La Lega antifascista
Antropologia di canottiere da dopolavoro e miti padani. Al cuore della rottura tra i vecchi e Salvini
Milano. Molto si discusse, in un tempo politico e antropologico remoto, della canottiera di Umberto Bossi. Che poi era la canottiera di Massimo Girotti in Ossessione, 1943, il primo film dell’antifascismo, americano eppure padano. A molti mai andò giù, l’esibizione di biancheria. Preferivano, per accostamento, le canottiere fascistissime del Duce. Ma no, era proprio antifascista.
Antifascista era la canottiera dell’Umberto, per quanto in versione popolana e non aristocratica à la Luchino Visconti. Esibizione di dopolavorismo, che altro? Del resto la Lega – il riscontro fu a suo tempo facile nella “gabina elettorale” – era una derivazione, e a tratti proprio uno spin-off, post democristiana. O in parte una fuoriuscita dalla base operaia del fu Pci: quando fu chiaro che il partitone non era più in grado di difendere il popolo lavoratore né il popolino. La Liga Veneta indipendentista, tanto per cambiare regione, ha nelle sue radici anche un’anima di sinistra, perfino gruppettara, che mitologizzava i movimenti indipendentisti-rivoluzionari di altre nazioni. Ha qualcosa da spartire, la Lega (senza più Nord) di Matteo Salvini, il suo sovranismo, i suoi miti lepenisti, le sue assonanze con la destra meloniana e casapoundiana, con quella base anti statale e destrorsa, certo sì, ma di diversa biancheria? “Ci sta trasformando in una fucina per neofascisti”, si sente perfino dire. Lo scontro delle anime s’è fatto duro.
C’è stata sempre – ovviamente – una componente di destra, destra vera, nel Carroccio. Ma era più cosa di circoli cultural-esoterici di Patrie Insubri e mitologie celtiche. Persino Borghezio, che razzista anche sì, era un cultore di disperse radici dei popoli europei, non uno sparatore da drive-by xenofobi.
“I nostri militanti a casa hanno i libri di Miglio, non il Mein Kampf”, dice il mantovano Gianni Fava, leghista d’antan. E al netto dell’ottimismo sulla caratura delle librerie padane, forse più affastellate di Zagor e di videocassette di Bravehart, dice una cosa che corrisponde alla genesi di quello strano fenomeno politico che è stata la Lega. Un movimento identitario, di scombicchierato indipendentismo e sognatore di verdi Svizzere federaliste e di Europe dei popoli. Che aveva (ha?) in odio per fiuto, per terragna intuizione, la Roma (ladrona) e per estensione anche il Ventennio: inteso come quello dei prefetti, del mito nazionale, del centralismo forzato.
Il disastroso esordio sulla razza bianca di Attilio Fontana c’entra, con la mutazione antropologico-politica della Lega salvinaia, fino a un certo punto. Lui è un varesino della vecchia scuola, appunto. Ma che ora, dopo i fatti di Macerata, con quel Traini ex candidato leghista da zero preferenze e con tricolore al collo, quel tiratore razzista da cui Matteo Salvini non è riuscito a prendere per bene le distanze esploda la pentola che già da tempo ribolliva, è una cosa ovvia. C’è una Lega che si rivenddica antifa. E’ una cosa probabilmente di poco conto politico immediato: non si sfasciano i partiti, quando i numeri vanno bene. Ma sotto il profilo della composizione politica della Lega, vecchia e nuova, è una cosa che ha la sua importanza. E ce l’ha, questo forse conta di più, per provare a capire come sarà il (centro)destra del futuro. Ammesso che ce l’abbia, un futuro insieme. Bobo Maroni, che nella sua biografia, altro che fascista, ha un errore di gioventù grupettaro di sinistra, e che è il pezzo da novanta del partito che proprio su populismo, xenofobia, fascismo ha rotto con Salvini, era stato il più lesto a twittare: “Che orrore. Questo è un criminale fascistoide non c’entra nulla con la gloriosa storia della nostra grande #LegaNord”. Con l’hashtag in verde Padania, e la dizione vecchia.