C'era una volta An
Nel litigio tra Alemanno e Storace c’è lo spelacchiamento di un mondo che si sfinisce su Whatsapp
Roma. “Le tue sono chiacchiere ciniche. Vai a incassare il nulla. Avrei dovuto lasciarti per strada”, gli scrive Francesco. E Gianni: “Sai solo offendere. Ti sei dimesso dal Movimento per problemi di collegio. Adesso che vuoi?”. E allora Francesco: “Certo, racconta pure questa. Mi ero dimesso da presidente non dal movimento. Saluti montiani”.
Un minuto dopo, sulla chat di Whatsapp del loro piccolo partito, tragicamente chiamato “Mns”, cioè Movimento nazionale per la sovranità, Francesco per un attimo torna l’Epurator dei tempi d’oro, quando era presidente della Vigilanza Rai alla metà degli anni Novanta, quando Gianfranco Fini era il principe e lui il suo selvatico scudiero: “Francesco Storace ha rimosso Gianni Alemanno”. E uno dopo l’altro, ecco cacciati da WhatsApp tutti gli alemanniani.
E in questa rancorosa golosità di lite, in questa scissione in sedicesimo tra due uomini che nella destra romana e nazionale pur hanno avuto la loro fierissima grandeur, in questa baruffa nel sottoscala del trascurabile “Movimento nazionale per la sovranità”, nel divorzio tra un ex presidente di Regione e un ex sindaco di Roma ed ex ministro che oggi si assordano con richiami, insulti, imbonimenti e provocazioni, non c’è solo la fine di un’amicizia e di un antico rapporto di solidarietà, ma c’è il definitivo crepuscolo di un mondo ormai tramontato, con la sua politica, le sue abitudini, il suo potere e le sue consolazioni romantiche. E l’unica solidarietà che ancora cementa questa classe dirigente decaduta è forse la memoria degli anni Settanta, del Msi di Almirante e degli extraparlamentari di destra, un piccolo cimitero di vittime e carnefici, un cimitero di famiglia, alla cui memoria – che stinge irrimediabilmente col passare degli anni – sono tutti devoti.
Avevano incredibilmente espugnato la Roma dominata dal Pci e dal Pds, forse la più efficiente, radicata, tentacolare macchina da guerra elettorale e del consenso che l’Italia repubblicana abbia mai conosciuto. Passarono incolumi dalla teoria dei “Berretti verdi” di John Wayne alla prassi del governo. E con l’aria di chi si sente preso per il gomito dalla buona sorte e si lascia fiduciosamente sospingere verso gioiose scadenze, erano entrati nelle stanze del potere, un po’ incerti e un po’ gradassi, pieni di speranze e di promesse, un cosmo che mutava la sua vecchia pelle missina e non sapeva ancora com’era fatta quella nuova: la Sanità e i piani regolatori, gli incontri internazionali e le fondazioni, i ministeri e le partecipate, le nomine e gli orizzonti di gloria, la legittimazione e lo sdoganamento dalle formulette antifasciste.
Nel 1994 il missino Silvano Moffa divenne il primo presidente della provincia di Roma eletto direttamente dai cittadini, mentre Fini entrava al governo con Silvio Berlusconi. E da quel momento in poi ogni cosa fu possibile. Storace presidente della regione Lazio, rieletto, e poi Alemanno su su fino al balcone del Campidoglio, quello spalancato sull’eternità dei Fori imperiali e dell’Arco di Settimio Severo. E’ storia, ma è quasi cronaca.
Dunque Gianni e Francesco, Francesco e Gianni, caratteri diversi, opposti, Alemanno tormentato e Storace un caterpillar, ma un unico destino chiamato Destra sociale, corrente e partito nel partito, fronda di lotta e di governo dentro Alleanza nazionale, architettura complessa, vitale e vincente. Una vicenda umana e politica che si spelacchia in esperienze di governo discutibili, separazioni e riaggregazioni, e che adesso deflagra in scala nanometrica, e nel disinteresse dei più, intorno al ruspante Sergio Pirozzi, il sindaco di Amatrice che non piace ad Alemanno e che invece ha il sostegno di Storace. “A me nessuno mi ha chiesto di appoggiare Pirozzi e nessuno ha dato mandato a Storace di farlo quando era Presidente del partito. Di che state parlando?”, scrive Alemanno nella piccola chat che raccoglieva il piccolo gruppo dirigente del piccolo partito.
Erano gli uomini nuovi nell’Italia della Seconda Repubblica, ora litigano per qualche posto di risulta al Consiglio regionale del Lazio: mezzo candidato a Frosinone, un posto in bilico a Viterbo. Sospinti dal richiamo di micro tifoserie, ormai nell’ordine di poche centinaia di follower sui social, respinti da Salvini che non li ha voluti nella Lega ma anche da Berlusconi che non li recupera in Forza Italia, eppure incapaci di sottrarsi dalla dipendenza compulsiva della politica e da un gioco che attorno a loro si fa sempre più misero e di risulta, Alemanno e Storace sono l’ultimo capitolo di una storia che riassume in sé la tragedia di un mondo al crepuscolo. Fini travolto e macchiato dall’affaire della casa di Montecarlo, rovinato dalla giovane moglie e dal cognato. Ignazio La Russa – lui che fu coordinatore del Pdl e titolare d’una firma che valeva il 30 per cento di un partito che arrivava al 40 per cento dei consensi – relegato ai margini di Fratelli d’Italia, il movimento di Giorgia Meloni, quello che un tempo era una corrente di una sottocorrente romana di An, i Gabbiani, e che adesso si è fatto partito, ma sempre endogamico come una setta.
Nel prossimo Parlamento, con il Cavaliere, dei vecchi colonnelli che furono di An, scomparso in un tragico incidente stradale Altero Matteoli, sopravvive soltanto Maurizio Gasparri. E allora c’è chi bussa da Salvini, che non apre. E chi come Italo Bocchino è tornato ai propri vent’anni, cioè al Secolo d’Italia, che però non è più quel giornale vivo e sanguigno, di carta e d’anima che fu un tempo ormai remoto. E c’è persino chi come Massimo Corsaro si offre a CasaPound, tutti sbattuti non si sa più da quale risacca politica, distillati da pene incruente, compresse, quietamente corrosive. Ancora inconsolabili per il giorno fatale in cui il mondo si spense di colpo, come se qualcuno avesse girato un interruttore.
E’ destino che, quando si sono amati male, gli ex ancora si cerchino, si spiino, si sfuggano, in un odio tormentoso e profondo, di solito regolato dagli avvocati. Sempre c’è un arretrato di rapporti e di contrasti personali irrisolti quando si sfalda una rete di amicizie e di solidarietà. “Avrei dovuto lasciarti per strada”, dice Storace. “Sai solo offendere”, gli risponde Alemanno. Non avevano nemmeno diciott’anni quando giravano per le strade cupe della Roma degli anni Settanta, la Roma di piombo. Sprangate, molotov e bottigliate. Storace, impetuoso ed energico nel suo eskimo verde macchiato di colla che non lavava mai, e Alemanno, rotondetto e panzottello, educato e vibrato da sogni di audacia. Uno guidava la macchina di Michele Marchio, il capogruppo del “mis” in Campidoglio. E l’altro frequentava la mitica sezione di via Sommacampagna, quella di Teodoro Bontempo. Dal Congresso di Fiuggi del 1995, con la loro mozione, che si chiamava il Cantiere, sono stati alterni alleati fino all’uscita di Storace da An nel 2007. E insieme hanno toccato il cielo, e sono precipitati.
Adesso, a sessant’anni, ormai fuori da tutto ma incapaci di smettere, si sono ritrovati e riabbracciati, e infine mollati e schiaffeggiati. E per motivi che nella loro misera labilità probabilmente non sono ben in grado di ricordare nemmeno loro da un giorno all’altro. Tutto si consuma in una vampata che non prevede alcun tumulto degli spiriti, nemmeno una lacrimuccia. Tra miraggi della memoria e fughe nei paradisi di un passato perduto. Finisce così, con una chat di Whatsapp, “Francesco Storace ha rimosso Gianni Alemanno”. Finisce con un “W Pirozzi”. Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, tentò di mettere lo stoicismo al servizio del potere lasciando malinconici pensieri del tipo: “Tutto quello che succede accade perché deve, e se tu osservi con attenzione, vedrai che è proprio così”.