Pazzie sovraniste spiegate con l'agricoltura. Lezioni per Di Maio e Salvini

Claudio Cerasa

Europa, globalizzazione, immigrati. I numeri da urlo dell’agricoltura italiana dimostrano che, per l’Italia, le tesi dei populisti-sovranisti non sono solo sbagliate: sono pericolose

Luigi Di Maio e Matteo Salvini sono i gemelli diversi di questa campagna elettorale e per alcune ragioni che vale la pena mettere in fila sono parte di un unico e temibile progetto politico, al centro del quale vi è il concetto della chiusura. Il tema della chiusura non è un tema astratto ma riguarda alcune precise caratteristiche della nostra economia, sulle quali il leader del Movimento 5 stelle e il leader della Lega si trovano in modo naturale. Il partito dell’apertura chiede più Europa, il partito della chiusura chiede meno Europa. Il partito della chiusura chiede più protezionismo, il partito dell’apertura chiede più mercato. Il partito dell’apertura chiede meno dazi, il partito della chiusura chiede più dazi. Il partito dell’apertura chiede di rafforzare l’Euro, il partito della chiusura gioca con il referendum sull’Euro. Il partito dell’apertura chiede di avere un’immigrazione più regolata, il partito della chiusura chiede di avere meno immigrazione. Esistono molti modi per cogliere le differenze tra i teorici della chiusura e gli ambasciatori dell’apertura (uno potrebbe essere per esempio quello di rileggersi prima e dopo i pasti il formidabile discorso di Emmanuel Macron alla Sorbonne: “Oggi il nostro continente è esposto a delle idee che si presentano come capaci di risolvere i problemi rapidamente. 

  

Queste idee hanno un nome: nazionalismo, identitarismo, protezionismo, sovranismo. Queste idee molte volte hanno acceso bracieri dove l’Europa avrebbe potuto perire, ed eccole di nuovo riapparire con degli abiti nuovi proprio in questi ultimi giorni. Si dicono legittime solo perché sfruttano con cinismo la paura dei popoli”). Ma per capire in modo plastico in che senso le idee di cui sono portatori Salvini e Di Maio oltre a essere sbagliate sono anche pericolose c’è un campo che meriterebbe di essere messo a fuoco con molta attenzione. Quel campo riguarda il settore dell’agricoltura, che negli ultimi anni ha dimostrato di poter funzionare bene solo a condizione di portare avanti le tesi opposte a quelle di Salvini e di Di Maio. Per capire il perché partiamo prima con qualche dato e poi con qualche ragionamento. Nel 2017, il valore totale dei prodotti esportati dal nostro paese, ovvero l’export, ha toccato un livello importante: 450 miliardi di euro. Incremento rispetto al 2016: più 7 per cento. All’interno di questa forchetta il dato interessante è che ormai un decimo dell’export arriva dall’agricoltura. Nel 2017 la quota è stata pari a 41 miliardi. Crescita rispetto all’anno precedente: più 6 per cento. E ancora. Quasi i due terzi delle esportazioni agroalimentari dell’Italia interessano i paesi dell’Unione europea. Nel 2017, in Germania le esportazioni alimentari sono rimaste più o meno stabili (più 1 per cento), in Francia si è verificato un balzo del 7 per cento mentre in Gran Bretagna si è registrato un più 2 per cento. Gli Stati Uniti hanno registrato un incremento del 6 per cento delle esportazioni e sono oggi di gran lunga il principale mercato del nostro agroalimentare fuori dai confini dell’Unione europea (almeno fino a quando Trump non farà quello che Salvini e Di Maio vorrebbero fare in Italia: mettere i dazi, che ovviamente, dettaglio che sfugge a Di Maio e Salvini, non spetterebbe all’Italia ma spetterebbe all’Europa).

 

Accanto a questi dati ce ne sono altri poi che vale la pena memorizzare. Tranquilli, abbiamo quasi finito. Il primo dato riguarda i giovani, e l’Italia da qualche anno può vantare un record non male: il nostro paese ha 53.475 imprese agricole condotte da under 35 – più 9 per cento rispetto al 2016 – e in Europa nessun paese ha un numero tale di imprese guidate da giovani. Ripetete con noi: nessuno. Il secondo dato riguarda invece la composizione della forza lavoro di questo settore e anche qui il dato è interessante. In agricoltura trovano occupazione regolarmente 345 mila stranieri provenienti da 157 paesi diversi che oggi rappresentano un quarto del totale del lavoro necessario nelle campagne italiane. I distretti agricoli dove i lavoratori immigrati, secondo uno studio di Coldiretti, sono “una componente bene integrata nel tessuto economico e sociale”, “contribuiscono in modo strutturale e determinante all’economia agricola del paese”, “rappresentano una componente indispensabile per garantire i primati del Made in Italy” e la loro presenza, scrive ancora Coldiretti, è fondamentale per esempio nel caso della raccolta delle fragole nel Veronese, della preparazione delle barbatelle in Friuli, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte fino agli allevamenti da latte in Lombardia.

 

Questi dati, come è evidente, ci aiutano a riflettere su molte cose ma ci aiutano in particolare a mettere a fuoco alcuni concetti che evidentemente sfuggono alla grammatica dei Salvini e dei Di Maio. Proviamo a essere semplici e a utilizzare il minor numero possibile di congiuntivi.

 

Domanda numero uno: se l’Europa fosse meno integrata, meno aperta, più chiusa, oggi l’export italiano andrebbe meglio o peggio? Risposta esatta. Domanda numero due: se ci fosse più protezionismo, se ci fossero più dazi, se ci fosse una moneta per ogni stato, l’export italiano, che oggi vola anche grazie all’assenza di barriere, andrebbe meglio o peggio, in presenza di nuove barriere? Anche qui la risposta è esatta e ovvia. Domanda numero tre: se l’immigrazione, piuttosto che essere semplicemente governata, venisse stoppata, bloccata, come recitano gli hashtag senza senso di Matteo Salvini, un settore come quello agricolo, che campa anche di manodopera offerta dai migranti, sarebbe più forte o sarebbe più debole? Che i dazi producano dazi lo abbiamo scoperto nel 2013, quando l’Unione europea alzò i dazi sui pannelli solari e quando la Cina rispose con la minaccia di bloccare il mercato dei vini europei – costo stimato per le cantine italiane 77 milioni di euro, ma nel 2014 poi l’allarme è rientrato. Che la chiusura produca meno occasioni per fare affari attraverso l’esportazione lo dicono non solo i dati ma anche il buon senso (nessun paese è autosufficiente e, come ha ricordato recentemente Ismea in un suo rapporto sui rischi del sovranismo, il protezionismo aumenta anche il costo delle importazioni per le imprese che trasformano prodotti importati dall’estero: siamo i primi produttori ed esportatori al mondo di pasta ma non abbiamo grano a sufficienza e dobbiamo importarlo, e il protezionismo renderebbe tutto dannatamente più caro e complicato). Che la presenza di immigrati nel settore dell’agroalimentare sia fondamentale lo dice non solo la logica ma anche l’esperienza sul campo: “Senza il lavoro degli immigrati – ha detto la scorsa settimana il presidente dalla Confederazione Italiana Agricoltori, Alessandro Mastrocinque, l’agricoltura italiana andrebbe in difficoltà, perché alcune produzioni non possono essere meccanizzate. Se non ci fossero i lavoratori stranieri probabilmente non saremmo in grado di produrre, trasformare e vendere il nostro prodotto”. Nel suo discorso alla Sorbonne di Parigi, Emmanuel Macron ha ricordato che oggi “la sola strada che assicura il nostro avvenire è l’Europa e dobbiamo avere l’audacia di intraprendere questo cammino, perché l’Europa che noi conosciamo è troppo debole, troppo lenta, troppo inefficace, ma soltanto l’Europa può darci una capacità di azione nel mondo davanti alle grandi sfide contemporanee”. I numeri dell’agricoltura ci dicono tutto questo e ci dimostrano se mai ce ne fosse ancora bisogno che oggi scommettere sull’apertura è l’unica opzione possibile per avere a disposizione non solo un paese prospero ma anche una protezione che ci permetta di vaccinare l’economia dalle pazzie estremiste.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.