I borghesi stanno a guardare
Forse è ipocrita, forse non esiste più. I Cinque stelle minacciano di sfasciare il paese ma la grande borghesia tace e non prende posizione. In Francia e Germania, il coraggio c’è stato
Roma. Sarà che il fascino della borghesia è per sua natura discreto (vabbè), sarà che quella italiana, soprattutto la grande, è un poco esangue; stupisce però il suo silenzio di fronte alle elezioni imminenti. Risulta impossibile trovare qualche grande o medio imprenditore che biasimi o stigmatizzi partiti anti sistema, allegri populisti della spesa pubblica, rimborsisti a mezzo servizio, teorici di “una vita in vacanza”. Insomma, nessuno dice nulla su un eventuale successo dei Cinque stelle. L’ex direttore del Corriere della Sera nonché del Sole 24 Ore, Ferruccio de Bortoli, qualche giorno fa sul quotidiano di Via Solferino se la prendeva proprio col silenzio della classe dirigente, con il “silenzio e ipocrisia” della borghesia italiana verso elezioni così importanti. Eppure altre borghesie un po’ più pimpanti, ad altre latitudini, quando serve si esprimono eccome. A Parigi l’associazione degli imprenditori, il Medef, aveva denunciato chiaramente il pericolo lepenista prima delle elezioni scorse vinte da Emmanuel Macron. Ancor più in Germania, dove Dieter Kempf, il presidente degli industriali, prima delle elezioni tedesche dell’autunno scorso disse d’essere preoccupato da quei partiti che non rispettano la democrazia parlamentare, che fomentano l’odio veicolato dai social, che non accettano la sfida dell’apertura tecnologica, che avendo in testa solo la logica della redistribuzione scelgono di combattere la ricchezza. E a Roma? Si sta in finestra?
Ferruccio de Bortoli sul Corriere se l’è presa col silenzio della classe dirigente davanti a elezioni così importanti
Giuseppe Turani, direttore di Uomini e business, una vita a Repubblica, entomologo della Razza padrona (così si chiamava un suo libro scritto nel 1974 con Eugenio Scalfari): “La grande borghesia, quella che andava a cena coi Kennedy”, dice, “non c’è più. Ci sono dei signori con molti soldi che però non hanno una visione internazionale. E’ tutto molto appiattito”. Quelli che andavano a cena coi Kennedy però erano un po’ un unicum, si obietta. “Il Senatore Agnelli era famoso perché disse alla moglie: fai tingere la camicia bianca, e poi quando sarà finito, sottinteso il fascismo, la laveremo”. Oggi la borghesia non prende posizione, neanche di adesione. “A tu per tu li considerano dei coglioni, ma poi ti dicono: perché mi dovrei esporre? E se poi me li trovo al governo?”. “Sono tutti molto prudenti, per così dire. Tutti dicono che non si esprimono perché molto impegnati. Della Valle a fare le sue scarpe, Montezemolo i suoi treni, Marchionne le sue auto. C’è un solo gran borghese che non è prudente, ed è Silvio Berlusconi”. Grazie, è il loro concorrente. “Ma non solo” riflette Turani. “Berlusconi nasce pubblicitario, lui agogna una società affluente. A lui l’idea della decrescita felice lo terrorizza, lo disgusta”. Gli altri comunque si sentono superiori ai vari populisti in lizza (e credono convintamente che poi una volta al governo, se mai ci arriveranno, faranno fare loro quello che vogliono), e li ritengono personaggi con cui non avere a che fare, meglio farli trattare con la servitù. Allo stesso tempo li temono: per questo non prendono posizione neanche sulle questioni più assurde. Una volta la Confindustria presieduta da Merloni, che non era proprio un cuor di leone, disse che il governo Spadolini era inconcludente. Adesso non c’è più nemmeno il coraggio di dire questo”. “Anche il Corriere” riflette Turani, che con la direzione di Paolo Mieli si era schierato con Romano Prodi”. Altri tempi. “Oggi non c’è più endorsement. Ma forse ci sbagliamo tutti e vale il lodo Templeton”. Prego? “Il lodo Templeton, dal nome della casa di investimenti. Secondo cui non bisogna affatto temere i Cinque stelle perché alla fine c’è l’Europa che tiene sotto controllo l’Italia, e dunque anche vincendo i grillini non riusciranno a far nulla, e l’Italia rimane un bellissimo paese in cui investire nonostante tutto”.
Un bellissimo paese un po’ tribalizzato, secondo il direttore della Stampa, Maurizio Molinari. “Queste elezioni politiche promettono di essere portatrici di una trasformazione politica frutto del vento di protesta che nasce da tre fenomeni: diseguaglianze economiche, migrazioni e terrorismo. E’ un vento che spazza le democrazie occidentali ed ora si affaccia sul nostro paese. La debolezza delle risposte che i partiti tradizionali, espressione dell’establishment, hanno finora dato a tali tre questioni, che investono la vita della maggioranza degli abitanti, ha consentito alle forze anti sistema di crescere nelle preferenze degli italiani. Facendo emergere, anche nel nostro paese, una versione tribale della politica che tiene sempre più banco anche in altri Paesi europei, dalla Spagna alla Polonia. Lì dove il tribalismo politico evidenzia l'indebolimento degli Stati nazionali. In ultima istanza l'esito del voto ci dirà quanto la politica in Italia sta abbandonando i partiti per essere preda delle tribù”.
Dario Di Vico del Corriere: “I Cinque stelle sono incompetenza più rancore finanziato in default. Come potrei non temerli?”
Se non tribale, almeno un paese in stato confusionale, secondo Guido Gentili, direttore del Sole 24 Ore. “Non direi che la borghesia italiana non vuole schierarsi. E’ piuttosto la legge elettorale che non dà alcuna garanzia sulla governabilità successiva, e dunque ha generato una campagna confusa. Questo, direi, spiega la difficoltà degli imprenditori a schierarsi. Per questo c’è grande apprensione. Perché non si capisce come sarà il dopo”. Gentili vede “larghe ondate di populismo demagogico in tutti i partiti. Tutti più o meno ricorrono per esempio all’idea del reddito di cittadinanza. Un tema sbagliato, perché occorre semmai il contrario, creare un mercato più allargato, con più occupazione, al posto di redistribuire fittiziamente più redditi. E’ una pericolosa rincorsa”. Altri temi, altre criticità: “Sull’euro mi sembra che il M5s abbia confermato la sua posizione, col referendum considerato soltanto extrema ratio. Non mi sembra messa in discussione la moneta unica. Si parla poi di dazi in maniera imprecisa, come se potessero essere decisi a livello nazionale. O di lotta all’evasione, che per carità va benissimo, ma secondo loro dovrebbe avere poteri magici. O, ancora, di lotta agli sprechi, che non significa nulla e coprirebbe cifre risibili rispetto agli impegni prospettati”. “Però non vedo difficoltà a schierarsi” riflette il direttore del Sole. “Del resto la Confindustria, nelle sue assise generali di venerdì prossimo, dirà chiaramente quali sono le sue richieste e presenterà la sua agenda, e vedremo che effetto che fa”.
Già, la Confindustria, chissà se ci saranno levate di scudi come quella degli omologhi tedeschi. Sul tema, il dg di Confindustria, Marcella Panucci, ha detto a Claudio Cerasa su questo giornale sostanzialmente che viale dell’Astronomia punta su una continuità, sul non distruggere quanto di buono fatto nel quinquennio che va terminando (dalle misure su Industria 4.0 alla legge Fornero), posizione che riassume quella del presidente, Vincenzo Boccia.
Il Medef lanciò un appello anti Le Pen. In Germania gli industriali si dissero preoccupati dai partiti che non rispettano la democrazia
In realtà gli industriali italiani sui Cinque stelle “in privato dicono cose molto più pesanti”, racconta al Foglio Massimo Giannini, già vicedirettore di Repubblica e direttore di Affari e Finanza. “Confindustria forse è rimasta scottata dalle prese di posizione sul referendum, quando il Centro studi aveva rilasciato uno studio secondo cui la vittoria del No avrebbe portato l’Italia allo sprofondo”. Di qui un certo attendismo a pronunciarsi apertamente sul quadro politico. Attendismo solo ufficiale, però. “Recentemente sono stato a un incontro all’ambasciata di Francia tra la Confindustria italiana e l’omologo Medef francese. E lì, presenti il presidente del consiglio Paolo Gentiloni, i vertici delle partecipate e delle aziende di sistema, da Giovanni Castellucci (Atlantia-Autostrade) a Francesco Starace (Enel) a molti altri, ci sono state parole molto esplicite”, dice Giannini, secondo cui la pericolosità del M5s è legata oltre alla mancanza di competenza, al suo non essere comunque in grado di mettere insieme una squadra di governo. “Io a differenza di Eugenio Scalfari non ho mai detto che tra Berlusconi e Di Maio sceglierei Berlusconi”, prosegue Giannini, “perché in una certa misura il Movimento rappresenta un cambiamento”. Ma al cambiamento manca il dato della competenza. E in questo sta la sua pericolosità. Non tanto nella portata eversiva dei Cinque stelle, molto inferiore di quella che sembra”. “Se pensiamo al gruppo dirigente, cioè in definitiva Di Maio, sono molto più pragmatici di come appaiono. Non apriranno il paese come una scatoletta di tonno e non affosseranno gli obblighi europei come il fiscal compact” dice Giannini. “Sono stati poi molto abili, con un lungo accreditamento presso l’establishment anche al di là delle iniziative pubbliche. Ci sono state anche molte iniziative a porte chiuse”.
Certo comunque la borghesia sta a guardare. “Mai come stavolta è stata così allineata e coperta” dice Giannini. “Ho trovato magnifico l’editoriale di de Bortoli” continua il giornalista. Però questo attendismo potrebbe generare, per una strana eterogenesi dei fini, una garanzia democratica. “Per come la vedo io, l’unica chance che ha Di Maio di vincere è presentare prima delle elezioni una squadra di governo forte, inattaccabile”. “Una squadra che abbia al suo interno pezzi pregiati di classe dirigente, come per esempio l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Il fatto è che però non sembra proprio che questo stia avvenendo. Così, l’attendismo paludato della borghesia potrebbe generare un perfetto boomerang”.
Paese in stato confusionale per Guido Gentili, direttore del Sole 24 Ore. “Non direi che la borghesia italiana non vuole schierarsi”
Dario Di Vico, inviato del Corriere e grande conoscitore delle classi dirigenti del paese, intanto non ci sta a chiamarla borghesia. “Non esiste proprio più nei termini che intendete voi, quella cioè di proprietari dei mezzi di produzione che abbiano anche una presa sulla res publica”, dice Di Vico.
“A Milano per esempio c’è la borghesia della conoscenza, che è un’altra cosa”. Un’ulteriore confusione, dice Di Vico, è quella coi poteri forti, “espressione che nacque alla vigilia delle elezioni del 1994, in un’intervista di Augusto Minzolini a Pino Tatarella, il quale si riferiva a Carlo De Benedetti”. Va bene, ma a parte i distinguo? Questa borghesia residuale, che fa? E che pensa di questi Cinque stelle? Di Vico ci pensa qualche secondo. “Non è pavida. Più che pavida è spaesata”. Non è che sperano in qualche benemerenza, qualche posticino? “E in cosa dovrebbero sperare? In un posto all’Atac? La vicenda dell’amministratore delegato dell’azienda di trasporto romana, Bruno Rota, mi sembra esemplare” (esempio di tecnocrate in quota società civile, per di più milanese, ex Atm, l’omologa di Atac a Milano, Rota è stato stritolato nel meccanismo romano pentastellato e risputato poco dopo, al grido di “questi sono delinquenti”, nda). Ma insomma questi grillini sono o no un pericolo? “Certo che lo sono”, dice Di Vico. Intanto per le loro ricette economiche. “C’è un libro di Giuliano Amato e Andrea Graziosi, ‘Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia’ (Il Mulino) che spiega come le classi dirigenti, cioè in sostanza la Democrazia cristiana, si siano rapportate al ’68. In quel caso le élite comprarono consenso facendo spesa pubblica, e generando debito. Allo stesso modo i Cinque stelle oggi producono rancore e poi sostengono che il rancore si compra con la spesa pubblica”. “I Cinque stelle sono incompetenza più rancore finanziato in default. Come potrei non temerli?”. E poi c’è soprattutto “l’antropologia negativa. Io distinguo sempre tra antropologia positiva e negativa. Loro hanno quella negativa. Non è neanche un populismo buono. E’ invidia sociale”. Più che il sole in tasca, la sfiga in tasca.