Massimo D'Alema (foto LaPresse)

Gli ultimi anni della sinistra italiana

Christian Rocca

 Ovvero vita, opere e girotondi di D'Alema: la spietata analisi di Cundari nel suo libro "Déjà vu"

"Déjà vu” è il nuovo libro di Francesco Cundari, giornalista serio, colto e raffinato. L’editore è Il Saggiatore, la copertina tipografica è bellissima, ottocentesca, malgrado uno strambo baffo Nike che, invece della tradizionale falce, incrocia il martello comunista e forma un nuovo logo che probabilmente vuole suggerire al lettore un messaggio di qualche tipo, magari anti neoliberista, ma che io non ho capito. Cundari ricostruisce con precisione analitica e rigore intellettuale, anche se si nota che spesso gli scappa da ridere, gli ultimi 25 anni dell’interminabile guerra della sinistra italiana e le sue innumerevoli contraddizioni. In realtà, si legge tra le righe del saggio di Cundari, la contraddizione di questi anni è stata una sola, al punto che un titolo più appropriato di “Déjà vu” sarebbe stato “Vita, opere e girotondi di Massimo D’Alema”. Ecco, forse, spiegato il baffo al posto della falce.

 

D’Alema, infatti, è la contraddizione vivente della sinistra italiana, oltre che l’onnipresente protagonista di questi 25 anni di storia politica a metà tra Shakespeare e il Trono di Spade. In questa storia, D’Alema ha interpretato tutti i ruoli possibili: uomo di partito e movimentista, riformista e conservatore, unitario e divisivo, falco e pacifista, di destra e di sinistra, di governo e di lotta, maggioritario e proporzionale, riformatore della Costituzione e Nuovo Patriota, garantista e dipietrista, occidentale e mediorientale, dialogante con gli avversari e pasdaran intransigente, in una stranordinaria e grottesca traiettoria di un uomo politico che voleva essere il Migliore ma che è finito, salvo capovolta prossima ventura, gregario “tardo sessantottesco” di Paolo Flores d’Arcais.

 

Cundari non è antidalemiano e questo rende la sua analisi ancora più spietata, un’ulteriore conferma delle ormai consolidate testimonianze di vecchi e giovani compagni di una antica stagione riformista dalemiana, da Matteo Orfini a Marco Minniti, da Claudio Velardi a Fabrizio Rondolino, da Andrea Romano a Nicola La Torre. Fino, appunto, a Cundari.

 

Cundari e io abbiamo lavorato per un periodo nella stessa redazione, al Foglio. Era il dalemiano più dalemiano che avessi mai incontrato, secondo forse solo a Orfini. In quel momento D’Alema era ancora lo statista riformatore che avrebbe voluto costruire una sinistra di governo centrata su un grande partito progressista e moderno. In realtà, erano già gli anni di Walter Veltroni leader del Pd e il riformismo di D’Alema mostrava i primi ma evidenti cenni di cedimento strutturale che Cundari e Orfini ancora faticavano a scorgere o, forse, più romanticamente non volevano vedere.

 

Anch’io, confesso, ho avuto un breve ma inteso momento dalemiano, culminato in una serie di articoli a sostegno della sua candidatura al Quirinale (ai tempi Cundari mi diceva che quello era “sesso, non amore”). D’Alema era quello che aveva aperto la divisione italiana della Terza Via di Clinton e Blair, anche se era più che altro un “temporary store”, aveva contributo a liberare il Kosovo ed era il ministro degli Esteri che vantava familiarità con Condoleezza Rice (“Bye-bye Condi”, disse vanitosamente al telefonino in modo da farsi sentire da Gianni Riotta con lui nel porticciolo di Marettimo per intervistarlo). Sul fronte interno c’è stato anche un D’Alema presidente della Bicamerale arrivato a un soffio dalla riforma della Costituzione, condivisa con Berlusconi prima che questi si sfilasse, secondo gli stessi principi della riforma Boschi che in condivisione con un altro voltafaccia di Berlusconi il più recente D’Alema ha contribuito ad affondare. C’è stato un D’Alema che nel 1997 all’inizio di un Congresso del PDS, di cui era segretario, le aveva cantate chiare al sindacato conservatore che frenava lo sviluppo e la ripresa, salvo fare marcia indietro tre giorni dopo in seguito alla reprimenda del segretario della Cgil Sergio Cofferati. Poi c’è stato il D’Alema opposto, per me insostenibile, ma capisco quanto sia pesato a Cundari censire tutte le trame dalemiane, iniziate (per limitarsi a quelle dell’ultimo quarto di secolo) con un discorso al seminario di Gargonza del 1997 e terminate con la recente scissione dal PD. 

 

“Déjà vu”, insomma, racconta il ciclo ormai prevedibile della sinistra italiana, una stagione di governo seguita da una di lotta. A stabilire quando è il momento dell’una e quando dell’altra è sempre D’Alema: riforme, aperture e unità quando lui ha posizioni di responsabilità; conservazione, nostalgia e frazionismo se le redini sono in mano a qualcun altro che non si chiami D’Alema. Ed è questa una delle ragioni, racconta Cundari, per cui dal 1996 a oggi la sinistra di governo è passata da Prodi a Gentiloni, con gli intervalli D’Alema, Amato, Rutelli, Veltroni, Fassino, Bersani, Letta e Renzi, ma ci metterei anche Ciampi, Napolitano e Mattarella, ovvero una quindicina di leader creati e consumati in ventidue anni contro un solo capo nello schieramento avverso.

 

Cundari racconta nel libro molti episodi esilaranti della storia della sinistra italiana post Prima Repubblica. Oggi fanno sorridere, ma allora sembrarono drammatici: dalla poesia di Neruda che però non era di Neruda letta in Parlamento dal Ministro della Giustizia Clemente Mastella, indagato dalla Procura di Santa Maria di Capua Vetere e poi assolto nove anni dopo, al momento delle dimissioni che condussero alla caduta del secondo governo Prodi, fino a un fenomenale intervento in romanesco dell’allora poco conosciuto scrittore Antonio Pennacchi nel corso di un surreale incontro, moderato da Bersani, tra partito e intellettuali come Gianni Vattimo, Furio Colombo, Fulvio Abbate, Alberto Asor Rosa diventati col tempo tra i principali accusatori dei Ds e poi del Pd. L’intervento di Pennacchi è un ritratto preciso del dibattito interno alla sinistra pre renziana: “Berlusconi ha proposto le autostrade, il ponte sullo Stretto; noi non semo riusciti a fa’ gnente, appresso a Pecoraro Scanio”.

Questo articolo è apparso su Camillo, il blog di Christian Rocca. Lo pubblichiamo per gentile concessione del Sole 24 Ore