Leoluca Orlando (foto LaPresse)

2018, fuga dall'antimafia

Salvo Toscano

I moralizzatori di professione fuori dalle liste. Perdono credibilità, la politica non ha più bisogno di loro

Un tempo qui era tutta antimafia. E al momento di attrezzare liste per qualsivoglia competizione, la caccia al “santino” legalitario era un copione fisso. Soprattutto a sinistra. Altri tempi, se si guarda allo spartito di queste politiche. Le prime dell’era post-antimafiosa in Sicilia.

 

Le icone dell’antimafia politica restano tutte, o quasi, a casa. Travolte dal nuovo corso del Pd di Matteo Renzi. E più in generale dalla grande sofferenza del variopinto mondo dell’antimafia di Palazzo, che ha accusato negli ultimi anni i colpi di scandali e sputtanamenti.

 

Il volto della débacle è anzi tutto quello di Rosario Crocetta. L’ex governatore aveva detto di aver avuto la parola di Matteo Renzi per un posto in Parlamento, quando qualche mese fa s’è fatto da parte in occasione delle regionali, perse in malo modo dal centrosinistra. Ma il posto in lista non è arrivato e Crocetta è rimasto vittima del repulisti renziano, che ha fatto tabula rasa nell’Isola – e non solo – lasciando spazio per lo più esclusivamente a fedelissimi del segretario e del suo colonnello siculo Davide Faraone. Apriti cielo. L’ex presidente della Regione, che ha lasciato al suo successore un’eredità di macerie politiche, ha gridato al tradimento, dicendosi pronto a fare campagna elettorale con tanto di comizi contro il Pd in giro per l’Isola.

  

Un tempo la caccia al “santino” legalitario era un copione fisso. Soprattutto a sinistra. Il nuovo corso del Pd di Renzi ha travolto tutto

Il Pd “non è più un partito antimafia”, attacca l’ex governatore. Che non risparmia il colpo basso del “mascariamento”, l’arte dell’imbrattare, piatto forte del menu dell’antimafia politica: “Renzi ha preferito schierare il rettore Navarra, nipote del capomafia di Corleone. Quelli ormai sono i riferimenti del Pd”. Parole stigmatizzate dall’interessato, magnifico dell’Università di Messina (con tanto di minaccia di querela urbi et orbi), il cui famoso zio medico fu ammazzato sessant’anni fa da altri mafiosi prima ancora che lui nascesse. “Questo è un modo violento, anche cattivo di interpretare la politica – fa spallucce il renziano Faraone –. Il Pd è un partito garantista, siamo distanti anni luce dalla visione giustizialista di Rosario Crocetta”.

 

Una stagione è finita. E questo appare fin troppo evidente. Gli eccessi teatrali di un certo professionismo antimafioso ne hanno accelerato l’agonia. La legalità col bollino blu, quella dei moralizzatori in servizio permanente, non fa più presa su un’opinione pubblica smaliziata, al netto degli ultrà irriducibili. E i partiti, mangiata la foglia, hanno messo in soffitta i monumenti della conventicola. Come Beppe Lumia, sempreverde senatore di Termini Imerese, entrato in Parlamento nel 1994 con la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto e mai più uscito. Allo scorso giro, per aggirare il limite di mandati dei dem, attrezzò col socio Crocetta una lista collaterale al Pd, il Megafono, che gli permise di tornare a Palazzo Madama. Stavolta non c’è stato niente da fare. A nulla è valso avere abbracciato la causa di Michele Emiliano: Lumia, già Richelieu dei governi di Raffaele Lombardo e Rosario Crocetta (lo chiamavano malignamente “il Senatore della porta accanto” per la sua assidua presenza a Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione), è rimasto a piedi.

 

Non si è trovato posto nemmeno per Giuseppe Antoci, il presidente dell’Ente parco dei Nebrodi scampato a un attentato mafioso. Sponsorizzato da Crocetta e Lumia, invitato pure alla Leopolda, di Antoci si era a lungo parlato come di un possibile candidato alle politiche. Niente da fare neanche per lui. 

 

Persino la più fulgida delle icone, cioè il magistrato minacciato da Cosa nostra Nino Di Matteo, non è più nei piani dei grillini

E dire che dopo gli scandali che ne hanno minato la credibilità, l’antimafia di potere ha cercato di parare il colpo. E lo ha fatto attuando la strategia che le è dà sempre più congeniale, ossia l’attribuzione di patenti di credibilità. Aprendo di fatto una sorta di processo all’antimafia celebrato da un pezzo dello stesso club, che ha provato a tracciare un’ideale linea sulla lavagna per separare i buoni dai cattivi, senza scomodarsi a operare un più generale esame di coscienza sui limiti intrinsechi del fenomeno. E così, ad esempio, la commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi ha imbastito nell’ultimo biennio un’indagine sull’antimafia stessa, a caccia di mistificatori e avventurieri, che di certo non mancano. Quella stessa commissione che prese a pesci in faccia il prefetto Giuseppe Caruso quando questi ebbe l’ardire di sollevare dei dubbi sulla gestione dei beni confiscati alla mafia, prima che scoppiasse il bubbone dell’inchiesta sul magistrato Silvana Saguto e sugli altri big del ricco business di Stato dei patrimoni sottratti ai boss o ai presunti tali. Indeboliva le Istituzioni, si sentì più o meno dire lo sventurato ascoltato dai commissari da San Macuto. Un ritornello già sentito.

 

Anche Rosy Bindi, che non ha chiesto deroghe, esce di scena a questo giro. Il suo vice in commissione Antimafia, Claudio Fava, nel frattempo è entrato all’Assemblea regionale siciliana e saluta anche lui il Parlamento nazionale. Nella fase della composizione delle liste non ha avuto voce in capitolo dalle parti di Liberi e uguali, tanto da criticare apertamente il progetto di Piero Grasso.

 

E poi c’è lui, il proto-professionista dell’antimafia, l’eterno sindaco Leoluca Orlando. Che resta ancora in partita dando fondo alla sua navigata e democristianissima arte di sopravvivere politicamente, lui ultimo leader di partito delle elezioni politiche del 1992 – ai tempi della Rete – ancora sulla breccia. Ma per rimanere in gioco, al ribelle Orlando, quello che si vantava di essere un sindaco senza partito, è toccato imboccare la strada della normalizzazione,  prendendo la tessera del Pd di Renzi. Cioè il partito che per cinque anni ha detto a Palermo peste e corna di lui – ricambiato – salvo poi sostenerlo alle amministrative dell’anno scorso. Lontani gli anni del “sospetto anticamera della verità”, Orlando è entrato nel Partito democratico  in fretta e furia,  giusto in tempo per garantire un posticino al sole al suo  braccio destro Fabio Giambrone, già senatore di Italia dei valori, piazzato capolista  nel proporzionale a Palermo con i dem. Un passaggio che avrà come prossimo step un rimpasto politico in giunta, alla faccia del “civismo” politico sbandierato per anni dal sindaco, uno che dai partiti non si è mai voluto fare imbrigliare, sin dai tempi della Dc.

 

Insomma, qualcosa è cambiato nei rapporti tra antimafia e politica. E l’intoccabile moloch degli anni scorsi ha perso parecchio smalto. Complici le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto alcuni nomi di peso, ma anche l’infelice stagione dei governi regionali guidati da Rosario Crocetta. E così, persino per la più fulgida delle icone, cioè il magistrato minacciato da Cosa nostra Nino Di Matteo, a lungo in predicato di un posto da ministro in un eventuale governo pentastellato, non è più nei piani dei grillini. E’ stato lo stesso Luigi Di Maio a dire che la toga palermitana non sarà ministro (si era parlato degli Interni), proprio nei giorni in cui a Palermo si svolgeva la requisitoria-fiume del processo sulla Trattativa Stato-mafia, nel quale sono state chieste pene pesantissime. Quelle pene che nei processi dello stesso filone già chiusi non sono fin qui arrivate.

 

La legalità col bollino blu non fa più presa sull’opinione pubblica. E i partiti hanno messo in soffitta i monumenti della conventicola

Una stagione si è chiusa? “Chi organizza le liste, con una certa dose normale di cinismo sceglie chi può raccogliere consenso. Ed evidentemente si ritiene che l’antimafia urlata, ostentata, usata come una scimitarra per tagliare la testa agli avversari non ne raccolga più”, dice il docente di diritto penale Costantino Visconti, autore del pamphlet “La mafia è dappertutto”. Falso!, che però rimarca un concetto non da poco: “Questo fenomeno però non corrisponde, come si potrebbe temere, a un calo dell’attenzione verso il fenomeno mafioso. Non vedo quell’indifferenza generalizzata contro la quale era giusto urlare venti o trent’anni fa, semmai una cultura e una prassi diversa nelle istituzioni, quella di un’antimafia di contenuti”.

 

Certo, un’eccezione e di peso non manca. Ed è Piero Grasso, già procuratore nazionale antimafia, poi presidente del Senato, oggi leader dell’ennesimo esperimento a sinistra del Pd, quel Liberi e Uguali che punta a far male, nei piani di D’Alema & Co., a Matteo Renzi. Grasso corre nella sua Palermo, sia in un collegio uninominale sia nel proporzionale e nel capoluogo siciliano ha lanciato la corsa della lista, con uno speech che in realtà ha toccato anche i temi legalitari ma senza farne il piatto forte del menu di LeU.

 

Salvatore Lupo, lo storico che una certa antimafia purista ama quanto Superman la criptonite per i suoi scritti con il giurista Giovanni Fiandaca, la mette così: “Sono d’accordo sul punto che ovviamente siamo di fronte a qualcosa di residuale rispetto al passato. Ma questo residuo è gigantesco. Perché effettivamente questa vicenda dell’antimafia è stata un fatto di importanza straordinaria nella nostra storia. Come dimostra il fatto che a distanza di tanti anni abbiamo ancora uomini che hanno incarichi istituzionali così importanti che derivano da quella stagione, dal presidente della Repubblica al presidente del Senato e fino a ieri il presidente della Regione siciliana. Poi sta a ognuno valutare se questa lunghissima coda sia un fatto positivo, non mi sento di dare un giudizio tranchant su questo”.

 

Non c’è Beppe Lumia, entrato in Parlamento nel 1994 e mai più uscito. Non c’è Giuseppe Antoci, invitato pure alla Leopolda

Il “brand”, insomma, per quanto usurato ha ancora un suo peso, osserva Lupo. E in effetti, va annotato come il primo atto significativo del nuovo governatore siciliano Nello Musumeci sia stato quello di sostituire a capo della elefantiaca burocrazia regionale la potente zarina Patrizia Monterosso, ascoltatissima da Crocetta, con l’avvocato Maria Mattarella, figlia di Piersanti, presidente della Regione ucciso dalla mafia, e nipote del capo dello stato. E’ lei da qualche settimana il nuovo segretario generale di Palazzo d’Orleans.

 

Coda o non coda, è difficile negare che l’antimafia politica viva una stagione di cambiamento. Dopo avere dominato la scena con un protagonismo durato a lungo. “Spesso ho lamentato che anche i miei colleghi sottovalutino questa svolta dell’antimafia che è stata importantissima. Più il tempo passa più io ne percepisco il peso che va valutato storicamente come qualsiasi fatto importante della nostra storia”, osserva Lupo. Visto anche che, aggiunge lo storico siciliano, “è l’unico aspetto per il quale il Mezzogiorno ha avuto una qualche importanza nella storia recente del nostro paese. L’antimafia è stata un impasto tra tante cose importanti, positive e forse anche qualcuna negativa”.

 

Che nel bagaglio della galassia antimafia vi fosse una sporta abbondante di “cose positive”, per citare Lupo, nessuno può negarlo. Soprattutto agli albori del movimento, nato dal basso con una spinta di spontaneismo che segnò un momento cruciale nella storia dell’Isola. E più d’uno oggi si interroga sul rischio che, sbaraccando il grande circo in cui l’antimafia si era andata trasformando, si rischi di buttare il bambino con l’acqua sporca. Finendo per fare un grosso favore alle mafie e all’illegalità. Un’antimafia più debole può fare più forte la mafia? “E’ il serpente che si morde la coda – risponde Lupo –. Io potrei dire al contrario che questo è conseguenza dell’indebolimento della mafia. Come spesso avviene certe forze si lamentano dei risultati che loro stesse hanno ottenuto e che vanno a loro merito. Ovviamene non voglio dire che le mafie non siano un problema del paese oggi. Certamente però la mafia siciliana è andata a depotenziarsi, anzi è stata depotenziata. E l’antimafia per come veniva praticata ai tempi dei Corleonesi non ha più senso”. E i partiti, a guardare le liste per il 4 marzo, sembrano averlo capito.

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