invadono la politica e le donne se ne allontanano”. E perché? “Contano molto due fattori: la selezione, anche con le quote rosa, resta nelle mani di dirigenti di partito, che sono sempre maschi; la politica ha smesso di riconoscere il merito e la competenza, quindi le donne preferiscono prestare il proprio talento dove viene riconosciuto e, soprattutto, impiegato”.
Armeni: "Le quote rosa non mi convincono, ma appena un uomo si dichiara contrario, la parte più irrazionale di me ha il sopravvento"
“Se dovessi fare una battaglia politica, oggi, la farei per stabilire che non sia un segretario di partito a scegliermi – e soprattutto a scegliermi in quanto donna: mi sembra una prospettiva più aperta e liberale”, dice Ritanna Armeni, che sulle quote rosa non è “pregiudizialmente contraria”, ma scettica sì: “Abbiamo un parlamento con un 30 percento di donne: ci sono state minoranze ben più inferiori che hanno saputo farsi valere. Gli uomini che stanno lamentandosi perché non trovano candidate mi fanno sorridere: dalle donne, invece, mi aspetto che siano audaci, rompipalle, insistenti, e che non si accontentino di accessi favoriti dalle quote, perché hanno tutti gli strumenti per ottenere di più, molto di più”. Deve valerne la pena. “Se per decenni abbiamo combattuto il disinteresse della politica verso le donne, ora è diventato necessario agire in senso contrario: è la politica che ha smesso di interessarle, perché non è più il canale per incidere e intervenire nella vita pubblica. Sarebbe interessante calcolare i dati dell’astensionismo femminile: temo che sarebbero altissimi”.
Allora non è un problema di numeri: c’è qualcosa di parecchio più profondo, irrisolto (irrisolvibile no, si spera) nella relazione, certamente complessa, tra signore e politica. “La passione politica non ha mai coinvolto completamente le donne. Negli anni Settanta, le femministe lo rivendicavano come estraneità al potere maschile”, dice Franca Fossati. Cosa, da allora, non è cambiato? “Il fatto che, nel fare politica, le relazioni non contano, le sfere affettive sono sacrificate, il privato è archiviato: questo rende la carriera pubblica, per una donna, inaccessibile, persino ininteressante. Le quote rosa non mi convincono, ma non sono contraria. Di certo, né le quote né una somma di leggi sul Welfare saranno mai risolutive se non si istruiscono modalità differenti di fare un partito, di starci dentro”.
Sarebbe un quadro di disillusione, se non fosse che la componente di attivismo e impegno femminile è altissima. Dice Luciana Castellina: “Intendiamoci su cosa significhi fare politica: non si tratta solo di stare in Parlamento, lavorare in un partito. Questa legge elettorale non favorisce l’ingresso femminile e, anzi, lo rende uno strumento di facilitazione di quello maschile: le donne, di nuovo, hanno fatto voto di generosità. Fuori, però, continuano a darsi da fare. Non che avessero mai smesso: il Pci, in tempi senza quote, ha avuto 500 mila iscritte. Oggi, molte donne ce ne sono solo nel Parlamento europeo, perché non conta niente”. Eppure, l’immagine, la rappresentazione, il simbolico sono fondamentali: “La democrazia”, dice Chiara Valerio, “non è qualcosa di naturale, l’abbiamo inventata e dobbiamo, in qualche modo, garantirla. Penso dunque che qualsiasi strumento riequilibri la presenza nelle istituzioni del numero delle donne, rispetto a quello degli uomini, sia necessario. E non per questioni di genere, di campanile, di rivincita o di giustizia. Per una faccenda logica, e statistica. Perché l’immagine di un’Italia, piena di donne, deve essere ridotta, in certe sue istituzioni, all’immagine di un’Italia dove le donne sono poche e rare? La democrazia è, oltre a un’immagine del mondo, un sistema costoso perché rappresentativo – non esiste democrazia senza costi di rappresentanza – e perché dunque favorire, attraverso elezioni, una rappresentazione completamente sbagliata?”. E questo è il mondo come rappresentazione. Poi? Non resta comunque il problema, pratico, di una politica incompatibile con la vita delle donne? “La politica si fa ventiquattr’ore su ventiquattro: non è pensabile cambiarla. Quello che, invece, si può fare è fornire alle donne degli strumenti che le rendano libere di scegliere e non delle soluzioni ipocrite che le riducano a mezzi”, dice Daniela Santanchè. Qualche esempio? “Noi come Fratelli d’Italia abbiamo proposto un bonus infanzia di 400 euro al mese per i primi sei anni di vita di ogni minore a carico; la deducibilità del lavoro domestico, l’equiparazione per le tutele delle lavoratrici autonome, gli asili, la soppressione dell’Iva sugli articoli della prima infanzia. Se aiutiamo le donne a conciliare vita e lavoro, le rendiamo capaci di competere alla pari con gli uomini, senza protezioni svilenti”.
C’è una cosa che Armeni ci confessa, ridendo: “Le quote rosa non mi convincono, ma appena un uomo si dichiara contrario, la parte più irrazionale di me ha il sopravvento e sono pronta a ricredermi”. Dobbiamo fidarci dell’ irrazionalità? “So solo che il mio lato più emotivo è, forse, quello più politico”.